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L'AUTOGRAFO

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da  http://ilmanifesto.info/referendum-renzi-ci-mette-le-firme-non-la-data/

Riforme. Il governo è ancora in tempo per fissare il voto a ottobre. Ma punta al dopo finanziaria. In Cassazione si salva per solo 4mila firme la richiesta del Sì. Tanti dubbi, ma i giudici dicono che non previsto un controllo pubblico. E anche il primo ministro dà i numeri


Giovedì scorso, 4 agosto, ventisei giudici di Cassazione dell’ufficio centrale per il referendum hanno ammesso anche l’ultima richiesta di referendum sulla riforma costituzionale, quella depositata dal comitato del Sì e accompagnata da 579mila firme di cittadini. La notizia è stata ufficializzata ieri con un comunicato stampa. Sia il comitato per il Sì che la raccolta delle firme sono un’idea di Renzi e del suo consigliere americano Jim Messina, ragione per cui ieri il presidente del Consiglio si è variamente compiaciuto: «Questa è una sfida di un popolo. Dipende da ciascuno di noi, non da uno solo», ha scritto. Registro assai diverso da quello con il quale aveva lanciato la campagna, quando spiegava che «chi vota no mi odia». Il referendum ci sarebbe stato in ogni caso, perché la riforma costituzionale è stata votata in parlamento con una maggioranza ridotta e perché la richiesta era già stata presentata dai parlamentari e accolta dalla Cassazione, il 6 maggio.
Anche l’esito positivo della (veloce) verifica della Cassazione sulle firme era cosa nota, questo giornale ne aveva scritto l’indomani, venerdì 5 agosto. La lettura dell’ordinanza offre però un dettaglio importante: il numero di firme verificate come effettivamente valide dai giudici è appena sufficiente ad autorizzare la richiesta di referendum: 504.387, la soglia minima essendo fissata a 500mila. L’iniziativa di Renzi, dunque, è salva per un pelo. Il che aggiunge dubbi in quanti avevano già notato il «miracolo» delle firme per il Sì che si producevano in assenza di banchetti destinati a raccoglierle. Due cose in effetti colpiscono. La prima è la scarsissima percentuale di firme scartate dalla Cassazione. Nel caso delle ultime proposte di referendum abrogativo arrivate alla suprema corte con le firme necessarie, quelle dei radicali sulla giustizia nel 2013 e quella di Parisi, Di Pietro e Segni contro il Porcellum nel 2011, la percentuale di sottoscrizioni ritenute non valide è stata dal 25% nel primo caso e del 55% nel secondo. Nel caso delle firme «renziane» la percentuale di scarti è stata appena del 12%. Il controllo cartolare è durato venti giorni, mentre negli altri casi i giudici hanno avuto a disposizione due mesi. Sorprendenti sono anche i numeri che i segretari regionali del Pd hanno dato sulla raccolta firme, nel tentativo di mettersi in buona luce con il segretario. 50mila firme in Toscana, 25mila in Calabria, 17mila in Sardegna e nelle Marche sono numeri che possono sembrare alti ma che per chi ha pratica di raccolta firme non consentono in genere di raggiungere il quorum. Ad esempio in Toscana (come in altre regioni) il comitato per l’abrogazione dell’Italicum ha raccolto praticamente lo stesso numero di firme, pur non essendo riuscito a raggiungere nel complesso le 500mila necessarie. Per rispondere a questi dubbi, alimentanti anche dalla vicenda del rimborso che ora spetterà al comitato del Sì, potrebbe essere utile una pubblicazione delle firme depositate e certificate. Ma il 20 luglio scorso la Cassazione ha risposto di no al costituzionalista Fulco Lanchester che con i radicali ha chiesto l’accesso agli atti. No perché l’ufficio centrale per il referendum non è una «amministrazione pubblica» ma «un organo giurisdizionale».
Anche Renzi alimenta la confusione sui numeri. Nell’esultare, ieri ha scritto che il suo Sì alla riforma è sostenuto da «quasi 600mila firme, circa il triplo degli altri». Gli «altri» sono quelli del comitato del No ma in realtà lo scarto con le «loro» 316mila firme è assai minore, non è neanche del doppio. Soprattutto, Renzi continua a evitare la comunicazione più attesa, quella della data del referendum. La legge non prevede tempi di attesa, il governo da oggi ha 60 giorni di tempo per convocare il referendum (a sua volta da tenersi tra il 50esimo e il 70esimo giorno successivo al decreto di indizione, firmato dal capo dello stato). Se Renzi farà trascorrere invano questa settimana, il referendum costituzionale non potrà più essere fissato il 2 ottobre, come pure lui ha detto (anche in tv) di desiderare. Se farà passare tutto il mese di agosto, il referendum slitterà inevitabilmente a novembre. E se voteremo quasi a dicembre non sarà per evitare inopportuni incroci con la sessione parlamentare di bilancio. Ci sarebbe tutto il tempo per anticipare la presentazione alla camera della legge di stabilità, il punto è che Renzi non è più di questa idea. «A ottobre ci divertiremo», ripeteva ancora a fine giugno quando leggeva sondaggi diversi e assicurava di voler votare «il prima possibile». Adesso ha bisogno di un colpo d’ala per cercare di vincere, e cercherà di piazzarlo nella finanziaria.

UN COLPO DI STATO PER RUBARE LE RISORSE

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da http://ilmanifesto.info/stedile-un-colpo-di-stato-per-rubare-le-risorse/

Brasile. Lo storico leader del Movimento Sem Terra analizza la crisi che investe il suo paese



João Pedro Stedile con Nicolas Maduro
A ridosso del penultimo voto del Senato sull’impeachment alla presidente Dilma Rousseff, abbiamo sentito João Pedro Stedile, storico dirigente del Movimento Sem Terra, in prima fila contro «il golpista Temer».
L’impeachment contro la presidente Rousseff è alle battute finali e si moltiplicano le manifestazioni. Qual è la strategia dei Sem Terra?
L’Mst ora partecipa a due fronti di lotta. Innanzitutto, siamo nel Fronte Brasile Popolare, a cui aderiscono oltre 60 movimenti e componenti di partito: per articolare un’ampia alleanza popolare di sinistra che si opponga al golpe istituzionale e organizzi manifestazioni. L’altro fronte è proprio dell’Mst e riguarda la riforma agraria. Prepariamo mobilitazioni nelle campagne, contro i golpisti. Indipendentemente dalla votazione finale contro Dilma, il 29 agosto, sicuramente la lotta delle campagne si intensificherà, aumenteremo mobilitazioni e occupazioni di terre. C’è un progetto di legge – che il governo golpista si è impegnato a portare avanti con i parlamentari della destra, ma che deve essere ancora approvato -, per liberalizzare la vendita delle terre brasiliane al capitale straniero. E’ un affronto. I movimenti contadini hanno minacciato che, se il progetto si converte in legge, ogni azienda venduta al capitale straniero verrà immediatamente occupata.
Voi avete annunciato la possibilità di uno sciopero generale. Ma vi sono le condizioni?
In questo momento così critico per la lotta di classe in Brasile, in cui la destra ci ha imposto un golpe parlamentare e ha espulso la presidente, possiamo solo incidere sui rapporti di forze reali e incrinarli con un’ampia partecipazione della classe operaia. Tuttavia, fino a questo momento sono scesi in strada soprattutto i giovani, le donne e i settori operai più politicizzati, i militanti, insomma. E questo rende difficile avere più forza per impedire il golpe. Per questo, stiamo discutendo con la base la praticabilità di uno sciopero generale. Tuttavia, il movimento sindacale incontra delle difficoltà, perché sono 28 anni che non si realizza nel paese uno sciopero politico. E la classe operaia, molto giovane, non ha esperienza.
E la destra? Quanta capacità di mobilitazione ha?
La forza della destra non sta nella piazza. Per le strade l’abbiamo sconfitta. Dicevano di battersi contro la corruzione, ma il gabinetto del governo golpista, come ha detto l’ex ministro Ciro Gomes, è un vero sindacato di ladroni. E’ di questi giorni la notizia che il ministro degli Esteri José Serra ha ricevuto tangenti da Petrobras per 23 milioni di reales attraverso l’impresa Odebrecht, nel 2010. E Temer è coinvolto. La destra è la più corrotta, ma la sua forza risiede nel potere monolitico che ha sulla stampa, nella televisione, nel potere giudiziario, e nella maggioranza del Congresso. Speriamo che i senatori abbiano un po’ di coscienza e arrivino a 27 per impedire il golpe nella votazione del 29 agosto.
Che importanza hanno i Giochi per il governo a interim?
Dal punto di vista politico, le olimpiadi sono state un fallimento, per la mancanza di legittimità dell’attuale governo: lo si è visto sia dalla scarsa presenza di capi di stato (i pochi presenti, per l’America latina, erano di destra), sia dai fischi in apertura dei Giochi. Penso che i presidenti che sono venuti lo abbiamo fatto soprattutto per interessi specifici, o per trascorrere qualche giorno di vacanza negli hotel di lusso a Copacabana.
Lei aveva anticipato che, dietro il golpe istituzionale, c’era la privatizzazione di Petrobras e la sua esclusione dalla gigantesca zona estrattiva del pre-sal, che si sta verificando. Che succederà se Temer rimane in sella?
Il vero obiettivo del golpe in Brasile non era Dilma, che ha svolto un pessimo secondo mandato, subalterno agli imprenditori. Il problema è che nella crisi profonda che viviamo in quanto economia periferica, dipendiamo dal capitalismo internazionale. E i capitalisti hanno bisogno di avere il controllo completo della situazione per imporre un piano neoliberista. Il progetto neoliberista è la sola forma che conoscano per proteggere i loro interessi e salvare unicamente se stessi. Il piano prevede l’applicazione delle misure classiche dei capitalisti in periodo di crisi, ossia: aumentare lo sfruttamento del lavoro con più disoccupazione, meno salario, allungamento della giornata di lavoro e perdita dei diritti storici; intensificare l’assalto alle risorse pubbliche da destinare alla salute, all’educazione, alla riforma agraria, e metterle al servizio dell’accumulazione privata del capitale; privatizzare le risorse naturali, che abbondano nel nostro paese, per trarne una rendita straordinaria che li aiuti a venir fuori dalla crisi, per questo stanno impadronendosi del petrolio nel pre-sal, delle miniere, dell’acqua, della biodiversità e, come dicevo prima, vogliono anche le terre; privatizzare le ultime imprese statali in attivo, come quelle del settore elettrico, dei trasporti, dei porti e degli aeroporti. Questo è il piano che stanno attuando.
La crisi che attraversano le forze progressiste in America latina è anche crisi delle alleanze che hanno laureato i presidenti socialisti del secolo XXI e dei partiti costruiti dall’alto? E’ il parto travagliato verso un nuovo soggetto politico più definito?
Il problema del Latinoamerica è più profondo, non dipende dai partiti o dai governi. Nel periodo storico precedente il 2000-2015, c’è stata una disputa permanente nel continente fra tre progetti di sviluppo: il neoliberismo degli Usa, il neosviluppismo di Brasile, Argentina, Uruguay e il progetto di Chavez e dei sette paesi che vi aderirono. Però, negli ultimi tre anni, i tre progetti sono entrati in crisi. Tutto il continente, a dire il vero, è coinvolto in questa crisi. E non c’è nessuna proposta per uscirne perché la stessa borghesia è in crisi e cerca di aumentare lo sfruttamento della classe lavoratrice, come spiegavo prima. E né i popoli, né la classe lavoratrice hanno una proposta chiara per un nuovo progetto. Per questo, la crisi continuerà per molto tempo, fino a che in ogni paese le forze popolari arriveranno a costruire un nuovo progetto egemonico, che porti fuori i nostri paesi da questa situazione.
Come s’inserisce in questo quadro la situazione difficile del Venezuela nel Mercosur?
Il Mercosur non era già da prima una proposta di progetto di futuro. E’ sempre stato solo un accordo commerciale, da cui le imprese installate nei 5 paesi cercavano di trarre vantaggio per evitare di pagare le tasse. L’ideale per il Mercosur è quello di trasformarsi presto in un accordo economico della Unasur: precisamente per ampliare i legami di integrazione economica e politica dell’America del sud. Il problema è che il fallimento del Mercosur sta arrivando nella forma peggiore: quello di una crisi interna, con la destra che sta dominando in Argentina, in Paraguay e in Brasile e che ora vuole escludere il Venezuela. Però gli uruguayani si stanno comportando bene, stanno impedendo qualunque ritorno indietro contro il Venezuela. Tuttavia, ripeto, la soluzione non sta nel Mercosur, ma in un nuovo accordo più ampio, che avvenga nell’ambito dell’Unasur. In questo modo potremo risolvere problemi importanti per i singoli paesi e affrontare l’Accordo del Pacifico degli Usa. Però, per ampliare Unasur in questa direzione, dobbiamo frenare il golpe in Brasile e superare la crisi in Venezuela. E anche per questa formula, siamo un po’ in ritardo.

L'IBM LICENZIA 156 FAMIGLIE

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da http://popoffquotidiano.it/2016/08/10/ibm-licenzia-156-lavoratori-ecco-i-loro-figli/

Ibm licenzia 156 famiglie. La resistenza dei lavoratori sei Sistemi Informativi contro la multinazionale. Il video dei loro figli che gridano: «No ai licenziamenti!»

di Francesco Ruggeri
https://www.youtube.com/watch?v=X6Iq-1FIDbg

«Prima di realizzare questo video, ci abbiamo pensato su a lungo - scrivono i lavoratori di Sistemi informativi - ci siamo domandati se fosse etico far parlare anche i bambini. Ma sono stati loro a decidere per noi. Hanno deciso quando hanno visto le loro mamme e i loro papà in ansia, quando li hanno visti preparare le magliette rosse per andare ai flash mob. Hanno chiesto e abbiamo dovuto spiegare loro che IBM e la Sistemi Informativi considerano le loro mamme e i loro papà non persone, ma pesi da gettare a mare. Hanno chiesto e gli abbiamo dovuto dire che da settembre le loro famiglie non sarebbero più state quel posto felice e accogliente che preparava il loro futuro. E allora i dubbi sono svaniti. Anche la voce e gli occhi dolci e sereni dei nostri bimbi si fanno sentire. Fanno sentire che la dignità di ciascuno passa dalla possibilità di dare un futuro ai propri figli.
No ai licenziamenti, lavoro e dignità». 
Dopo un periodo di cassa integrazione a zero ore vissuto nell’attesa  di un piano industriale mai arrivato, è arrivata la procedura di licenziamento per 156 dipendenti su 960 totali, 132 rischiano il posto nella sede di Roma. «156 famiglie vengono gettate nella disperazione - hanno spiegato a Popoff le Rsu – ma neanche agli 800 che al momento hanno salvo lo scalpo è assicurato un futuro. Dopo anni di rosso, il bilancio è stato magicamente ripulito. Nessun investimento è stato fatto e neanche risulta programmato. E’ ipotizzabile qualunque scenario, ma una cosa è certa: si va verso un esaurimento delle commesse per poi rottamare il personale. D’altronde, è quello che fa da vent’anni IBM». Infatti, si è scesi dai quasi -4 milioni di rosso del 2014 a circa -118 mila euro del 2015. Sono calati i ricavi, come si dice nelle motivazioni della procedura di licenziamento collettivo, ma sono calati i costi, soprattutto quelli “generali”, non ben specificati nel bilancio stesso. «Cos’altro sta riservando IBM alla Sistemi Informativi? – ipotizzano le Rsu – Spezzatini? Cessioni di comodo?
I lavoratori hanno iniziato una lotta per ribaltare le decisione del colosso informatico mondiale: chiedono che si inizi a discutere seriamente di un piano industriale, di investimenti nella formazione e nell’innovazione e l’utilizzo degli ammortizzatori sociali non per sottrarre denaro allo Stato ed ai lavoratori, ma per rilanciare davvero l’azienda. Si chiede di ritirare la procedura di licenziamento collettivo. Esistono soluzioni non traumatiche in termini occupazionali, come i Contratti di Solidarietà, che potrebbero essere utilizzati per attuare quel cambio di rotta annunciato nel “fantomatico” piano industriale. 
Già nel 2013, i lavoratori  di Sistemi Informativi (SI) avevano creato una cassa di resistenza per dare un aiuto economico ai 292 dipendenti in cassa integrazione per un anno. Le RSU rivendicarono  un piano industriale che rilanciasse l’azienda e garantisse l’occupazione. Le proposte interessanti furono messe nero su bianco ma il piano è rimasto carta straccia. Era stata promessa l’istituzione di un centro per lo sviluppo di software a distanza offerto al mercato internazionale (il Rome Delivery Center), l’istituzione di “business unit” che aggredissero con più efficacia il mercato, la valorizzazione dei cosiddetti “asset” aziendali, cioè quei prodotti che potevano essere “pacchettizzati” e venduti a più clienti, la riqualificazione del personale verso tecnologie più attuali (mobile, cloud, data analitics).
Spiega il collettivo d’inchiesta, Clash City Workers, che si tratta «ancora una vicenda di un’azienda che davanti alla riduzione dei profitti decide di scaricare le proprie inefficenze sui lavoratori».
«Si può permettere a una multinazionale di distruggere sistematicamente il patrimonio di competenze del Paese, in nome di logiche finanziarie e con la copertura di operazioni di facciata che non hanno futuro? I lavoratori dicono di NO. IBM non può uccidere il nostro futuro!», chiedono i lavoratori Si a governo, opinione pubblica e media.

FERIAE AUGUSTI

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Per motivi di lavoro, il blog riprenderà le pubblicazioni mercoledì 18 agosto.

auriga-quadriga-armerina

UN BAMBINO AL MARE

Conosco un bambino così povero
che non ha mai veduto il mare:
a Ferragosto lo vado a prendere,
in treno a Ostia lo voglio portare.
Ecco guarda gli dirò
questo è il mare, pigliane un pò!
Col suo secchiello, fra tanta gente,
potrà rubarne poco o niente:
ma con gli occhi che sbarrerà,
il mare intero si prenderà.

(Gianni Rodari)

IL GRANDE TRUCCO DEL DEBITO

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da http://www.senzasoste.it/lavoro-capitale/sveliamo-il-trucco-del-grande-debito


Marco Bersani - tratto da http://ilmanifesto.info
Nel 2015, secondo l’Istat, le famiglie che in Italia vivevano in povertà assoluta sono diventate 1 milione e 582 mila, pari a 4 milioni e 598 mila persone, il numero più alto dal 2005.
Sempre nel 2015, una ricerca Censis-Rbm calcola in oltre 11 milioni (coinvolto il 43% delle famiglie italiane) le persone che hanno dovuto rinviare o rinunciare a cure mediche adeguate, a causa delle difficoltà economiche. Nel medesimo anno, come in tutti gli anni precedenti, lo Stato ha pagato 85 miliardi di euro solo per gli interessi sul debito pubblico.
C’è connessione fra queste cifre? Chi dice di no non ha mai fatto parte né della categoria della povertà assoluta, né di quella che fatica a curarsi adeguatamente. E’ per questo che considera il debito pubblico italiano come essenzialmente dovuto alla dissennatezza collettiva dell’aver vissuto per anni «al di sopra delle proprie possibilità» e trova ora normale doverne pagare lo scotto (interessi compresi), sapendo che ricadrà su ben precise fasce di popolazione.
Ma è andata davvero così? Naturalmente no e pochi dati bastano a dimostrarlo.
Negli ultimi 20 anni, il bilancio dello Stato si è chiuso in avanzo primario (rapporto fra entrate e uscite) per 18 volte e la parte dei cittadini che ha sempre pagato le tasse ha versato allo Stato almeno 700 miliardi di euro in più di quello che ha ricevuto sotto forma di beni e servizi.
Come mai allora il nostro debito continua a veleggiare oltre i 2.200 miliardi di euro? Perché dal divorzio fra ministero del Tesoro e Banca d’Italia nel 1981, e la conseguente fine della copertura «in ultima istanza» da parte di quest’ultima dei prestiti emessi dallo Stato, gli interessi da pagare sul debito sono saliti alle stelle, tanto che ad oggi abbiamo già collettivamente pagato oltre 3.000 miliardi di interessi su un debito che continua a salire e che auto-alimenta la catena, ingabbiando la vita e i diritti di tutti.
La spesa per interessi è pari a oltre il 5% del Pil e rappresenta la terza voce di spesa dopo la previdenza e la sanità. Se a tutto questo aggiungiamo il fiscal compact, ovvero l’impegno preso in sede europea a riportare il rapporto debito/Pil dall’attuale 130% al 60% nei prossimi venti anni, con un taglio conseguente della spesa pubblica di circa 50 miliardi/anno, il quadro della trappola diviene evidente: il debito serve a trasferire risorse dal lavoro al capitale e a consegnare ai grandi interessi finanziari, attraverso alienazione del patrimonio pubblico e privatizzazioni, tutto ciò che ci appartiene.
E la sottrazione di democrazia messa in campo con la riforma costituzionale, sulla quale si voterà in autunno, rappresenta solo il tentativo di approfittare della crisi per approfondire le politiche liberiste, sostituendo la discussione democratica con l’obbligo alle stesse e il necessario consenso con la collettiva rassegnazione.
La trappola del debito diviene ancor più evidente se poniamo l’attenzione sugli enti locali e le comunità territoriali, ormai giunti al collasso finanziario, grazie al combinato disposto di patto di stabilità (e pareggio di bilancio), tagli ai trasferimenti e spending review: quanti sanno infatti che, nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico italiano sia pari solo al 2,4%, sugli stessi si sia scaricata la maggior parte delle misure, al punto che dal 2008 i tagli delle risorse a loro disposizione siano passati da 1.650 a 15.500 miliardi (+900%) ?
Di fronte a questi dati, possiamo continuare a dire che il debito è ineluttabile e a considerare gli interessi sullo stesso normale parte del contratto stipulato? Possiamo continuare a pensare che il debito, in quanto colpa, va saldato e trovare normale che a quella cultura si educhino intere generazioni già nella scuola, con la trasformazione dei giudizi sull’apprendimento in «debiti» e «crediti»? Credo di no e, a sostegno d questa tesi, basta leggersi l’art.103 della Carta dell’Onu, quando pone l’obbligo di ogni Stato a garantire pace, coesione e sviluppo sociale sopra ogni altro e qualsivoglia impegno contratto dallo stesso.
Del resto, qualcuno può ritenere sostenibile mantenere un debito, che oltre allo stesso, comporti la sottrazione annuale di 135 miliardi di euro di risorse collettive, per pagarne gli interessi e per adempiere al fiscal compact?
Da che mondo è mondo, non si è mai visto un creditore anelare al pagamento del debito. L’usuraio teme due soli eventi nella sua «professione»: la morte del debitore e il saldo del debito, perché, in entrambi i casi, perderebbe la fonte periodica del suo sostentamento –gli interessi- e la possibilità di dominio sull’altro e sulle sue scelte in merito ai suoi averi e proprietà (nel caso degli Stati, i beni comuni).
Ecco perché il debito deve smettere di essere un tabù e deve divenire parte concreta delle battaglie per un altro modello sociale. Se il debito è oggi agitato come «lo shock per far diventare politicamente inevitabile, ciò che è socialmente inaccettabile» (Milton Friedman), occorre che le popolazioni passino dal panico prodotto dallo shock –che comporta paralisi, ripiegamento individuale e adesione alla narrazione dominante- alla sana pre-occupazione, ovvero alla capacità collettiva di iniziare ad occuparsi di sé, della collettività e del comune destino.
Rifiutando la trappola del debito e rivendicando a tutti i livelli –locale, nazionale e internazionale- la necessità di un’indagine indipendente e partecipativa che sveli quanta parte del debito è illegittima e quanta parte è odiosa –dunque da non pagare- e che affronti, partendo dall’incomprimibilità dei diritti individuali e sociali, tempi e modi del pagamento dell’eventuale restante parte legittima.
Di tutto questo se ne discuterà all’università estiva di Attac Italia, a Roma dal 16 al 18 settembre, in una serie di seminari che, partendo dal debito internazionale (con la presenza di Eric Toussaint del Cadtm), arriverà a mettere a confronto le nuove esperienze di movimento e istituzionali nelle «città ribelli» di Barcellona, Napoli e Roma (http://www.italia.attac.org/index.php).
Un’occasione per liberare il presente e riappropriarci del futuro.

UNA MANOVRA SPERICOLATA

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da http://ilmanifesto.info/una-manovra-spericolata/

Renzi assicura: taglieremo le tasse. Ma la legge di stabilità viaggia già intorno ai 30 miliardi (il Mef smentisce) e senza l’aiuto dell’Europa un intervento (e solo per le aziende) sarà impossibile


È probabile che mentre affidava a Facebook l’ennesimo post trionfalistico Matteo Renzi avesse ancora nelle orecchie l’eco stridente di quegli articoli di ferragosto sulla stampa estera (a cui si è aggiunto ieri l’Economist) che volevano aiutarlo, certo, ma di fatto registravano il fallimento della sua politica economica. Non è quello lo schema di gioco di Renzi, non è quella la cifra della sua propaganda. Gli piacciono i toni opposti: non vuole invitare gli elettori a votare Sì al referendum per evitare il peggio, ma per celebrare i suoi successi e permettergli di proseguire su quella strada.
Dunque, cogliendo anche l’occasione offerta dall’investimento di un miliardo in Italia annunciato da Ryanair, canta vittoria e promette miracoli sul fronte più delicato di tutti, quello delle tasse: «Da quando siamo al governo lavoriamo per ridurre le tasse. L’ultima volta che una tassa è stata alzata in Italia è stato nell’ottobre 2013. Continueremo con la prossima legge di stabilità. Non è solo giusto ma è anche un fatto di competitività. Lo dimostra in queste ore l’accordo con Ryanair», appunto. L’ottobre 2013 non è citato a caso: al governo, in quel mese, c’era Enrico Letta.
Nulla di straordinario. Renzi conosce davvero un solo tipo di gioco politico e non può fare altro che ripeterlo all’infinito, confondendo la politica con la propaganda e i giochi di prestigio con la realtà. Sa perfettamente, come i contribuenti, che al netto delle partite di giro, degli spostamenti sulle tasse locali e sulla tassazione indiretta, la pressione è cresciuta, non diminuita, e dagli spalti dell’opposizione glielo ricordano tutti. L’M5S, durissimo, minacciando con Luigi Di Maio l’arrivo dei forconi a palazzo Chigi se il premier continuerà «a provocare gli italiani». Affermazione nella quale il capo dei deputati renziani Ettore Rosato, che non brilla per senso della misura, ravvede gli estremi di «incitazione alla violenza». Loredana De Petris, di Sinistra italiana, accusa l’inquilino di palazzo Chigi di «continuare a raccontare balle», il leghista Salvini di essere ubriaco, il forzista Renato Brunetta di imbrogliare, Cinzia Bonfrisco di giocare alle tre cartine. Modi diversi di dire la stessa cosa.
Ma tutto questo Renzi lo sa benissimo da solo. Come sa di non poter strappare consensi limitandosi a rivendicare risultati inesistenti. L’importante, nel peana dedicato a se stesso su Fb, è l’annuncio di voler tagliare le tasse in modo consistente nella prossima legge di stabilità. Ne era convinto già da tempo, ieri ha confermato la decisione nonostante i risultati deludenti dell’economia.
Significa imbarcarsi in una partita disperata. Renzi ha già promesso di intervenire sulle pensioni, e a questo punto rimangiarsi la parola gli potrebbe costar caro. Ma sommare pensioni, intervento sulle tasse e finanziamento per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego vuol dire mettere in campo una marea di miliardi dei quali il governo semplicemente non dispone. Non a caso il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti ha già messo le mani avanti informando gli interessati che la precedenza dovrà essere data alla riduzione della pressione fiscale, e i pensionati anche stavolta dovranno pertanto continuare ad arrangiarsi.
Sulla portata della manovra che dovrebbe permettere sia all’economia che a Renzi di tirarsi fuori dalla palude nella quale stanno affondando al momento non c’è alcuna chiarezza. Le voci che partono dal governo parlano di una trentina di miliardi, e probabilmente non si allontanano dalla realtà. Ieri mattina il ministero dell’Economia si è però sentito in dovere di smentire, con tanto di comunicato ufficiale, senza però smentire davvero. Il Mef afferma, è vero, che «si tratta di ipotesi e cifre prive di fondamento», ma solo perché azzardare previsioni del genere è «prematuro»: «I provvedimenti dipenderanno dai nuovi obiettivi di finanza pubblica contenuti nella Nota di aggiornamento al Def che sarà presentata entro il 20 settembre».
Neppure i più inguaribilmente ottimisti, però, pensano che la manovra possa andare sotto i 20 miliardi e quasi certamente si avvicinerà maggiormente alla cifra smentita dal Mef. Significa che senza la concessione europea di andare oltre lo sforamento dell’1,8%, ottenendo così una decina di miliardi in più da mettere sul tavolo, non ci sarà alcuna possibilità di intervento reale. Ma anche in quel caso, il taglio delle tasse sarebbe limitato alle aziende, in nome delle ripresa. La scure sull’Irpef, sulla quale contava Renzi come arma segreta da usare nella campagna referendaria, è invece fuori discussione.

WEEK END MAGAZINE

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CHICHIBIO E LA GRU




Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l'ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.

      Tacevasi già la Lauretta, e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina a Neifile impose che seguitasse; la qual disse:
      Quantunque il pronto ingegno, amorose donne, spesso parole presti e utili e belle, secondo gli accidenti, a' dicitori, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de' paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone, che mai ad animo riposato per lo dicitor si sarebber sapute trovare; il che io per la mia novella intendo di dimostrarvi.
      Currado Gianfigliazzi sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere, sempre della nostra città è stato nobile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli s'è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare. Il quale con un suo falcone avendo un dì presso a Peretola una gru ammazata, trovandola grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio, ed era viniziano, e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse e governassela bene. Chichibio, il quale come riuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollicitudine a cuocerla cominciò. La quale essendo già presso che cotta grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina; e sentendo l'odor della gru e veggendola, pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia.
      Chichibio le rispose cantando e disse: - "Voi non l'avrì da mi, donna Brunetta, voi non l'avrì da mi". -
      Di che donna Brunetta essendo un poco turbata, gli disse: - In fè di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia - ; e in brieve le parole furon molte. Alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l'una delle cosce alla gru, gliele diede.
      Essendo poi davanti a Currado e ad alcun suo forestiere messa la gru senza coscia, e Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta l'altra coscia della gru. Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose:  - Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba. -
      Currado allora turbato disse: -- Come diavol non hanno che una coscia e una gamba? Non vid'io mai più gru che questa? -
      Chichibio seguitò: - Egli è, messer, com'io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder né vivi.
      Currado, per amor dei forestieri che seco aveva, non volle dietro alle parole andare, ma disse: - Poi che tu dì di farmelo vedere né vivi, cosa che io mai più non vidi né udii dir che fosse, e io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo, che, se altramenti sarà, che io ti farò conciare in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del nome mio.
      Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l'ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e comandò che i cavalli gli fosser menati; e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana, alla riva della quale sempre soleva in sul far del dì vedersi delle gru, nel menò dicendo: - Tosto vedremo chi avrà iersera mentito, o tu o io. -
      Chichibio, veggendo che ancora durava l'ira di Currado e che far gli convenia pruova della sua bugia, non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piedi.
      Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano, si come quando dormono soglion fare. Per che egli prestamente mostratele a Currado, disse: - Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno. -
      Currado vedendole disse: - Aspettati, che io ti mosterrò che elle n'hanno due -; e fattosi alquanto più a quelle vicino gridò: - Ho ho - ; per lo qual grido le gru, mandato l'altro piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire. Laonde Currado rivolto a Chichibio disse: - Che ti par, ghiottone? Parti ch'elle n'abbian due? -
      Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose: - Messer sì, ma voi non gridaste - ho ho - a quella di iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l'altra coscia e l'altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste.
      A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e riso, e disse: - Chichibio, tu hai ragione, ben lo dovea fare.
      Così adunque con la sua pronta e sollazzevol risposta Chichibio cessò la mala ventura e paceficossi col suo signore.

(Giovanni Boccaccio)

LO ZOMBIE BANKING

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da http://www.senzasoste.it/internazionale/zombie-banking-la-spettrale-estate-delle-banche-italiane-che-illuminera-l-autunno-di-luce-sinistra
zombie banking
La crisi delle banche italiane, di cui questa testata parla da tempo, è destinata al suo termine, a lasciare un sistema bancario, se ne lascerà uno riconoscibile come tale, ben diverso da quello presente nello scenario precedente alla crisi. Ben diverso e comunque legato a un rapporto tra risparmio e rischio maggiormente sfavorevole per un ceto medio in declino, per strati popolari in crisi permanente ma anche per il mondo delle piccole e medie imprese. In fondo, basterebbero queste parole, aggiunte alla constatazione che la crisi delle banche italiane è solo un capitolo a parte di quella delle banche europee, per aver assolto il compito di questo articolo: informare sulle trasformazioni sistemiche dei processi di conservazione ed erogazione del denaro. Processi che non sono solo interni al sistema bancario e finanziario, così come sono genericamente conosciuti, ma anche a una più generale crisi del valore. Inquadrando la questione in questo modo va infatti preso sul serio il Financial Times, in un articolo di analisi, quando inquadra questa crisi a partire da alcuni dati incontrovertibili, affermando che le banche non saranno mai più le stesse e, facendo forza sui grafici dell'articolo, va segnalato come in Europa, a partire dall'inizio della crisi (2007), il settore finanziario continentale abbia perso un valore pari all'intero Pil spagnolo. I servizi finanziari europei, con la crisi, nel complesso hanno perso infatti circa un trilione di euro di valore in termini di Pil. Si tratta del settore che, con la crisi, ha perso più di tutti in assoluto in Europa, persino più dei petroliferi seppur toccati da un ribasso spettacolare del prezzo del barile. Il tutto, per stracciare un po’ di luoghi comuni, mentre industria e tecnologie hanno aumentato il proprio valore in termini di Pil. Questo non è stupefacente per chi vede crescere questi dati regolarmente, ma è in distonia completa con le retoriche ufficiali. Quelle che al massimo ammettono la "lentezza della crescita", parlano del "risanamento delle banche in linea con gli obiettivi europei" e che suggeriscono le immancabili riforme strutturali. Quelle non in grado di risolvere la crisi bancaria figuriamoci quella economica. Ma questi dati sono in distonia anche con le retoriche critiche che confondono i redditi dei banchieri con lo stato reale delle loro banche. Del resto, non è un mondo immediatamente intuibile quello dove l'indice S&P della borsa di New York tocca i massimi storici mentre i bilanci delle maggiori aziende che lo compongono vanno in rosso in quattro rilevazioni consecutive. E dove il più conosciuto speculatore di sempre, George Soros, scommette un miliardo di dollari proprio contro la borsa maggiormente in salute. Se tra qualche anno le banche non saranno più le stesse, sempre se ci saranno nella forma che conosciamo, anche il pensiero critico di questi fenomeni, fermo a parole d'ordine generiche e immobili, dovrebbe subire i suoi bravi upgrade. In ogni caso la crisi delle banche europee, per fermarsi a quelle, è il grande convitato di pietra dell’ultimo decennio.
Nel settore dei servizi finanziari europei, dal 2007, il bagno di sangue è avvenuto proprio nel settore bancario. Certo, le avventure nei titoli tossici oltreoceano hanno segnato le banche europee, e di brutto, ma la crisi soprattutto è di prospettiva. Qualche cifra intanto sul presente? Il Financial Times è chiaro: le azioni bancarie in Europa sono trattate al 40 per cento in meno del valore del 2007. Quelle delle banche tedesche ed italiane sono al 15 per cento in meno per lo stesso periodo (il Monte dei Paschi, perla del centrosinistra, al 99 per cento in meno dal 2007). Nello stesso periodo il sistema bancario europeo ha perso, tra crisi ed evoluzione tecnologica, 27mila filiali (il 13 per cento complessivo) ed oltre 210 mila posti di lavoro, il 10 per cento complessivo della forza lavoro nel settore. Non che l'occupazione si sia stabilizzata, solo per l'Italia nel prossimo quadriennio sono previsti 16 mila esuberi. Questo dopo averne persi 12 mila nell'ultimo triennio, compreso quindi il biennio della ripartenza renziana quello della ripresa "alla grande".
E' quindi un tema che viene sostenuto da tempo su questa testata e che merita insistenza: nel migliore dei casi la banca, per come l'abbiamo conosciuta, ha attraversato, e sta attraversando, ristrutturazioni pari a quelle vissute dalla fabbrica fordista a partire dalla metà degli anni '70. Come accaduto per la fabbrica fordista, sulla quale si sono basati cicli economici e di evoluzione sociale per circa settanta anni, al momento in cui il nuovo assetto produttivo non somiglierà per niente al vecchio ci ritroveremo, in modalità atterraggio brusco, in un altro genere di società. Una società che rischiamo di non capire e solo di subire. Già, perché la banca non è un fatto puramente tecnico ma il luogo dove si eroga, si produce (basta vedere l’ormai storico rapporto della Banca d’Inghilterra per entrare nella questione, quì ne trovate una sintesi) e si contratta l'elemento egemone delle relazioni sociali, quello che nel capitalismo comanda in ultima istanza: la moneta. Quando si parla di moneta non si parla quindi di un oggetto qualunque. Ma di un qualcosa che, nelle sue modalità di erogazione, governa economia e rapporti sociali. Altro che fatto "tecnico". Ed è un qualcosa che si è ristrutturato ben prima di un oggetto qualunque: la moneta ha infatti di gran lunga anticipato lo stesso processo che, a suo tempo, ha vissuto il brano musicale con l'mp3: digitalizzazione, trasmissione in ogni luogo e in tempo reale. Alla fine però, come l'mp3, è entrata in piattaforme P2P (in questo caso di prestito) ed è divenuta imitabile (si pensi al mondo di cui i bitcoin sono solo la punta dell'iceberg). Ma non dobbiamo qui togliere la scena al vero, grande atto principale: quello dove crisi del valore ed evoluzione tecnologica si sposano. Il punto quindi che l'intera politica, figuriamoci quella italiana orgogliosa delle proprie regressioni, è destinata a non cogliere ancora a lungo, è che crisi complessiva del valore, della redditività bancaria ed evoluzione tecnologica non stanno cambiando violentemente, solo il mondo bancario ma anche le modalità sociali della distribuzione e della circolazione della moneta. In poche parole, tutto il rapporto sociale che sta attorno alla moneta che questo rapporto lo egemonizza. E basta ricordarsi quanto le modalità di erogazione di un mutuo cambiano i comportamenti del nucleo familiare che lo contrae per entrare, appena appena, nel problema.
Questo per capirsi su un tema: la crisi delle banche italiane, per fermarsi al fatto nazionale, non è solo quella di un ceto manageriale e politico bollito, o parolaio (si pensi a Renzi o all'impagabile comico presidente dell'Abi, Patuelli, già fine italianista e segretario del Pli). Un ceto bollito come nessuno in Europa, in grado inevitabilmente di fare le scelte sbagliate. Un ceto corporativo, abituato a dare in pasto "al mercato" settori di società per salvarsi dalle ristrutturazioni senza aver capito, stavolta, di rischiare di fare parte del pasto. Tutto vero, ma oggi si tratta soprattutto di evidenziare che la crisi di un sistema bancario nazionale è giunta a una fase di convulsioni che è, nel migliore dei casi, indice di profonde e dolorose trasformazioni di scenario. E oltretutto di uno scenario che, come in qualche racconto breve di Fredrick Pohl, contenuto da altri scenari. In questo caso dalla crisi del sistema bancario europeo e dalla più generale crisi della redditività delle banche nel mondo globale.
In un paese non più abituato a guardare gli scenari, dove il massimo del brivido politico consiste nel declamare il luogo comune che "bisogna far funzionare le cose" non è problema da poco. E qui un punto è chiaro, da posizioni diverse, sia governo che opposizioni, non avendo colto da angolature differenti la portata della crisi e delle trasformazioni del mondo bancario, non propongono che soluzioni da Zombie banking. Stiamo parlando di quel corpo di misure, messe in atto o auspicate che mantengono, finché possibile, le banche in stato di vita apparente. Il governo vuole le Zombie Bank per tenere in vita un ceto politico-manageriale vorace, corporativo, autoreferenziale. Le opposizioni, a vario titolo, immaginano soluzioni Zombie perché hanno in mente un mondo bancario che o non esiste più o non è mai esistito. In fondo tutti, sempre a vario titolo e immaginazione, auspicano quello che hanno fatto finora tante autorità di vigilanza, i banchieri, i bilanci degli stati, la governance europea la stessa Bce: tenere in vita artificiale corpi bancari morti. Non è certo solo una questione italiana ma, affermarlo troppo rischierebbe di sviare dalla realtà: in un modello economico-finanziario continentale devastante l’Italia si è comportata in modo demenziale.
L'operazione di mantenimento in vita, di banche morte, è il fenomeno che ha determinato la politica europea dal 2007. Oltretutto con pochi reali risultati: dopo Lehman, Deutsche Bank era gonfia di titoli tossici, in grado di poter far saltare il pianeta come durante una guerra finanziaria su larga scala, e lo è anche adesso. Per non parlare delle banche francesi, Credit Agricole in testa. Ogni modo l'operazione Zombie banking, tenere il morto in vita apparente dopo la crisi, è stata fatta da tutti i paesi dalla Germania all'Italia anche se in forme molto diverse. Ed è la stessa operazione che auspicano, con tante proposte minimali, le opposizioni quando si ricordano di parlare delle banche: tenere in vita organismi che, per il mondo che si è formato,di fatto sono già morti. Poi ci sono i mistici del mercato: quelli per cui i licenziamenti significano salute, corpo sano che espelle le tossine (inevitabilmente, i lavoratori). Quando invece, a differenza dei gridolini dei mistici del mercato ad ogni annuncio di taglio, il fenomeno è altro: lo Zombie Banking, dal 2007, presuppone i licenziamenti dei lavoratori per protrarre lo stato di vita artificiale delle banche di cui si impossessa. Ma quando è prevista la caduta degli zombie, visto che lo stato di vita apparente non è mai infinito?
In Italia, la decretazione o meno della fine della vita apparente delle banche passa attraverso la vicenda Monte dei Paschi. Il cui titolo, da florido che era fino a non molti anni fa, è passato a valori infinitesimali. Le cui percentuali di crediti deteriorati sono molto alte, tali da far saltare la banca. Il cui capitale è ridotto a quantità ridicole per una banca di quel genere (meno di ottocento milioni). Semplificando il possibile, la soluzione della vicenda Monte dei Paschi è ritenuta esemplare, dopo le nuove norme sui salvataggi bancari. Perchè altre banche, più grandi di MPS, avranno bisogno di interventi seri (Unicredit) ed è comunque l'intero sistema bancario nazionale ad essere messo alla prova in questi passaggi cruciali. Bene, senza riassumere le (lunghe) precedenti puntate, a che punto è il salvataggio di MPS?
Tenendo conto che qui, quando si parla di salvataggio, si intende una operazione di zombie banking, la riposta non può che essere: male, nel migliore dei casi ancora in alto mare, e con possibili ripercussioni negative per l'intero sistema bancario italiano (e, a cascata, su vaste porzioni di società italiana). Non è chiara la composizione del portafoglio degli investitori per l’aumento del capitale, qualcuno si è sfilato dopo iniziale interesse, non è chiaro neanche l’ammortare dei crediti non performativi da smaltire (ad esempio c’è chi sostiene che in MPS le obbligazioni senior, quelle più onerose per la banca, siano maggiori di quanto stimato oggi). Ma anche se l’aumento di capitale in MPS avvenisse, e le difficoltà ad oggi ci sono e non poche, e i crediti deteriorati fossero smaltiti dove andrebbe quella banca? E‘ come ristrutturare a nuovo un negozio di alimentari, pagargli le tasse arretrate etc e rimetterlo al lavoro in un quartiere deserto. Perché il grande problema delle banche, quello che fa dichiarare lo stato di crisi permanente, è la crisi del modello di redditività. Con le ristrutturazioni tecnologiche, economiche, i bassi tassi di interesse, la crisi del valore, le banche non riproducono ricchezza. Un’occhiata a questo articolo è utile come primo inquadramento del problema. Capito perché si parla di Zombie? Si tiene in vita qualcosa che non è in grado di respirare nemmeno se le cose andranno meglio.
Il rapporto con Pil, su cui lo staff del mago Renzi-Do Nascimento sta scrivendo grande letteratura di intrattenimento, per il sistema bancario è il classico cane che si morde la coda. Un Pil così basso non può aiutare il sistema bancario e un sistema bancario da speculazione anni 90, ormai fuorigioco, non può aiutare il Pil. Ma anche cercando di tenere in vita lo zombie bancario italiano, licenziando qualche dozzina di migliaia di lavoratori, al governo Renzi al momento mancano le risorse. Già l’esecutivo stima che dovrà chiedere, e sarà una dura battaglia, quasi dieci miliardi di sforamento di deficit alla governance dell’eurozona per la prossima legge di stabilità. Se il “salvataggio” MPS non entra a regime, se continuano le grandi difficoltà in borsa del sistema bancario italiano, in un listino borsa Milano dove i finanziari sono molto diffusi, il governo avrà anche il problema di dover trovare fondi per evitare il cupio dissolvi delle banche nazionali. In ogni caso la spettrale estate delle banche italiane è destinata a gettare ombre sinistre sull’autunno. Nel migliore dei casi si faranno salvataggi che non servono, o servono poco, all’economia. Nel peggiore sarà come se gli istituti di credito saranno sottoposti a bombardamento. Nel mezzo c’è una stagione di forti turbolenze per tutti, dai risparmiatori alle famiglie, alle banche, all’economia.
Naturalmente non è un problema solo italiano. I crediti "avariati" delle banche europee superavano il 9% del Pil dell’Ue a fine 2014, per un valore pari a 1.200 miliardi di euro, ovvero più del doppio rispetto ai livelli del 2009, quando si era attorno al quattro nel primo anno del dopo Lehman-Brothers.
James Quinn sul Telegraph, parlando della annunciatissima crisi della banca HBSC, non proprio un nano nelle banche globali, ricordava la crisi di redditività globale del settore. Va cambiata la visione delle banche, da dei che hanno sete, a giganti ai quali manca il sangue. Non è una questione di adattare estetica e racconto ai fenomeni, ma di saper costruire le politiche. Intanto cercano didiffondersi le banche Uber, sulle quali ci sono già modelli diffusi nel mondo anglosassone.
Ad un certo punto statene certi questo o una cosa simile, o il concorso di cose simili FUNZIONERA'. E' accaduto per ogni bene riducibile a segno, grazie alle evoluzioni tecnologiche, figuriamoci per la moneta che è solo puro segno. Quando questo funzionerà vedremo cosa accadrà nel nostro paese. E, incidendo nel sistema del credito che è socialmente essenziale, tutto questo finirà per cambiare non poco.
Proposte fiabesche, fatte da opposizioni anche molto diverse tra loro, di "far funzionare le cose", o di tutelare "'pacchetti di nuovi diritti", senza mostrare di aver ben chiaro dove e come mettere le mani in questo contesto, sono quindi destinate a rimanere quello che oggi appaiono: declamazioni pittoresche sulla superficie, retoriche di eticismi anemici in un mondo che si dirige altrove. Questo non è un contesto tecnico, poteva esserlo prima della globalizzazione dei mercati, ma è un settore sistemico chiave. Un settore nella cui crisi sono in molti, prima di tutto l'attuale governo, a rischiare il ruolo degli assediati di Aleppo. Nel frattempo le sinistre ombre estive delle Zombie Bank italiane si preparano a proiettarsi sull'autunno. E qui basta guardare i grafici italiani su consumi, produttività, investimenti e le proiezioni sul Pil per capire che parlare di decennio maledetto, quello apertosi con i primi segni di crisi nel 2007, è solo una professione di ottimismo. Certo, la crisi europea è differente da paese a paese, da Pil a Pil. In generale invece c’è da capire quanto, e come, le nostre società, che vivono di sub-sistemi sociali e tecnologici molto complessi, possono sopportare lunghe crisi come quella americana, apertasi con il crollo di borsa del 1873, che secondo alcune stime arrivò fino al 1896. Per questo le ombre sinistre appaiono tali.

INTERVISTA A DAVID HARVEY SULLA FASE ATTUALE

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da  http://www.senzasoste.it/economia/d-harvey-il-neoliberismo-e-un-progetto-politico

Capitalism-Isnt-Working
Un’intervista al grande geografo David Harvey sul mensile Jacobin :https://www.jacobinmag.com/2016/07/david-harvey-neoliberalism-capitalism-labor-crisis-resistance/
Proponiamo un’interessante intervista al geografo e sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe ricordarsi. tratto da http://contropiano.org 22 agosto 2016
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Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi uno dei libri più citati sull’argomento. Gli anni passati da allora hanno visto nuove crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che di per se spesso mettono nel mirino proprio il “neoliberismo” nella loro critica della società contemporanea.
Cornell West parla del movimento “Black Lives Matter” (il movimento originatosi nella comunità afro-americana contro le continue violenze della polizia contro le persone di colore, ndt) come di “un’accusa verso il potere neoliberale”; Hugo Chavez chiamava il neoliberismo un “percorso verso l’inferno”; e i leader sindacali stanno usando in maniera crescente il termine per descrivere il tipo di struttura più ampia in cui avvengono le lotte per il lavoro. Anche la stampa mainstream ha iniziato ad usare il termine, se non altro per argomentare che il neoliberismo non esiste.
Ma di che cosa parliamo esattamente quando parliamo di neoliberismo? È un bersaglio utile per dei militanti socialisti? E come è cambiato dalla sua genesi avvenuta nel tardo ventesimo secolo?
Bjarke Skærlund Risager, un dottorando presso il Dipartimento di Storia delle Idee dell’Università di Aarhus, si è seduto al tavolo con David Harvey per discutere la natura politica del neoliberismo, come esso ha trasformato le modalità di resistenza, e perché la sinistra deve ancora essere seria riguardo all’obbiettivo di terminare il capitalismo.
Risager: “neoliberismo” è un termine ampiamente utilizzato oggi. Tuttavia, è spesso poco chiaro a cosa le persone si riferiscano quando lo utilizzano. Nei suoi utilizzi più sistematici il termine può riferirsi ad una teoria, ad un insieme di idee, ad una strategia politica o ad un periodo storico. Può cominciare spiegandoci il suo concetto di neoliberismo?
Harvey: ho sempre trattato il neoliberismo come un progetto politico portato avanti dalla classe capitalistica, poiché essa si sentiva minacciata sia politicamente che economicamente fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del ‘900. [I capitalisti] volevano disperatamente lanciare un progetto politico che abbattesse il potere della classe lavoratrice.
Per molti versi questo progetto era controrivoluzionario. Avrebbe stroncato sul nascere quelli che, al tempo, erano movimenti rivoluzionari in gran parte del terzo mondo – Mozambico, Angola, Cina, ecc – ma anche un’ondata crescente di influenza comunista in paesi come l’Italia e la Francia e, ad un grado di importanza minore, la minaccia di un revival comunista in Spagna.
Perfino negli Stati Uniti i sindacati avevano creato un Congresso Democratico che era piuttosto radicale nei suoi intenti. Nei primi anni ’70 essi, insieme ad altri movimenti sociali, forzarono una sfilza di riforme e di iniziative riformiste che erano essenzialmente anti-impresa: l’Agenzia di Protezione per l’Ambiente (EPA), l’agenzia per la Sicurezza Occupazionale e l’Amministrazione Sanitaria, la protezione dei consumatori, e una serie di cose che rafforzassero la classe lavoratrice perfino di più di quanto fosse stata rafforzata prima.
Perciò in quella situazione c’era, in effetti, una minaccia globale al potere della classe capitalista e pertanto la domanda era: “che fare?”. La classe dominante non era omnisciente ma essa riconosceva che c’erano un numero di fronti nel quali essa doveva lottare: il fronte ideologico, il fronte politico e soprattutto dovevano lottare per ridurre il potere della classe lavoratrice con qualunque mezzo possibile. Da questo emerse un progetto politico che io chiamerei neoliberismo.
Può parlarci un po’ del fronte politico e di quello ideologico e degli attacchi alla classe lavoratrice?
Il fronte ideologico si concretizzò nel seguire il consiglio di una persona di nome Lewis Powell. Questi scrisse un documento che diceva che si era esagerato, che il capitale aveva bisogno di un progetto collettivo. Questo documento aiutò a mobilitare la Camera di Commercio e la Tavola Rotonda dell’Impresa [due organizzazioni di industriali e imprenditori americani, ndt].
Anche le idee furono importanti per quanto riguarda il fronte ideologico. Il giudizio al tempo era che le università fossero impossibili da organizzare perché il movimento studentesco era troppo forte e le facoltà troppo di orientamento “liberal”, pertanto il capitale mise su una serie di think-thank come il Manhattan Institute, la Heritage Foundation e la Ohlin Foundation. Questi think-thank sostenevano le idee di Von Hayek e Milton Friedman e la cosiddetta “economia dell’offerta” [da contrapporsi all’economia della domanda, propugnata dai keynesiani, ndt].
L’idea era che queste organizzazioni facessero ricerca seria, ed alcuni di essi la fecero – ad esempio il National Bureau of Economic Research era un’istituzione con fondi privati che realizzò della ricerca di qualità. Queste ricerche sarebbero poi state pubblicate in maniera indipendente ed avrebbero influenzato la stampa e pian piano avrebbe circondato ed infiltrato le università.
Questo processo prese molto tempo. Penso che oggi abbiamo raggiunto un punto in cui qualcosa come la Heritage Foundation non serve più. Le università sono state sostanzialmente conquistate dai progetti neoliberali che le assediavano.
Rispetto alla classe lavoratrice, la sfida era mettere i lavoratori e le lavoratrici in USA in competizione con i lavoratori e le lavoratrici in tutto il mondo. Nel corso degli anni ‘60, ad esempio, i tedeschi stavano importando manodopera turca, la Francia forza lavoro magrebina, la Gran Bretagna lavoratori dalle ex colonie. Ma questo aveva creato molta insoddisfazione e disordine.
Invece i capitalisti americani scelsero un’altra strada – portare capitale dove c’era forza lavoro a bassi salari. Ma perché la globalizzazione funzionasse c’era bisogno di ridurre le tariffe doganali e rendere più potente il capitale finanziario, perché esso è la forma di capitale più mobile. Pertanto il capitale finanziario e cose come le valute lasciate libere di fluttuare divennero fondamentali per indebolire il lavoro.
Al tempo stesso, i progetti ideologici di privatizzare e deregolamentare crearono disoccupazione. Pertanto abbiamo la disoccupazione negli USA e la perdita di posti di lavoro con lo spostamento delle attività produttive all’estero, e poi una terza componente: il cambiamento tecnologico, la deindustrializzazione tramite l’automazione e la robotizzazione. Questa è stata la strategia per battere la classe lavoratrice.
Si trattava di un assalto ideologico ma anche di un assalto economico. Per me questo è stato il neoliberismo: un progetto politico, e penso che la borghesia o la classe capitalista lo abbiano messo in atto pezzo per pezzo.
Non penso abbiano cominciato leggendo Hayek o qualsiasi altra cosa, penso che essi abbiano intuitivamente detto, “dobbiamo schiacciare la classe lavoratrice, come lo facciamo?”. E trovarono una teoria che legittimava tutto questo.
Dalla pubblicazione di “Breve storia del neoliberismo” nel 2005 è stato versato molto inchiostro sull’argomento. Sembra che ci siano due campi principali: studiosi che sono più interessati alla storia intellettuale del neoliberismo, e persone che invece si preoccupano del neoliberismo “attualmente esistente”. Lei dove si posiziona?
C’è una tendenza nelle scienze sociali, alla quale tendo a resistere, a cercare una una teoria unica per spiegare qualcosa. Perciò troviamo una frazione di persone che dice che, insomma, il neoliberismo è un’ideologia e pertanto essi scrivono una storia dell’ideologia riguardo ad esso.
Una versione di questo è l’argomentazione di Foucault sulla governamentalità, che vede tendenze neoliberali già presenti nel diciottesimo secolo. Ma se si tratta il neoliberismo soltanto come un’idea o come un insieme di pratiche limitate di governamentalità, si troveranno decine di precursori.
Quello che qui manca è il modo in cui la classe capitalista ha orchestrato i suoi sforzi fra gli anni ’70 e i primi anni ’80. Penso sia giusto dire che a quel tempo – almeno nel mondo anglosassone – la classe capitalista divenne abbastanza unita.
Erano d’accordo su molte cose, come sulla necessità di una forza politica che li rappresentasse veramente. Così si spiegano la conquista [da parte dei capitalisti] del partito Repubblicano, e il tentativo di indebolire, in un certo senso, il partito Democratico.
A partire dagli anni ‘70 la Corte Suprema prese una serie di decisioni che permisero alla classe capitalista di comprare le elezioni molto più facilmente di quanto potessero in passato.
Ad esempio si vedano le riforme del finanziamento delle campagne elettorali, che trattavano i contributi alle campagne come una forma di libera espressione. C’è una lunga tradizione negli Stati Uniti di capitalisti che comprano le elezioni, ma ora era stato legalizzato invece che essere fatto sotto banco come corruzione.
In generale io penso che questo periodo sia stato definito da un ampio movimento verso vari fronti, ideologici e politici. E l’unico modo in cui puoi spiegare questo ampio movimento è riconoscendo il relativamente alto grado di solidarietà nella classe capitalista. Il capitale riorganizzò il suo potere in un disperato tentativo di recuperare la propria ricchezza ed influenza, che erano stati seriamente erosi dalla fine degli anni ’60 fino agli anni ’70.
Ci sono state numerose crisi a partire dal 2007. Come la storia e il concetto di neoliberismo ci aiutano a comprenderle?
Ci sono state molte poche crisi tra il 1945 e il 1973; ci sono stati alcuni momenti problematici ma nessuna grande crisi. La svolta verso le politiche neoliberali avvenne nel mezzo di una crisi negli anni ’70 e l’intero sistema ha subito una serie di crisi da allora. E ovviamente le crisi producono le condizioni per le crisi future.
Fra il 1982 e il 1985 ci sono state crisi di debito in Messico, Brasile, Ecuador e sostanzialmente tutti i paesi in via di sviluppo includendo la Polonia. Fra il 1987 e il 1988 ci fu una crossa crisi nelle istituzioni creditizie statunitensi. Ci fu una grande crisi in Svezia nel 1990, e tutte le banche dovettero essere nazionalizzate.
Poi ovviamente c’è stata la crisi in Indonesia e nel Sud-Est Asiatico nel 1997/98, poi la crisi si è spostata in Russia, poi in Brasile per poi colpire l’Argentina nel 2001-2002.
E c’erano problemi negli USA nel 2001, che li risolsero spostando denaro dal mercato azionario a quello immobiliare. Nel 2007-2008 il mercato immobiliare statunitense esplose, e così arrivò la crisi anche qui.
Si può guardare la mappa del mondo e vedere tendenze alla crisi muoversi intorno ad esso. Ragionare sul neoliberismo è utile per comprendere queste tendenze.
Una delle grandi manovre di neoliberalizzazione fu espellere tutti i keynesiani dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale nel 1982 – una pulizia totale di tutti i consiglieri economici che avessero una visione keynesiana.
Furono rimpiazzati da economisti neoclassici teorici dell’offerta [ossia che enfatizzassero il ruolo dell’offerta rispetto alla domanda aggregata keynesiana, ndt], e la prima cosa che questi fecero su decidere che da quel momento l’FMI avrebbe dovuto seguire una politica di aggiustamento strutturaleovunque ci fosse una crisi.
Nel 1982 c’era una crisi debitoria in Messico. L’FMI disse: “vi salveremo”. In realtà quello che stavano facendo era salvare le banche d’investimento di New York e implementare politiche di austerità.
La popolazione del Messico soffrì qualcosa come la perdita del 25 per cento del suo standard di vita nei quattro anni che seguirono il 1982, come risultato delle politiche di aggiustamento strutturale dell’FMI.
Da allora il Messico ha subito quattro aggiustamenti strutturali. Molti altri paesi ne hanno avuto più di uno. Questa divenne una pratica standard.
Che cosa stanno facendo alla Grecia adesso? È quasi una copia di quello che fecero al Messico nel 1982, solo in maniera più esperta. Questo è anche quanto accadde negli USA nel 2007-2008. Salvarono le banche e fecero pagare le persone tramite una politica di austerità.
C’è qualcosa delle recenti crisi e della loro gestione da parte delle classi dominanti che le abbiano fatto ripensare la sua teoria del neoliberismo?
Bhe, non penso che la solidarietà fra la classe capitalistica oggi sia quella di una volta. Geopoliticamente, gli USA non si trovano in una posizione di dare una linea globale, come lo erano negli anni ’70.
Penso che stiamo vedendo una regionalizzazione di strutture di potere globali all’interno del sistema statale – egemonie regionali come la Germania in Europa, il Brasile in America Latina e la Cina in Asia Orientale.
Ovviamente gli USA hanno ancora una posizione globale, ma i tempi sono cambiati. Obama può andare al G20 e dire “dovremmo fare questo”, e Angela Merkel può dire “non lo faremo”. Questo non sarebbe accaduto negli anni ’70.
Perciò la situazione geopolitica è divenuta più regionalizzata, c’è più autonomia. Penso che in parte sia il risultato della fine della guerra fredda. Paesi come la Germania non si affidano più agli USA per la propria protezione.
Inoltre, quella che è stata chiamata “la nuova classe capitalista” di Bill GatesAmazon e la Silicon Valley ha una politica differente rispetto a quella tradizionale del petrolio e dell’energia.
Come risultato essi tendono a seguire la propria strada, perciò c’è un sacco di rivalità settoriale fra, diciamo, [il capitalismo del]l’energia e quello della finanza, e fra quello dell’energia e la Silicon Valley, e così via. Queste sono divisioni serie che sono evidenti su qualcosa come il cambiamento climatico, ad esempio.
L’altra cosa che io penso sia cruciale è che la controrivoluzione neoliberale negli anni ’70 non passò senza una forte opposizione. Ci fu una massiccia resistenza da parte della classe lavoratrice, dai partiti comunisti in Europa, e così via.
Ma io direi che dalla fine degli anni ’80 la battaglia era persa. Così, dato che la resistenza è scomparsa, la classe lavoratrice non ha il potere che aveva una volta, la solidarietà fra la classe dominante non è più necessaria affinché funzioni.
[La classe capitalista] non deve necessariamente unirsi e fare qualcosa contro le lotte dal basso, poichè non c’è più nessuna minaccia. La classe dominante sta andando estremamente bene, perciò non ha davvero bisogno di cambiare alcunché.
Tuttavia, mentre la classe capitalista sta facendo molto bene, il capitalismo sta andando piuttosto male. I tassi di profitto hanno recuperato ma i tassi di reinvestimento sono incredibilmente bassi, perciò molto denaro non sta tornando dentro la produzione e sta invece affluendo verso l’appropriazione di terreni e l’acquisizione di asset.
Parliamo della resistenza [al neoliberismo]. Nel suo lavoro lei sottolinea il paradosso apparente che l’assalto neoliberista è stato accompagnato da un declino nella lotta di classe – almeno nel Nord del mondo – a favore di “nuovi movimenti sociali” a favore della libertà individuale. Può spiegarci come lei pensa che il neoliberismo abbia fatto nascere certe forme di resistenza?
Questa è una frase su cui riflettere. Cosa succede se ogni modo di produzione dominante, con la sua particolare configurazione politica, crea un modo di opposizione come una sua immagine a specchio.
Durante l’era dell’organizzazione fordista del processo produttivo, l’immagine a specchio erano grandi organizzazioni sindacali centralizzate e partiti politici democraticamente centralisti.
La riorganizzazione del processo di produzione e la svolta verso l’accumulazione flessibile durante il periodo neoliberale ha prodotto una sinistra che è, in molti modi, il suo specchio: che fa rete, decentralizzata, non gerarchizzata. Penso che sia molto interessante.
E per certi versi l’immagine a specchio rafforza ciò che invece sta provando a distruggere. Alla fine penso che il movimento sindacale effettivamente sostenne il fordismo.
Io penso che molta della sinistra oggi, essendo molto autonoma ed anarchica, stia rafforzando il gioco finale del neoliberismo. A un sacco di persone nella sinistra non piace sentirselo dire.
Ma ovviamente sorge una questione: c’è un modo di organizzarsi che non sia un’immagine a specchio [del modo di produzione dominante]? Possiamo rompere lo specchio e trovare qualcos’altro, che non sia giocare nelle mani del neoliberismo?
La resistenza al neoliberismo può occorrere in un numero di modi differenti. Nel mio lavoro io sottolineo che il punto in cui il valore si realizza è anche un punto di tensione. Il valore si produce nel processo di lavoro, e questo è un aspetto molto importante della lotta di classe. Ma il valore è realizzato nel mercato tramite la vendita, e c’è molto di politico in questo.
Molta resistenza all’accumulazione capitalista accade non solo nel processo di produzione ma anche tramite il consumo e la realizzazione di valore. Prendete ad esempio una fabbrica di auto: le grandi fabbriche solevano impiegare circa 25.000 persone; oggi ne impiegano 5.000 perché la tecnologia ha ridotto la necessità di lavoratori. Perciò più e più lavoratori e lavoratrici stanno venendo rimossi dalla sfera delle produzione e sempre di più vengono spinti nella vita urbana.
Il punto principale di scontento nella dinamica capitalista si sta spostando sempre di più dalle lotte sulla realizzazione del valore – verso la politica della vita quotidiana in città.
I lavoratori e le lavoratrici ovviamente contano e ci sono molte questioni che li riguardano che sono cruciali. Se ci troviamo a Shenzhen in Cina le lotte sul processo lavorativo sono dominanti. E negli USA dovremmo aver supportato lo sciopero a Verizon, ad esempio.
Ma in molte parti del mondo le lotte sulla qualità della vita quotidiana sono dominanti. Guardate alle grandi lotte negli ultimi dieci-quindici anni: Gezi Park a Istanbul non è stata una lotta dei lavoratori, è stato lo scontento verso la politica della vita quotidiana e la mancanza di democrazia e di processi decisionali; nelle rivolte nelle città brasiliane nel 2013 c’era ancora una volta il discontento verso la politica della vita quotidiana: trasporti, possibilità e la spesa di così tanto denaro in grandi stadimentre non si sta spendendo nulla sul costruire scuole, ospedali e case a prezzi accessibili. Le rivolte che abbiamo visto a Londra, Parigi e Stoccolma non riguardano il processo lavorativo, ma la politica della vita quotidiana.
Questa politica è piuttosto differente dalla politica che esiste nel processo di produzione. Nel processo di produzione è capitale contro lavoro. Le lotte sulla qualità della vita urbana sono meno chiare in termine della loro configurazione di classe.
Una chiara politica di classe, che solitamente si deriva da una comprensione del processo di produzione, diviene teoricamente confuse quando diviene più realistico. È una questione di classe ma non nel senso classico.
Lei pensa che parliamo troppo del neoliberismo e troppo poco del capitalismo? Quando è appropriato usare l’uno o l’altro termine, e quali sono i rischi che si corrono nel mischiarli?
Molti liberal dicono che il neoliberismo è andato troppo in là in termini di diseguaglianza di reddito, che si è esagerato con le privatizzazioni, che ci sono un sacco di beni comuni di cui dovremmo preoccuparci, come l’ambiente.
Ci sono anche molti modi di parlare del capitalismo, come la sharing economy, che si è rivelata altamente capitalizzata e altamente sfruttatrice.
C’è la nozione di capitalismo etico, che si è rivelato essere semplicemente un modo di essere ragionevolmente onesti invece che rubare. Perciò c’è la possibilità nella testa di alcune persone di un qualche tipo di riforma dell’ordine neoliberale in qualche altra forma di capitalismo.
Io penso che sia possibile fare un capitalismo migliore di quello che esiste adesso. Ma non di molto. I problemi fondamentali [del capitalismo] sono ad oggi così profondi che non c’è modo di andare da nessuna parte senza un forte movimento anticapitalista. Perciò vorrei porre la questione in termini anticapitalisti piuttosto che in termini anti–neoliberisti.
E penso che il pericolo sia, quando ascolto le persone parlare riguardo all’anti-neoliberismo, che non ci sia la percezione che è il capitalismo in se stesso, in qualsiasi forma, il problema.
La maggior parte degli oppositori al neoliberismo fallisce nell’affrontare i macro-problemi della crescita composta senza fine – i problemi ecologici, politici ed economici. Perciò preferirei parlare di anticapitalismo che di anti-neoliberismo.

CHI FINANZIA HILLARY CLINTON?

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da http://www.senzasoste.it/internazionale/ecco-chi-finanzia-hillary-clinton
Clinton SorosSenza ombra di dubbio Donald Trump, dal punto di vista dei personaggi della comunicazione politica, rappresenta un’originale interpretazione americana di una, diremo nel nostro linguaggio, sintesi tra Bossi e Berlusconi. Ovvero un incrocio, immancabilmente di destra, tra “quello che non le manda a dire”, per attirare l’elettorato frustrato e travolto dalle ristrutturazioni dell’economia, e l’imprenditore che spende la propria fama per alimentare la mitologia dei grandi creatori di ricchezza.
L’originalità, dal punto di vista italiano sta nell’incarnarli entrambi (Berlusconi invece faceva la parte del moderato) radicalizzando gli archetipi contenuti nelle figure che interpreta. Trump interpreta il ruolo dell’uomo libero da vincoli che dice “le cose come stanno” e, allo stesso tempo, quello di colui che ha accumulato ricchezze favolose con un tocco che può contagiare anche l’istituzione della presidenza americana. Per il resto, possiamo dire, dopo un ventennio di Bossi-Berlusconi, che quanto visto in Usa appare straordinariamente familiare: un establishment ripetitivo (il partito democratico) o bollito (il partito repubblicano), qualcuno che si propone come nuovo che avanza facendosi forza sulle frustrazioni di una parte importante dell’elettorato. Magari irridendo e delegittimando linguaggi, simboli, idee della politica che lo hanno preceduto.
E qui se gli Usa, all’inizio degli anni ’80, innovavano in comunicazione politica candidando un attore alla presidenza (Ronald Reagan) evidenziando il primato della funzione comunicativa su quella politica, l’Italia non è rimasta indietro. Essendo stato un paese televisivo come pochi in Europa alla fine degli anni ’80, si è posta come terreno di innovazione comunicativa (forme tecnologiche, stili, linguaggi) nella liquidazione di un sistema politico morente. Peccato, viene da sorridere, che la sinistra di queste innovazioni non se ne sia accorta, se non nella forma dell’anatema, scomparendo, alla fine, assieme al vecchio sistema politico (e non era scontato). E viene ancor di più da sorridere se si pensa alla legione di consulenti della comunicazione che, dagli Usa, negli anni sono venuti in Italia per fare consulenza, ben pagati, su un terreno dove erano stati gli italiani a innovare (lo stesso Berlusconi se ne era lamentato dicendo “questi americani conoscono poco l’Italia”). Segno, oltre che gli analisti americani del settore sanno occupare il mercato, che in Italia si è conosciuta la pratica della innovazione comunicativa ma si è difettato in teoria (e qui il disastro delle facoltà e dei dipartimenti che si occupano di comunicazione, qualcosa ci combina, e si vede).
Quindi, vedere dall’Italia lo scontro Trump-Clinton è qualcosa di familiare. Non solo, nelle accuse che i democratici, in coro, rivolgono a Trump non solo ci sono tutte le retoriche dell’antiberlusconismo e persino dell’antigrillismo che abbiamo visto fiorire in Italia. E che dire della presenza del Bertinotti del Vermont, Bernie Sanders? Uno che quando criticava (giustamente, dal punto di vista etico) Wall Street già mostrava di conoscere poco i meccanismi antitrust del suo stesso paese (su questo Bloomberg è stata impietosa), ed è arrivato a concludere un accordo, “per senso di responsabilità” contro Trump in appoggio con Hillary Clinton?
Diciamo che rischia di fare la fine del Prc a suo tempo: prima ondata di perdita di un elettorato deluso dall’accordo, seconda ondata, bagno di sangue vero in caso di vittoria elettorale della Clinton. E qui, dopo la comunicazione, si passa alla dimensione materiale. Così si capisce, fin da subito, del perchè il Bertinotti del Vermont è destinato a veder travolte le proprie preteste di contrastare la Clinton, all’interno del partito democratico, sui temi dello strapotere di Wall Street e sulla politica estera. Basta dire che i primi cinque finanziatori della campagna della Clinton, secondo le stime del Center for Responsive Politics, sono fondi di investimento o di consulenza finanziaria tra cui l’immancabile Soros Management group. Ci sono anche associazioni di insegnanti, lavoratori, carpentieri ed ingegneri. Ma sono del tipo di associazioni di alleanza tra capitale e lavoro che piace ai Clinton, marito e moglie: sono tutti legati a fondi pensione, quelli per dare un rendimento certo alle loro pensioni private vanno a caccia di rendimenti nel pianeta favorendo privatizzazioni, dismissioni e bolle finanziarie.
Essendo il mondo dei media, grazie anche alle capacità della rete diplomatica dei Clinton, già schierato con Hillary se l’ex first lady vincerà le elezioni i dubbi saranno pochi: il solito cortocircuito di media, finanza ed establishment politico che ha prodotto le più devastanti bolle finanziarie di sempre potrà continuare l’opera. Certo, alla convention democratica è stato approvato il ritorno, in materia di controllo sulla speculazione finanziaria, allo stato del Glass-Steagall act del 1933 in piena grande depressione. Una misura evidentemente gradita a Sanders. Ma c’è da ricordare che l’abolizione del Glass-Steagall, che ha permesso alle grandi banche di usare i fondi dei risparmiatori per ogni speculazione finanziaria, è stata proprio voluta dai Clinton, firmata da Bill nel 1999. Ed è stata all’origine di almeno due grandi bolle finanziarie, immettendo la liquidità dei risparmiatori nel mercato del capitale di rischio: quella dei tecnologici del 2000-2001 e il grande botto supbrime del 2008. Farsi finanziare dai fondi di investimento, e dai titolari di fondi pensione, e restrigere le occasioni di speculazione, con il ripristino del Glass-Steagall act, ovviamente è un’operazione impossibile. O meglio, possibile solo in campagna elettorale, puntando tutta l’attenzione sulle doti di pagliaccio di Trump per allargare l’effetto spaventapasseri (e Trump si dà da fare per guadagnarsi il ruolo), in modo da attirare alle urne il tremulo elettore americano di sinistra spingendolo a votare contro il nuovo fascismo. All’arrivo dello scoppio di qualche altra bolla finanziaria favorita dalle politiche dei Clinton, l’Economist del 20 agosto ha puntato di nuovo sul mercato immobiliare già sinistrato nel 2008, qualcosa a chi ha votato “Hillary” si racconterà. O meglio, piuttosto che tagliare alle grandi banche, e ai fondi di investimento che finanziano la sua campagna, magari si punterà all’aggiornamento del Dodd-Frank act. Stiamo parlando della riforma di Wall Street, voluta da Obama ed entrata a regime del 2013, che deve monitorare ed impedire nuove bolle finanziarie. Sui limiti e l’efficacia del Dodd-Frank act questa infografica, su fonti della agenzia federale americana OCC, aiuta parecchio.
derivati 2015
Come si vede nel primo quarto del 2015, le prime cinque banche americane detenevano ancora 200 trilioni di derivati, una quantità di titoli tossici in grado di far saltare l’economia del pianeta (nel 2007 secondo Forbes i titoli tossici in Usa ammontavano a 130 milioni). Mentre Goldman Sachs e Citigroup, come si può constatare nell’infografica, hanno visto aumentare, dal 2009, la loro esposizione in derivati. E quali rapporti ci sono tra Goldman Sachs, dove Draghi ha lavorato (esponendo tra l’altro, quando era direttore generale del tesoro, il nostro paese a derivati che costano l’interno ammontare delle recenti privatizzazioni) e Hillary Clinton?
Fonte CNN: dopo l’approvazione del Dodd-Franklin act, l’asse temporale ce lo mettiamo noi, che per Goldman, non è andato male in esposizione in derivati, Hillary Clinton ha tenuto per questa corporation finanziaria 92 conferenze a 225 mila dollari l’una per un totale di 21,8 milioni di dollari.
Come dire, avrà molte materiali ragioni la Clinton, come componente della coppia Bill e Hillary che fece fuori il Glass-Steagall act che durava dal 1933, per reiterare l’appoggio al mondo dei titoli tossici. Magari revisionando i limiti delle leggi, come il Dodd-Frank, in modo che chi ha finanziato le conferenze, ed è attore di primo piano della finanza tossica globale, trovi una certa soddisfazione.
Il partito democratico, secondo un articolo del Manifesto esprime la piattaforma elettorale più a sinistra degli ultimi anni. D’altronde chi, a suo tempo, ha creduto a babbo natale in Italia non può che credere, oggi, alla befana che arriva con la calza e i dolcetti in America. Ma il punto qui non è la fine politica del Bertinotti del Vermont, che appare comunque solo questione di tempo, è che Hillary ha un’esposizione economica impressionante verso i maggiori protagonisti del gioco d’azzardo, i cui costi vengono pagati dal resto del pianeta, della finanza globale.
Se si vuole, invece, l’esposizione, in materia di finanziamenti da zone di crisi geopolitica, è persino, o altrettanto, preoccupante. E spiega come tanta campagna elettorale americana si sia giocata sullo schierarsi o meno nei confronti di Putin. Fermo restando la politica in medio oriente, che appare interventista, suggeriamo di guardare questo grafico, fonte Wall Street Journal, sulla nazionalità dei finanziatori esteri, negli ultimi dieci anni, della Clinton Foundation.
donatori clinton
Non stupisce che il paese che esprime la strategica borsa di Londra (l’Inghilterra) abbia finanziato la Clinton. Tantomeno il protagonismo, tra i donatori, del paese di tante esternalizzazioni, ed evasioni fiscali, americane ovvero l’Irlanda. Da leggere il protagonismo dei finanziatori arabi specie alla luce della complessità odierna dello scenario mediorientale. Ma quello che balza agli occhi è il primato, nelle donazioni decennali, dei fondi provenienti dall’Ucraina. Stiamo parlando del paese che, secondo la Strategic Vision del guru del primato politico americano Zbigniew Brzezinski, deve essere tolto definitivamente dall’influenza russa, facendo da spartiacque tra quel paese e l’Europa. Favorendo, secondo Brzezinski, sia un allentamento dei rapporti Usa-Russia che un indebolimento della federazione guidata da Putin. In modo da garantire una nuova egemomia politica americana in un mondo multipolare ma frammentato. Ora, senza entrare in affinità e divergenze tra Obama, Hillary Clinton e Brzezinski quando la Clinton era segretario di stato oggi si possono notare alcuni fatti. La prima è l’accusa, pubblica, della Clinton a Trump di essere quinta colonna di Putin in America, la seconda alla Russia di aver hackerato le email del partito Democratico, la terza l’evidenza del peso dei finanziamenti, provenienti dall’Ucraina, della Clinton Foundation, la quarta, la notizia, arrivata proprio dall’Ucraina e che ha avvantaggiato la Clinton nei sondaggi, dei finanziamenti al capo della comunicazione di Trump poi licenziato.
Senza avventurarsi in dietrologie, perchè la politica è qualcosa di diverso dalle facili associazioni tra personaggi, è evidente che c’è un rapporto reale tra finanziamenti ucraini alla Clinton, campagna elettorale americana e rapporto conflittuale con Putin. Un rapporto talmente solido, per il Counterpunch, da far scrivere che “Hillary” fa stabilmente parte del partito della guerra. Del resto la vicenda Ucraina non riguarda solo i rapporti Usa-Europa-Russia ma è ormai legata, nel più classico effetto domino allo scacchiere medio-orientale. Il partito della Clinton, che sia della guerra o delle tensioni internazionali, perlomeno, grazie anche ai finanziatori ucraini, ha mostrato aggressività e vivacità in questa serie di crisi collegate, complesse e a rischio allargamento.
Negli Usa, nella campagna elettorale, si stanno confrontando due tendenze, una che, almeno nelle intenzioni e nelle retoriche fin qui manifestate, vedono due ruoli diversi per l’ “America”. Quella di Trump che prova a innovare, e su questo ha spaccato il partito repubblicano, reinterpretando tendenze isolazioniste, nazionalistiche attraveso le quali rileggere, ovviamente da destra, l’eccezionalismo americano. Quella della Clinton, in continuità con le politiche del marito, che vede nel nesso bolla finanziaria-guerra lo strumento con il quale mantere, e accrescere, i profitti delle corporation e il peso della presenza geopolitica americana. Entrambi i modelli -al di là dei tatticismi del Bertinotti del Vermont e delle infatuazioni di stagione da parte di chi, in Italia, si è fatto spolpare, non solo elettoralmente, dall’originale- hanno pericolosi, per quanto differenti, contraccolpi per l’intero pianeta. Dal punto di vista finanziario, mondo che esprime ordigni in grado di far saltare interi paesi, e da quello della guerra sul campo. In ogni caso, l’elezione 2016 che esprima o meno continuità o meno con le politiche di Obama, è destinata a lasciare il segno sulla superficie globale.
Proprio perchè in Italia non si vota, e tantomeno in Europa, sarebbe preferibile maggiore distanza, clinica e politica, da quanto sta accadendo in Usa. Invece, grazie sia all’intreccio tra grandi media e corporation finanziarie che alla capacità diplomatica della Clinton Foundation (senza parlare dell’agitarsi di Trump che spaventa non poco), tutta la propaganda del partito democratico, assieme alla sua agenda politica, passa praticamente senza filtri. Eppure le cose vanno viste in un altro modo. Se Trump è un problema, la Clinton pure. Basta dare un’occhiata, anche sommaria, ai suoi maggiori finanziatori.

LE NOSTRE MACERIE

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da http://ilmanifesto.info/le-nostre-macerie/




Amatrice prima e dopo 
Le parole di cordoglio – «l’Italia piange», «il cuore grande dei volontari», «con il cuore in mano voglio dire che non lasceremo da solo nessuno» – pronunciate dal presidente del consiglio ieri mattina in televisione a poche ore dalla tragedia, avrebbero dovuto suscitare condivisione se non le avessimo già sentite ripetere troppe volte per non provare, invece, insofferenza, rabbia, indignazione. Forse perché non c’è altro evento più del terremoto capace di mettere a nudo lo sgoverno del nostro paese, l’incapacità delle classi dirigenti di mettere in campo l’unica grande opera necessaria alla salvaguardia di un territorio nazionale abbandonato all’incuria, alla speculazione, alle ruberie (come i processi del post-terremoto dell’Aquila hanno purtroppo mostrato a tutti noi).
Nessun paese industriale, con un elevatissimo rischio sismico come il nostro, viene polverizzato ogni volta che la terra trema. Le cifre imbarazzanti stanziate un anno dopo l’altro per la sicurezza ambientale nelle leggi finanziarie danno la misura dell’inconsistenza delle politiche di intervento. Dal 2009 a oggi è stato messo in bilancio, ma solo perché in quel momento eravamo stati colpiti dallo spappolamento dell’Aquila, meno dell’1 per cento del fabbisogno necessario alla prevenzione. E’ la cifra di un fallimento storico, morale, politico.
Chiunque capisce che prima di abbassare le tasse alle imprese, prima di distribuire 10 miliardi divisi per 80 euro, bisognerebbe investire per costruire l’unica grande impresa che i vivi reclamano anche a nome dei morti.
Chi ci amministra ha costantemente lavorato alla dissipazione delle nostre risorse comuni. Il paese è allo stremo ma nessuno, nemmeno questo governo, cambia direzione. Con investimenti tecnologici, ripopolamento delle terre interne, salvaguardia del patrimonio culturale, paesistico. E finalmente lavoro per gli italiani, per gli immigrati. Finalmente progetti ambiziosi per uno sviluppo economico di qualità legato ai territori e alle loro istituzioni. Non ci sono soldi? E quanti ne spendiamo per il rattoppo delle voragini materiali e morali?
Purtroppo oltre a temere e piangere ogni volta le vittime della mancata prevenzione (andiamo verso l’autunno, pioverà, saremo esposti al pericolo di frane e alluvioni), dobbiamo aver paura anche della ricostruzione. Nelle pagine dedicate al terremoto pubblichiamo un pro-memoria dei cittadini dell’Aquila che riassume come meglio non si potrebbe i danni, i pericoli aggiunti con gli interventi edilizi post-terremoto. Perché accanto al simbolo della tragedia di sette anni fa, il monumentale palazzo della Prefettura del capoluogo abruzzese, oggi abbiamo l’ospedale di Amatrice colpito perché nemmeno questo edificio era costruito con criteri antisismici. E nessuno dimentica le macerie della scuola di San Giuliano di Puglia con i suoi piccoli rimasti sepolti, come i bambini morti ieri sull’Appennino.

Il numero delle vittime sale ogni ora, persone uccise dall’incuria di chi aveva il dovere di provvedere e non lo ha fatto, nemmeno per salvaguardare scuole, ospedali, edifici pubblici. Rivedremo le tendopoli, assisteremo allo sradicamento degli abitanti, alla desolazione dell new-town. Speriamo almeno di non dover riascoltare le risate fameliche di chi ora aspetta l’appalto.

IL DECRETO MONTI SULLE CALAMITA'

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da http://www.senzasoste.it/politica/calamita-naturali-intanto-cancelliamo-subito-il-decreto-monti-del-2012

Monti-e-il-Terremoto-in-Emilia-Romagna

Ci sono le calamità naturali (terremoti, alluvioni, frane) e poi ci sono le calamità politiche. Una di queste è il decreto Monti del 2012 con cui lo Stato si deresponsabilizza totalmente dal pagamento dei danni dovuti alle calamità naturali e pretende le assicurazioni private su tutti gli stabili. Qui di seguito una nota esplicativa del Sole 24 Ore del 21 maggio 2012. Più sotto il link con il decreto approvato dalla Camera dei Deputati all’insegna delle misure di austerity. 25 agosto 2016
***
In caso di terremoto, alluvione, o di ogni altra catastrofe naturale, lo Stato non pagherà più i danni ai cittadini. Che, dunque, per vedere la casa o l'azienda ricostruita, avranno una sola strada: ricorrere all'assicurazione 'volontaria’. Così dice il decreto di riforma della protezione civile pubblicato sulla 'Gazzetta' del 16 maggio. E anche se il provvedimento prevede un regime transitorio a fini sperimentali, suona davvero come una tragica coincidenza il terremoto (oltre cento scosse, fino a 5.9 gradi della scala Richter) che a soli quattro giorni di distanza ha colpito l'Emilia, facendo sette morti, decine di feriti e migliaia di sfollati, distruggendo abitazioni e edifici storici.
La norma tra l'altro conferma anche 'tassa sulla disgrazia’, con un'unica differenza rispetto alle versioni precedenti: le Regioni non avranno più l'obbligo di alzare fino ad un massimo di cinque centesimi l'accise sulla benzina, ma avranno la facoltà di farlo.
Quella che doveva essere una norma per riordinare l'intero sistema di Protezione Civile e restituirgli l'efficienza in caso di emergenza che il commissariamento voluto da Tremonti gli aveva tolto, rischia dunque di rivelarsi una beffa per i cittadini. È vero che il provvedimento prevede già un «regime transitorio anche a fini sperimentali» e dunque non diventerà né immediatamente operativo – entro 90 giorni dovrà essere emanato un regolamento che stabilisce «modalità e termini» per l'avvio del regime assicurativo – né lo sarà, probabilmente, passati i tre mesi. Ma è evidente che si tratta del primo passo per mettere la politica di fronte ad un problema di cui si dibatte da anni: quello dell'assicurazione in caso di calamità, perché‚ lo Stato non è più in grado di fare fronte alle spese.
Il provvedimento, dunque, stabilisce che «al fine di consentire l'avvio di un regime assicurativo per la copertura dei rischi derivanti da calamità naturali sui fabbricati a qualunque uso destinati» per garantire «adeguati, tempestivi ed uniformi livelli di soddisfacimento delle esigenze di riparazione e ricostruzione» dei beni immobili privati, «possono essere estese ai rischi derivanti da calamità naturali tutte le polizze assicurative contro qualsiasi tipo di danno a fabbricati di proprietà di privati». Entro 90 giorni dalla pubblicazione in “Gazzetta”, palazzo Chigi, di concerto con i ministeri dell'Economia e dello Sviluppo Economico e sentita la Conferenza Stato-Regioni e l'Isvap, dovrà emanare un regolamento, sulla base di alcuni criteri. Quali? Agevolazioni fiscali per chi si assicura e, appunto, «l'esclusione, anche parziale, dell'intervento statale per i danni subiti da fabbricati».
Certo è che non sarà un percorso di facile realizzazione. Innanzitutto perché‚ l'assicurazione su base 'volontaria’ sancisce, di fatto, la disparità tra cittadini che vivono in zone non a rischio e quelli che, invece, si trovano in aree sismiche o a rischio idrogeologico. Senza contare che le compagnie assicurative non stipuleranno polizze – o se le faranno i cittadini dovranno pagare cifre astronomiche – in quelle zone dove i rischi sono molto alti.
La conseguenza è una sola: si dovrà arrivare all'assicurazione obbligatoria per tutti con un costo che, secondo le stime dei tecnici delle varie amministrazioni dello Stato e delle stesse assicurazioni, dovrebbe essere attorno ai cento euro ad abitazione.
Ci si arriverà? È probabile, visto che il decreto stabilisce anche un altro elemento che va in questa direzione. La durata dello stato d'emergenza, cioè il periodo in cui è lo Stato a farsi carico di tutte le spese, può essere di 60 giorni con un'unica proroga di altri 40. Una decisione presa per evitare che, come è accaduto decine di volte nel passato, gli stati d'emergenza durino anni. Ma cosa succede al centunesimo giorno?


WEEK END MAGAZINE

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BOLLA DI SAPONE

Risultati immagini per bolla di sapone

Con un soffio,
gesto così delicato
e spensierato,
hai voluto crearmi
e per diletto
hai continuato a guardarmi
mentre il tuo respiro mi allontanava
e, mentre ancor vicino,
specchiavi il tuo viso
ero felice del tuo sorriso
senza capire,
perso nel volo
sempre più lontano
bramando il tuo tocco;
senza sapere
che mi avrebbe ucciso
in un istante
giacchè non ero
per te
che uguale
a tutte le altre.

(Grazia Deledda)

IL TTIP E' FALLITO: PAROLA DI MERKEL!

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da http://popoffquotidiano.it/2016/08/29/il-ttip-e-fallito-lo-ammette-il-ministro-di-merkel/

“Il TTIP è fallito”: così il Ministro dell’economia tedesco Sigmar GabrielStop TTIP Italia: “Ma non abbassiamo la guardia. E prossimo Consiglio Europeo metta la parola fine su TTIP e CETA”

di Checchino Antonini
gabriel
Non ci sarà il Ttip – annuncia l’Ansa – l’accordo di libero scambio tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea, nell’eredità che Barack Obama lascerà in consegna al suo successore alla Casa Bianca. La previsione viene da Berlino (in Germania l’opinione pubblica e i movimenti si erano ribellati con forza al trattato), con il vice cancelliere e vice ministro tedesco dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, che dichiara «di fatto» fallito il negoziato tra le due sponde dell’Atlantico, dando così voce a quanti in diversi pensano da tempo, tra chi si rammarica per l’occasione perduta e chi è invece lieto di archiviare un capitolo dai risvolti terrificanti per la democrazia e la giustizia sociale, e risultato in effetti troppo complicato da scrivere fino in fondo. Ma il cronista dell’Ansa “dimentica” di dire che, nell’intervista alla rete ZDF, Gabriel ha dichiarato che i negoziati sul TTIP sono «di fatto falliti perché noi europei non possiamo accettare supinamente le richiesta americane». E se di fallimento si dovrà quindi parlare, a contribuire sarà stato senza dubbio il clima acceso dalla campagna elettorale in corso per le presidenziali americane. Intanto Donald Trump, il candidato repubblicano, ha giurato guerra agli accordi di libero scambio sull’onda della sua promessa di protezionismo per «rendere l’America di nuovo grande»: in nome di essa ha tra l’altro ha garantito che si libererà anche del Nafta (accordo di libero scambio tra Usa, Canada e Messico), così come di bloccare l’accordo transpacifico voluto da Obama per aprire un corridoio con l’Asia. La democratica Hillary Clinton, pur in un primo momento dalla parte di Obama, ha poi nel corso della campagna elettorale preso le distanze dal progetto, in risposta al dissenso manifestato da una parte consistente dell’elettorato democratico, che su questo punto Hillary rischiava di abbandonare nelle braccia di Bernie Sanders, il suo sfidante alle primarie. L’amministrazione a Washington però ci spera ancora e anche nelle ultime settimane non ha mancato di lavorarci, se non addirittura accelerando e intensificando gli sforzi: a quanto risulta non ha infatti mai interrotto nemmeno durante la pausa estiva i contatti con la controparte europea, alla luce anche del voto britannico sulla Brexit che ha senza dubbio complicato un tragitto già percorso a singhiozzi. Del resto, come ha osservato il tedesco Sigmar Gabriel, in 14 round di colloqui le parti non hanno trovato un’intesa su un solo capitolo dei 27 sul tavolo. Troppo poco e troppo tardi: all’inizio dell’estate era stato anche il ministro italiano dello sviluppo economico Carlo Calenda ad avvertire che il Ttip era in bilico: «Il Ttip – aveva detto – secondo me salta perché siamo arrivati troppo lunghi sulla negoziazione» quindi «sarà molto difficile che passi e sarà una sconfitta per tutti». Sicuramente sarà una sconfitta del suo governo e delle multinazionali.
«Ma non abbassiamo la guardia», annuncia il movimento StopTtip pur ammettendo che le dichiarazioni di Berlino sono «un importante risultato. Un colpo pesante a quei Paesi membri, Italia in testa, che del Trattato Transatlantico era sostenitori in prima persona».
«Una dichiarazione importante perché fa proprie le preoccupazioni della società civile europea e statunitense», dice Monica Di Sisto, portavoce della Campagna Stop TTIP Italia. «Se Sigmar Gabriel sottolinea ciò che da anni hanno sostenuto Stop TTIP Italia e le altre campagne europee, questo non significa che non possa trattarsi di tattica negoziale. Capiremo cosa accade al Consiglio Europeo di Bratislava di settembre dove, tra l’altro, si parlerà anche del preoccupante Accordo con il Canada, il CETA (considerato il precursore del TTIP, ndr), già approvato ma che grazie alle pressioni dal basso abbiamo ottenuto che venga ratificato anche dai Parlamenti nazionali, senza esautorare i nostri Parlamentari da una decisione così importante per l’economia del nostro Paese. Da Bratislava dovrà uscire un secco stop al TTIP e al CETA, come richiesto dalla maggioranza dei cittadini europei».
«Ma un risultato così importante per la società civile non deve farci dimenticare che serve un vero e proprio ribaltamento della politica commerciale europea, ad oggi basata troppo sulla spinta verso la liberalizzazione dei mercati e l’austerità, e troppo poco verso un processo realmente rispettoso delle persone e dell’ambiente», dice anche Marco Bersani, tra i coordinatori della Campagna Stop TTIP Italia.

IL DOPPIAGGIO

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I dati dell'articolo sono molto eloquenti e preoccupanti. Il finale invece non lo condividiamo proprio. Crescono le imprese dedite all'export anche perchè l'abbassamento della ricchezza impedisce potere di acquisto, per cui pare difficile dire che il tramonto dei capitalisti legati al settore pubblico sia segno di possibilità di superare certi atavici vizi, tantopiù se si fa una semplice deduzione: se i patrimoni di costoro crescono a dismisura e la ricchezza generale diminuisce, evidentemente in termini di occupazione e salario questi ricchi in ascesa non sono propensi a diffondere maggiore ricchezza. Ergo siamo fermi al palo, e quel 'se l'Italia uscirà dalla crisi'è un assurdo, perchè la concentrazione della ricchezza e l'aumento della forbice sono cause esse stesse della crisi.


da  http://www.repubblica.it/economia/2015/01/19/news/la_crisi_raddoppia_il_patrimonio_alle_dieci_famiglie_dei_paperoni_ora_pi_ricche_di_20_milioni_di_italiani-105248084/

A partire dal 2008 drastico allargamento delle distanze sociali. Tra gli abbienti sale il ceto produttivo, giù quello delle rendite


La crisi raddoppia il patrimonio alle dieci famiglie più ricche di 20 milioni di italiani

ROMA - Mentre crollava Lehman Brothers, falliva la Grecia, l'America eleggeva il primo presidente nero, l'ultimo governo di Silvio Berlusconi scivolava via, mentre la Cina cresceva del 60% e Apple diventava la società di maggior valore al mondo, in Italia si consumava un evento storico. In sordina, però. Magari tutti erano troppo presi a seguire gli altri eventi, quelli che hanno segnato le prime pagine dal 2008 in poi, per accorgersene. Eppure non era invisibile, perché è stato uno spettacolare doppiaggio a grande velocità. 

E' andata così. Nel 2008 la ricchezza netta accumulata del 30% più povero degli italiani, poco più di 18 milioni di persone, era pari al doppio del patrimonio complessivo delle dieci famiglie più ricche del Paese. I 18,1 milioni di italiani più poveri in termini patrimoniali avevano, messi insieme, 114 miliardi di euro fra immobili, denaro liquido e risparmi investiti. Le dieci famiglie più ricche invece arrivavano a un totale di 58 miliardi di euro. In altri termini persone come Leonardo Del Vecchio, i Ferrero, i Berlusconi, Giorgio Armani o Francesco Gaetano Caltagirone, anche coalizzandosi, arrivavano a valere più o meno la metà di un gruppo di 18 milioni di persone che, in media, potevano contare su un patrimonio di 6.300 euro ciascuno. 

Cinque anni dopo, e siamo nel 2013, sorpasso e doppiaggio sono già consumati: le dieci famiglie con i maggiori patrimoni ora sono diventate più ricche di quanto lo sia nel complesso il 30% degli italiani (e residenti stranieri) più poveri. Quelle grandi famiglie a questo punto detengono nel complesso 98 miliardi di euro. Per loro un balzo in avanti patrimoniale di quasi il 70%, compiuto mentre l'economia italiana balzava all'indietro di circa il 12%. I 18 milioni di italiani al fondo delle classifiche della ricchezza sono scesi invece a 96 miliardi: una scivolata in termini reali (cioè tenuto conto dell'erosione del potere d'acquisto dovuta all'inflazione) di poco superiore al 20%. Quanto poi a quelli che in base ai patrimoni sono gli ultimi dodici milioni di abitanti, il 20% più povero della popolazione del Paese, lo squilibrio è ancora più marcato: nel 2013 le 10 famiglie più ricche d'Italia hanno risorse patrimoniali sei volte superiori alle loro. 

Sono questi i risultati più sorprendenti di un approfondimento che Repubblica ha svolto sui patrimoni degli italiani durante gli anni della crisi. L'analisi si basa sui dati pubblicati dalla Banca d'Italia relativi alla ricchezza netta nel Paese e la sua suddivisione fra strati sociali. Per le famiglie con i dieci maggiori patrimoni, una lista che negli anni è cambiata, le informazioni sono tratte dalla classifica annuale dei più ricchi stilata dalla rivista Forbes. Inevitabilmente né l'una né l'altra serie di dati è perfetta, molte informazioni sui patrimoni non sono pubbliche e restano soggette a stime più o meno accurate. Ma le tendenze emergono con prepotenza e raccontano due storie di segno diverso. La prima non è a lieto fine: dal 2008 l'Italia ha subito un colossale abbattimento di ricchezza che si è scaricato con forza verso la parte bassa della scala sociale, mentre al vertice tutto si svolgeva in modo opposto. Lassù il ritmo dell'accumulazione di patrimoni personali accelerava come forse mai negli ultimi decenni. La seconda storia invece fa intravedere un po' di luce in fondo al tunnel, perché la lista dei super-ricchi è cambiata in modo tale da alimentare qualche speranza sulle capacità del Paese di produrre in futuro più innovazione, lavoro e reddito e meno rendite più o meno parassitarie. 

Sicuramente il punto di partenza di questi anni non è incoraggiante. Calcolata in euro del 2013, la ricchezza netta totale degli italiani crolla di 814 miliardi negli ultimi cinque anni (quelli per i quali sono disponibili i dati, fino appunto al 2013). Sparisce nella voragine della recessione quasi un decimo di patrimonio netto delle persone che vivono in questo Paese. Circa due terzi di questa erosione si spiega con il calo del valore delle case, mentre il resto è dovuto a perdite finanziarie o al ricorso di certe famiglie ai risparmi per sostenere le spese quotidiane. Per la parte della ricchezza in mano ai ceti meno ricchi, Repubblicaassume che la loro quota nel 2013 sul totale del patrimonio degli italiani sia rimasta invariata rispetto al 2010: è ad allora che risalgono gli ultimi dati disponibili. In realtà questa è una stima ottimistica, perché la tendenza alla diminuzione della quota di patrimonio dei più poveri è evidente dagli anni precedenti. Nel 2000 per esempio il 40% più povero della popolazione residente in Italia, 24 milioni di persone, aveva patrimoni pari al 4,8% della ricchezza netta totale del Paese. Dieci anni dopo quella quota era già scesa al 4,2%. 

Anche così, il calo dei patrimoni della "seconda" metà d'Italia, l'Italia meno ricca, è superiore alla media del Paese. Chi è già povero si impoverisce più in fretta. Nel 2013 quei 30 milioni di italiani avevano nel complesso 829 miliardi (mentre gli altri 30 controllavano gli altri 8500). Nel 2008 però quegli stessi 30 milioni di persone avevano (in euro 2013) per l'esattezza 935 miliardi. Dunque la "seconda" metà del Paese durante la Grande Recessione è andata giù dell'11,3% in termini patrimoniali. La prima metà invece, i 30 milioni di italiani più ricchi, è scesa dell'8,2%. Gli uni non solo erano molto più poveri degli altri prima della crisi: si sono impoveriti di più durante. Tutt'altro Paese invece per le prime dieci famiglie. La loro ricchezza netta sale di oltre il 60% in termini reali fra il 2008 e il 2013 e la loro quota sul patrimonio totale degli italiani aumenta. Cambia però anche un altro dettaglio: la loro composizione. I più ricchi del 2013 non sono gli stessi del 2008 o del 2004 e per certi aspetti formano una lista più interessante. Ora nel gruppo si trovano famiglie meno dedite alle rendite di posizione, alla speculazione pura o al rapporto con la politica per fare affari. Adesso dominano i primi posti imprenditori più impegnati nella creazione di valore, lavoro e manufatti innovativi che interessano al resto del mondo. 

Negli anni, escono dalla graduatoria di Forbes o scivolano in basso i capitalisti italiani che basano i loro affari su concessioni pubbliche o investimenti immobiliari e finanziari. Emblematica - non isolata - la vicenda dei Berlusconi, che negli ultimi cinque anni perdono 3,2 miliardi di patrimonio e scivolano dal primo posto del 2004, al terzo del 2008, al sesto del 2013. Sale in fretta invece il patrimonio di produttori industriali dediti all'export. Succede nell'alimentare (i Ferrero o i Perfetti), nella moda e lusso (Del Vecchio di Luxottica, Giorgio Armani, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, Renzo Rosso), nella farmaceutica e nell'industria ad alto contenuto tecnologico (Stefano Pessina o i Rocca di Techint). Escono dalla top ten invece investitori finanziari-immobiliari come Caltagirone o chi in passato ha puntato troppo sulle banche. Questa diversa qualità del capitale vincente è un passo avanti di un'Italia sempre più piena di squilibri. È un Paese che forse però si sta liberando, nel dolore, di alcuni dei peggiori vizi del suo capitalismo. Meglio, quanto a questo, della Gran Bretagna, dove Oxfam ha condotto un'inchiesta di cui questa di Repubblica è la replica per l'Italia. Lì i più ricchi, sempre più ricchi, restano gli eredi della vecchia nobiltà proprietaria di 
decine di ettari di palazzi a Londra come il duca di Westminster o i Cardogan, o imprenditori indiani come gli Hinduja o i Reuben. Se risolverà il problema della povertà, e uscirà dalla crisi, forse è l'Italia fra le due a potersi ritrovare con una marcia in più

DENTRO AL GHETTO DI AMIANTO

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da https://news.vice.com/it/article/amianto-terremoto-irpinia?utm_source=vicefbit

VIAGGIO TRA I DIMENTICATI DEL TERREMOTO DI IRPINIA
di Luigi Mastrodonato
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"Mi dissero che sarebbero venuti a prendermi dopo pochi mesi. Li sto ancora aspettando."
Mario ha passato gli ultimi trentacinque anni della sua vita in un container di amianto. Prima nelle sistemazioni provvisorie di Barra, poi, da diciotto anni, nei bipiani di Ponticelli. È uno degli 'invisibili' del terremoto dell'Irpinia del 1980, una tragedia che causò quasi tremila morti e oltre 280mila sfollati.
Siamo alla periferia est di Napoli, un deserto economico-sociale venuto a sostituire l'attivismo degli anni Settanta e Ottanta. Cirio, Fiat, Corradini: di queste e di altre grandi aziende - un tempo insediate qui - oggi non c'è più traccia. È così che Napoli Est ha smesso di essere il traino industriale della città.
Oggi, tra case popolari e strade ricoperte di rifiuti, sorgono qui u bibiann, i bipiani di Ponticelli. Un ghetto di diciotto container in alluminio ed amianto, nati per dare una sistemazione provvisoria ai terremotati dell'Irpinia, ma divenuti nel tempo la residenza stabile per più di trecento persone.
[foto di Paolo Manzo]
Concepiti come un parcheggio provvisorio per gli sfollati, questi campi vennero messi in piedi dalle amministrazioni regionali in vari punti della provincia di Napoli nel corso degli anni Ottanta. Dei due ghetti di Barra oggi non c'è più traccia: vennero demoliti verso la fine degli anni Novanta dalla giunta Bassolino e sostituiti da un parco pubblico, mentre le famiglie che vi abitavano vennero ricollocate in nuovi complessi di abitazioni popolari costruite nell'area.
Non tutti furono però così fortunati: Mario, ad esempio, fu trasferito nei container di Ponticelli. Ancora oggi è qui che aspetta un ricollocamento assieme ad altre famiglie.
A Ponticelli i bipiani di amianto in effetti esistono ancora, sebbene un lotto sia stato abbattuto tra il 2003 e il 2011 a seguito di alcune tensioni etniche tra i residenti kosovari e serbi. La stessa sorte non è toccata invece al ghetto in Via Fuortes, divenuto ormai uno degli esempi più lampanti dell'intreccio tra malapolitica, mentalità camorristica e invisibilità sociale.
[foto di Paolo Manzo]
Pochi conoscono bene questo ghetto di sfollati, immigrati e abusivi come Paolo Manzo, un fotografo napoletano che per quattro anni ha sviluppato un progetto fotografico sull'area. Trovandosi a passare di frequente davanti a questo scempio edilizio, ha deciso di entrarci per documentare le condizioni di vita delle persone al loro interno.
"Iniziai a conoscere gente, a capire che aria girava ed a scoprire veramente i bipiani," racconta a oggi a VICE News. "All'inizio ho incontrato un po' di diffidenza, ma con il passare del tempo gli abitanti hanno iniziato a fidarsi di me."
Abbiamo chiesto a Paolo di accompagnarci a fare un giro tra i bipiani di Ponticelli.
Camminando per i cunicoli ricavati tra i container, viene da stupirsi per come queste persone siano riuscite a sopravvivere qui per tutto questo tempo. C'è amianto ovunque, ma soprattutto condizioni igienico-sanitarie disastrose—tra discariche a cielo aperto e tubature di scarico rotte.
[foto di Paolo Manzo]
Una perenne puzza di bruciato ci aggredisce sin dall'inizio, aumentando man mano che si entra nel cuore dei bipiani. La centralina elettrica, evidentemente sovraccaricata, è annerita dalle bruciature: da qui, centinaia di fili elettrici si diramano per tutto il ghetto, intrecciandosi a più riprese.
Entrando nelle case - se così si possono definire questo tipo di baracche d'amianto - la situazione non è tanto diversa. Per quanto le persone abbiano fatto di tutto per rendere questi luoghi più accoglienti, portandoci televisori, mobili e tappeti ornamentali, è impossibile non fare caso alle pareti corrose e solcate da profondi aloni neri, segno dell'altissima umidità presente nei container.
Il problema più serio, tuttavia, è anche quello meno visibile: l'amianto. Dopo avere trascorso decenni rinchiusi in queste gabbie di eternit, i residenti lamentano l'impatto che quest'ultimo ha sulla loro quotidianità, soprattutto in estate.
L'utilizzo dell'amianto, prima che venisse vietato negli anni Novanta, era dovuto alla sua capacità di trattenere il calore. Nella stagione calda i container si trasformano in veri e proprio forni, costringendo le persone a trascorrere la quasi totalità del loro tempo all'aperto, sulle panche in pietra interposte tra i container, dove spesso finiscono anche per mangiare e dormire.
[foto di Paolo Manzo]
Mario, che ha cinque figli di cui uno disabile, non ne può più di vivere in queste condizioni. "Per ora l'amianto non ci ha ancora fatto nulla, ma arriverà il nostro momento" racconta a VICE News.
In effetti, il processo con cui questo materiale va a colpire le vie respiratorie dell'uomo è molto lento—ecco perché, al momento, possiamo soltanto immaginare l'effetto di questi container sulla salute dei residenti. L'unica apparente certezza, almeno a sentire quelli che vivono nel ghetto, è la causa di morte più diffusa tra i container: il cancro. L'ultima vittima è stata una donna, deceduta l'anno scorso.
VICE News ha parlato con Roberto Braibanti, responsabile ambientale di SEL per la Provincia di Napoli, da anni impegnato in una battaglia per lo smantellamento dei bipiani e il ricollocamento delle persone rinchiuse al loro interno.
"Il problema dei bipiani non è solo un problema sociale, è anche un problema ambientale e di salute pubblica non indifferente," afferma Braibanti, che sottolinea come peraltro l'amianto sia attualmente nella sua fase di 'vita' più pericolosa, quella dello sbriciolamento.
Per questo motivo i container in amianto dei bipiani, oltre a essere un pericolo per i residenti del ghetto, lo sono anche per tutta l'area limitrofa di Ponticelli, investita da una nube invisibile di polvere di amianto trasportata dal vento.
[foto di Paolo Manzo]
Quello che stupisce è la totale assenza di studi epidemiologici che vadano a indagare il legame tra le morti nell'area e la presenza dell'amianto. "È scomodo avere uno studio epidemiologico su questi problemi,"è il parere di Braibanti. "Se ci fosse uno studio che solleva il problema, bisognerebbe poi dare una risposta. L'assenza di uno studio permette invece di mantenere il silenzio."
Sebbene molte delle famiglie dei bipiani abbiano intrapreso feroci battaglie per porre fine a questa agonia, per altri residenti questa condizione non sembra essere un peso. Secondo le famiglie italiane che vivono nel ghetto, agli immigrati vivere nei bipiani va bene.
"Molti di loro sono irregolari e un posto come questo gli garantisce l'invisibilità," racconta Mario a VICE News. "Altri invece sono regolari, come gli albanesi, ma hanno una ricchezza [immobiliare] alle spalle" nella loro terra d'origine. Secondo Mario, il loro unico interesse è di avere un punto d'appoggio dove dormire alla fine del turno di lavoro.
"Continuano a entrare nuovi disperati che non hanno dove andare."
Nei bipiani di Ponticelli di italiani ne sono rimasti pochi. Oltre alla famiglia di Mario se ne contano altre nove, peraltro non tutte legate al terremoto dell'Irpinia. È questo lo zoccolo duro dei residenti del 'ghetto', famiglie che hanno assistito nel corso degli anni a un vero e proprio via vai di persone.
Oggi i bipiani si presentano come un mosaico di culture ed etnie differenti: italiani, albanesi, kosovari, serbi, asiatici ed africani, ciascuno insediato nella sua fila di container a formare un mappamondo in miniatura. Un quadro di disperazione, tra chi è stato dimenticato trentacinque anni fa e chi invece ha trovato in questi container - gelidi d'inverno e bollenti d'estate - la migliore delle sistemazioni possibili.
[foto di Paolo Manzo]
Qui regna un equilibrio silenzioso. Le varie etnie si rispettano e in alcuni casi sorgono anche situazioni di aiuto e solidarietà. Il vero esempio di integrazione viene però dai bambini: mentre i genitori tendono a non interagire tra di loro, gli abitanti più piccoli dei bipiani trascorrono gran parte del loro tempo a giocare insieme, senza alcuna forma di segmentazione culturale.
Di tensioni etniche ce ne sono state in passato, ma riguardavano più che altro il complesso posto al di là della strada, quello abbattuto nel 2003. "C'erano sparatorie, conflitti continui. Era una situazione insostenibile" racconta a VICE News Andrea, un ragazzo napoletano che va spesso nei bipiani a trovare la fidanzata, che abita qui.
Lei è un'abusiva, come la gran parte dei residenti. I bipiani vennero infatti costruiti per gli sfollati dell'Irpinia; a mano a mano che le prime famiglie se ne andavano, i container sarebbero dovuti essere smantellati. Ma le cose sono andate diversamente. "Si è creata una spirale di affitti e subaffitti che si accavallano gli uni sugli altri" racconta Braibanti. "Continuano a entrare nuovi disperati che non hanno dove andare e pagano piccole somme per occupare i container."
[foto di Paolo Manzo]
Non è dato sapere chi gestisca questo piccolo business immobiliare, ma è molto probabile che i clan della camorra possano avere un ruolo nell'intera vicenda, spiega Braibanti. "Si tratta di un'attività tipica della criminalità organizzata, e nessuno può davvero escludere che siano le organizzazioni criminali a gestirli," continua il responsabile di SEL. "Tuttavia, nessuno lo può provare in maniera dettagliata."
Secondo Braibanti, più che di camorra bisognerebbe parlare di mentalità camorristica, ovvero di quella propensione - appartenente tanto alla criminalità quanto ai sottoboschi dell'amministrazione - a sguazzare nel degrado e a trovare il modo di trarre profitto da simili situazioni.
Guadagnare sui residenti dei bipiani è comunque un'impresa ardua: nella maggior parte dei casi queste persone non hanno un lavoro, e difficilmente potrebbero trovare un'altra sistemazione fuori dal ghetto. Considerato l'affitto irrisorio, alcuni di loro accettano la sistemazione di buon grado.
Fu questo uno dei motivi che causò lo stop temporaneo del progetto fotografico di Paolo Manzo. "Mi fermai perché mi sentivo un po' tradito," racconta il fotografo a VICE News, "alcune delle famiglie sono ormai assuefatte da questo disagio, ci marciano e hanno smesso di lottare."
[foto di Paolo Manzo]
Rosaria, 47 anni di cui gli ultimi diciassette vissuti nei bipiani, ha una pena sospesa di un anno a causa del mancato pagamento delle bollette elettriche. "In questa situazione pretendono pure che io paghi le bollette," si sfoga. Rosaria teme che le forze dell'ordine possano tornare per condurla in carcere. Allo stesso tempo, però, la donna è intimorita anche da un'eventuale ricollocamento presso le case popolari. "Non so se riuscirei a sopravvivere lì, con le bollette e tutte le altre spese. Sono disoccupata e non mi è rimasto più nulla."
"I politici compaiono solo nel periodo delle elezioni, poi spariscono."
La disoccupazione non è comunque una costante dei residenti dei bipiani. C'è chi faceva l'autista di veicoli commerciali, come Mario; chi lavora in una ditta di trasporti, come Moussa; chi ha un trascorso da pizzaiolo, come Andrea.
Chi non ha un lavoro, s'inventa qualcosa: un ragazzo smonta pezzi di automobile e li rivende, un altro spaccia. Secondo quanto ci raccontano, c'è anche chi si prostituisce per gli uomini del ghetto.
[foto di Paolo Manzo]
In tutto questo, chi manca all'appello sono le istituzioni. Sebbene alcune famiglie siano ormai assuefatte dal disagio, molte altre si svegliano ogni mattina nella speranza di ricevere la chiamata per il ricollocamento.
Sono le stesse famiglie che hanno cercato, nel frattempo, di includere una piccola dose di dignità tra i cunicoli che separano i container. Passeggiandoci si intravede infatti qualche aiuola, un po' di verde qua e là.
C'è perfino un bar. Lo gestisce Pasquale, che offre ai "concittadini" dei bipiani un piccolo luogo di aggregazione sociale.
Secondo Roberto Braibanti, è proprio questo il problema di Napoli Est. "I bipiani non sono l'unico esempio di disastro sociale nella zona. Ci sono molti altri lotti eretti nel post terremoto con problemi di vivibilità" racconta. "In questi nuovi quartieri mancano elementi di aggregazione sociale, non ci sono i servizi e non c'è alcuna possibilità lavorativa."
[foto di Paolo Manzo]
L'unico momento in cui le istituzioni si fanno vedere è in periodo di campagna elettorale. "Politici, ispettori sanitari, assistenti sociali compaiono solo nel periodo delle elezioni, poi scompaiono fino alla tornata elettorale successiva," racconta a VICE News Andrea. "Ecco perché ormai abbiamo smesso di votare."
L'anno scorso, a Ponticelli è comparso anche il premier Matteo Renzi. Una visita a una fabbrica locale di elicotteri, un giro presso il nuovo e futuristico Ospedale del Mare progettato con la consulenza di Renzo Piano, il ritorno a Roma.
"Il premier si è guardato bene dall'andare a vedere i veri problemi di quell'area, come i bipiani o l'area inquinata della Q8,"è l'accusa di Roberto Braibanti. "Accendere i riflettori su queste problematiche costringerebbe lo Stato a dare delle risposte."

COME E' FACILE COSTRUIRE IN ZONA SISMICA

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da  http://popoffquotidiano.it/2016/08/26/il-guardian-come-facile-costruire-in-zona-sismica-in-italia/

Come il quotidiano inglese Guardian commenta il terremoto in Italia e accende i riflettori sulle leggi permissive in materia di costruzioni



Pubblichiamo la traduzione dell’articolo di John Hooper dal giornale britannico The Guardian sul terremoto in Italia. Anche se non tutte le considerazioni sono pertinenti al caso specifico ve ne sono altre difficilmente contestabili.
terremoto
ITALIA: TERREMOTO ACCENDE I RIFLETTORI  SULLE LEGGI PERMISSIVE IN MATERIA DI COSTRUZIONI
 Il bilancio delle vittime sarà di gran lunga superiore a quello che dovrebbe essere in un paese della ricchezza dell’Italia, ma molto inferiore a quello che ci sarebbe stato se il terremoto avesse colpito durante il giorno, scrive John Hooper
 Il bilancio delle vittime del terremoto che ha colpito Amatrice e altri paesi del centro Italia è in aumento a un ritmo allarmante. Ma finora sembra che il numero delle vittime sarà sostanzialmente inferiore rispetto a quando un terremoto di forza paragonabile colpì la vicina città de L’Aquila nel 2009, uccidendo 309 persone.
 Il conteggio delle vittime sarà comunque molto più alto di quello che dovrebbe essere in un paese della ricchezza dell’Italia – ma molto inferiore a quello che avrebbe potuto essere. Il terremoto di magnitudo 6,2, come quello che ha devastato L’Aquila, ha colpito durante la notte.
 Se le persone fossero state sul posto di lavoro, nei negozi o a scuola, il bilancio sarebbe stato molto più negativo. Due anni fa, Gian Vito Graziano, presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi d’Italia, disse che secondo alcune stime, se il terremoto de L’Aquila avesse colpito quando gli studenti erano in classe, ‘il numero delle vittime sarebbe stato di migliaia, non centinaia’.
 Stava parlando accanto a una residenza per studenti a L’Aquila che è crollata portando con sé le vite di sette giovani. L’incontro al quale Graziano stava prendendo parte avvertiva che il rischio di morte per terremoti in Italia era in realtà aumentato dopo il disastro de L’Aquila.
 Nel 2003, dopo il crollo di una scuola in Puglia, venne ordinata una perizia di tutti gli edifici pubblici in zone ad alto rischio sismico. Tra quelli individuati c’era la residenza dello studente a L’Aquila. Un piano per la messa in sicurezza fu elaborato ad un costo di quasi 1,5 milioni di € (1,28 milioni di sterline).
 Il denaro non è mai stato speso. O almeno non per rendere sicura la residenza.
 A questo proposito, tuttavia, la burocrazia italiana rispecchia i valori della società, in particolare il disprezzo generalizzato degli italiani per le regole di qualsiasi tipo, e la prevalenza di funzionari pigri e politici apatici, o addirittura corrotti.
 Il motivo per cui così tanti edifici cadono nei terremoti è che molti sono stati costruiti senza il consenso di pianificazione urbanistica e le garanzie strutturali che normalmente devono accompagnare tali costruzioni. Secondo l’ufficio statistiche del governo, la costruzione illegale in Italia è di ‘dimensioni senza precedenti in altre economie avanzate’.
 L’ultima stima, per il 2014, è che il 18% degli edifici vengono eretti senza permesso. La cifra per gli ampliamenti e gli altri ‘miglioramenti’ è senza dubbio molto più alta. Questi sono tradizionalmente effettuati in questo periodo dell’anno in cui ci sono meno persone in giro a fare domande scomode.
 Idealmente, Matteo Renzi, il primo ministro d’Italia, dovrebbe prendere spunto da questo disastro per portare avanti il ​​cambiamento reale con nuove sanzioni draconiane. Ma è in una posizione di forte impopolarità.
 Alla fine di quest’anno, affronterà un referendum sulla riforma costituzionale che è potenzialmente nocivo per lui come il voto sulla Brexit lo era per David Cameron. Annunciando che si dimetterà se non riesce a vincere, Renzi ha incautamente trasformato il ballottaggio in un’opportunità per gli elettori scontenti di esprimere la protesta. E con l’economia italiana ancora una volta a un punto morto, il loro numero è in crescita.
 Secondo gli allarmanti standard che si registrano in Italia nel far fronte alle conseguenze dei terremoti, Silvio Berlusconi, predecessore di Renzi due governi or sono, ha fatto abbastanza bene. Ha risposto al disastro del 2009 ordinando di costruire appositamente, nuove città in miniatura per i senza tetto e poi ha sbalordito il mondo, compresi i suoi compatrioti, organizzando il G8 di quell’anno, che doveva essere ospitato dall’Italia, a L’Aquila.
 La sua decisione ha creato una scadenza da rispettare e una giustificazione per scavalcare la burocrazia. Ma alcune delle case hanno dimostrato di essere abbastanza malandate, e sono ora oggetto di un procedimento giudiziario. Solo negli ultimi due anni hanno preso il via i lavori sulla ricostruzione del centro devastato della città.
 Renzi, un altro uomo di spettacolo nato, sarà tentato di correre ai ripari in modo analogo, appariscente ma che potrebbe rivelarsi in ultima analisi superficiale.

 traduzione di Edoardo Gistri
traduttori@rifondazione.it

LA CADUTA DI DILMA ROUSSEFF

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da http://www.senzasoste.it/internazionale/brasile-destituita-dilma-america-latina-sempre-pi-a-destra

naogolpe

Alla fine il Senato del Brasile ha approvato oggi la mozione di destituzione della presidente Dilma Rousseff, ponendo così termine a 13 anni di governo del Partito dei Lavoratori – alleato con numerose formazioni di centrodestra e centrosinistra, la maggior parte dei quali gli hanno voltato le spalle negli ultimi mesi – nel paese sudamericano. I senatori hanno votato 61 a 20 a favore dell'impeachment in base all'accusa che la presidente avrebbe manipolato il bilancio dello stato per garantirsi la rielezione.
Ora Michel Temer, 75 anni, ex vice presidente di Rousseff della quale ha accelerato la caduta, assumerà pienamente la presidenza. Impopolare come la rivale e coinvolto in numerosi scandali per corruzione, Michel Temer giurerà in Parlamento in giornata nel corso di una breve cerimonia, prima di volare in Cina per partecipare al G20. Temer esercita già la presidenza ad interim dopo la sospensione, il 12 maggio scorso da parte del Senato, della prima donna eletta, nel 2010, alla guida del quinto Paese più popoloso del pianeta. Sprofondato in una crisi economica e politica di storiche dimensioni (anche a causa del rallentamento di tutti i Brics e del crollo del prezzo del petrolio e del gas), sullo sfondo di un mega-scandalo di corruzione, il Brasile torna in mano alle destre e alle oligarchie che guardano a Washington e mirano a cancellare la maggior parte delle riforme sociali varate dai governi guidati dal PT a partire dal 2003, anno dell’elezioni di Luiz Inacio Lula da Silva, che hanno permesso a circa 40 milioni di brasiliani di uscire dalla miseria.
Intanto ieri davanti al Senato brasiliano dove era in corso il dibattito sull’impeachment manifestanti di sinistra e polizia si sono scontrati; le forze dell’ordine hanno usato i gas lacrimogeni nel tentativo di disperdere la folla che gridava al golpe in riferimento al complotto delle destre che ha portato alla rimozione di Dilma Rousseff dalla presidenza. Gli strali dei sostenitori delle forze di sinistra – che non risparmiano critiche ad un Pt che negli ultimi anni ha perso ogni spinta al cambiamento sociale e si è limitato a governare insieme a quelle forze politiche di destra che poi gli hanno teso una trappola mortale – puntano il dito in particolare contro Temer, leader del Partito Movimento Democratico Brasiliano (Pmdb), ex alleato della presidente destituita e che ora potrà governare fino al 2018 defraudando più di 50 milioni di elettori brasiliani che alle presidenziali avevano scelto la candidata del Pt. Appena designato alla presidenza, Temer ha formato un governo di destra e liberista, tutto di bianchi e di esponenti dell’oligarchia che come primo provvedimento hanno varato un mega piano di privatizzazioni, in particolare ai danni dell’azienda petrolifera di stato, la Petrobras, saccheggiata negli ultimi anni da quegli stessi esponenti politici reazionari che ora sono riusciti a destituire Dilma Rousseff accusata non di corruzione (non è infatti coinvolta in nessuna inchiesta giudiziaria) ma di aver ‘alterato’ il bilancio dello Stato per evitare che la crisi economica che investe il paese apparisse in tutta la sua gravità di fronte all’opinione pubblica. Mentre la magistratura ha chiesto le dimissioni e l’arresto di Renan Calheiros, presidente del Senato accusato di corruzione e il presidente della Camera, Eduardo Cunha, è stato a sua volta destituito, dal 12 maggio numerosi sono stati i nuovi ministri che si sono dovuti dimettere per lo stesso motivo o per evidenti conflitti di interesse.
Ora, dopo l’ennesima sconfitta, probabilmente Dilma Rousseff ricorrerà alla Corte Suprema, come ha già annunciato nei giorni scorsi. Mentre scriviamo  i senatori devono ancora votare sulla possibilità che Rousseff sia inabilitata da ogni incarico pubblico per i prossimi otto anni. Secondo la Costituzione brasiliana, un presidente destituito dovrebbe perdere i diritti politici per otto anni e non poter ricoprire alcun incarico governativo, né ruoli di insegnamento in università pubbliche. Il PT ha però chiesto e ottenuto che si tenessero due voti distinti, ottenendo l'assenso del presidente del Supremo tribunale federale, Ricardo Lewandowski.

WEEK END MAGAZINE

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I PASTORI

I Pastori - foto antica

Settembre, andiamo.  È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori 
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natía
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l’aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquío, calpestío, dolci romori.

Ah perché non son io co’ miei pastori?

SPUNTI PER LA RICOSTRUZIONE

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da   http://ilmanifesto.info/non-casa-italia-chiamiamolo-piano-di-resilienza/

Ricostruzione e prevenzione. Serve un progetto di dettaglio per la messa in sicurezza delle Paese da 10 milardi annui includendo i migranti e le case sfitte

Risultati immagini per terremoto amatrice ricostruzione


Le prime dichiarazioni del governo circa l’urgenza, la necessità e l’importanza tanto di una rapida ricostruzione di quanto distrutto dal terremoto, «dov’era e com’era», quanto dell’avvio di un massiccio programma di risanamento del territorio, sembrano dettate – una tantum – da un minimo di razionalità economica, ecologica e sociale (si parla addirittura di partecipazione dal basso): speriamo non si tratti di annunci opportunistici.
È bene che sia chiara all’inizio l’esigenza di uno sforzo duplice: un grande impegno di ricostruzione nel breve periodo, la programmazione strategica della difesa del suolo, insediato e non, nel periodo medio lungo. I due aspetti peraltro sono intrecciati: ricostruire è certo necessario e urgente; ma deve avvenire in modo che gli accidenti non si debbano ripetere. E acquista maggiore senso se – come hanno già detto tra gli altri Guido Viale, Salvatore Settis, Piero Bevilacqua, Tomaso Montanari – si inserisce in un quadro di tutela e valorizzazione dei contesti e dei paesaggi interni, spesso abbandonati a se stessi. Di cui sorprende addirittura la capacità di attrarre turismo sociale legato alla qualità identitaria del territorio e dell’ambiente, al di là dei «ritorni estivi al paesello».
Va detto tuttavia che, a fronte dello straordinario impegno da profondere nelle ricostruzioni e nella difesa del territorio, le operazioni da fare devono caratterizzarsi, più che per «eccezionali trovate progettuali» (comode forse per il consenso politico e il richiamo mediatico suscitabili dall’eventuale presenza di archistar) per «ordinarie» operazioni di pianificazione contingenti e strategiche. Capaci di contestualizzare i modelli ricostruttivi idonei nel caso dell’Appennino marchigiano-laziale, nonché di attualizzare e risignificare i programmi di difesa, di messa in sicurezza del territorio e degli insediamenti, già contenuti in molta recente pianificazione paesaggistica e territoriale.
È bene soffermarsi brevemente su ciascuno dei momenti che costituiscono il processo di gestione dell’emergenza-ricostruzione-preservazione-valorizzazione del territorio.
1) Per quanto riguarda il primo momento, ovvero il ricovero dei senza casa da inagibilità, è positivo che si siano scartate le soluzioni – no town più che new town – tipo il berlusconiano Progetto Case per L’Aquila. E si tenti invece di andare incontro alle esigenze degli abitanti di restare il più vicino possibile alle residenze distrutte; anche come pressione per un ripristino ricostruttivo rapido. Tra le risorse utilizzabili per questo, oltre e più che sulle «casette in legno tipo Map» ai prefabbricati, ai container, si può puntare sull’utilizzo delle case integre e vuote, presenti nei quartieri e soprattutto nei comuni viciniori a quelli più colpiti.
Il processo di ricostruzione può così integrarsi con quello di valorizzazione dei nuclei urbani e dell’ambiente: anche iniziando a riusare quell’enorme monumento allo spreco costituito dall’ingente quota di case vuote. Con processi che potrebbero interessare oltre che i terremotati anche gli altri disastrati, ovvero i migranti disponibili a diventare operatori dei territori interni per azioni di tutela e valorizzazione sostenibile.
Con azioni analoghe a quelle promosse, piuttosto in sordina, per la prima accoglienza, dalle prefetture per conto dei ministeri degli Interni e delle Infrastrutture, i sindaci potrebbero chiedere ai titolari di case vuote – anche privati – la disponibilità all’utilizzo, a canone sociale provvisto dai fondi emergenziali, per il ricovero temporaneo dei senza casa. Oltre che più in generale per qualsiasi tipo di accoglienza.
A questo proposito è utile ricordare che gli edifici vuoti o sottoutilizzati ammontano secondo l’Istat a 5.550 circa in provincia di Rieti, 5.650 in quella di Teramo, 21.100 a L’Aquila, 1.970 a Terni, 2.190 nel territorio provinciale di Ascoli Piceno. Laddove gli alloggi non utilizzati da residenti sono pari nelle stesse province rispettivamente a 59.000 (RI), 25.100 (Tr), 48.650 (Tm), 95.000 (Aq), 27.000 circa (Ap).
2) La ricostruzione delle strutture abitative, di servizi, storico-culturali, distrutte o danneggiate, sembra, per volontà corale, dover seguire il modello del ripristino urbanistico e architettonico («dov’erano, com’erano», appunto). Qui va fatta attenzione perché la medesima tipologia architettonica può perseguirsi anche con diverse, più attuali e sicure, tipologie costruttive. È importante mantenere la «coerenza interna» delle strutture portanti degli edifici: puntellare parti di essi con elementi di consolidamento parziale può rivelarsi anche un grave errore; specie allorché c’è stata attenzione relativa alla compatibilità con la consistenza strutturale. Ciò che emerge talora drammaticamente in caso di eventi sismici o idrogeologici rilevanti.
3)La prevenzione degli eventi sismici costituisce problematica fondamentale; sempre evocata al momento di catastrofi da terremoti, frane o alluvioni. Ma mai realmente perseguita. Come peraltro è quasi ovvio in questa fase caratterizzata da «una politica istituzionale assai mediatizzata» e spesso subalterna agli interessi finanziari.
Gli stessi che privilegiano i «grandi eventi» o le «grandi opere» che infatti muovono grandi flussi di capitali; e spesso vedono gli operatori pubblici impegnatissimi ad acquisire da banche o agenzie di settore quelle risorse finanziarie che non ci sono. La prevenzione nella difesa del territorio deve invece essere unitaria (difesa da tutti i rischi, in primis frane e terremoti), pianificata.
E costa molto, per prefigurare, disegnare, integrare e realizzare sistemi di piccole opere coordinate (in cui i grandi operatori finanziari si muovono a disagio e che quindi avversano). La stessa denominazione che il governo ha attribuito a questa fase operativa – «Piano Casa Italia» laddove serve un grande programma territoriale – dimostra di non, o non aver voluto, cogliere la vera essenza della tutela. Ovvio sottolineare infatti come prevenzione antisismica e idrogeologica si completano a vicenda, in un modello che tende al ripristino dei caratteri di consistenza e di resilienza ecosistemica dei territori.
La prevenzione sismica e idrogeologica e da altri rischi (es.incendi) deve essere quindi integrata, unificando le competenze oggi frammentate di Protezione Civile e ministeri delle Infrastrutture, Ambiente, Beni Culturali. Sarebbe ora di promuovere il ministero del Territorio che integri le diverse azioni gestionali e coordini le varie strategie.
Le risorse che servono sono ingenti: è corretta l’idea del programma pluriennale, anzi pluridecennale, ma basta sommare le cifre ufficiali fornite dagli stessi uffici ministeriali per capire che 1,5- 2 miliardi di euro annui, anche per 10 o 20 anni, costituiscono solo una piccola parte del necessario. Stime ufficiali del MISE per la Programmazione Regionale parlano di 65 miliardi per la sola messa in sicurezza antisismica delle attrezzature pubbliche, oltre 40 miliardi per quelle private, 55 miliardi per il riassetto idrogeologico e 15 per fronteggiare gli altri rischi: siamo circa a 180 miliardi di euro – peraltro meno delle risorse previste per le grandi opere della Legge Obiettivo.
Va bene l’idea di piano ventennale: purché la finanziaria – altro che stabilità – preveda per questo un portafoglio di almeno 10 miliardi di euro annui. È la prima, più grande e estremamente urgente, opera di cui necessita quello che era il Bel Paese.
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