Quantcast
Channel: PRECARI UNITED
Viewing all 2361 articles
Browse latest View live

WEEK END MAGAZINE

$
0
0


LAVANDARE



Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l'aratro in mezzo alla maggese.

(Giovanni Pascoli)

LA TAPPA TURCA DELLA GUERRA SENZA LIMITI

$
0
0

da http://www.senzasoste.it/internazionale/la-tappa-turca-della-guerra-senza-limiti

turchia golpe fallito
La sera dell’annuncio del tentativo di colpo di stato in Turchia, quando ancora i contorni della vicenda erano piuttosto incerti, una giornalista di Russia Today, il canale russo all-news in lingua inglese, ha chiesto a una analista militare che veniva intervistata via Skype nel suo studio di Washington: “vedi legami tra quello che è accaduto in Turchia e l’attentato di Nizza?”
La risposta è stata interlocutoria ma la domanda rimane. Naturalmente non c’è alcun complotto globale, frutto di un disegno esoterico, che dispone di attentati oggi e di colpi di stato domani lungo tutta l’Europa. Lo stesso esercito turco, come si è visto nelle ore successive alla dichiarazione di colpo di stato, non è più quella entità compatta che operò tre golpe nel proprio paese tra il 1960 e il 1980. E infatti si è visto: la popolazione scesa in piazza era del partito di Erdogan e, da quello che si è potuto guardare sui media o sui social, l’isolamento sociale dei golpisti è sembrato palese. Quello che è accaduto, e che sta accadendo, non è solo l’effetto della situazione interna turca. Ma, oltre a quello, di un più generale movimento tellurico che riguarda il medio oriente e che, inevitabilmente tocca anche la Turchia.
Commentando la strage di Nizza scrivevamo che il massacro del 14 luglio era effetto di una guerra senza limiti che si dava “nel complesso in un vasto triangolo che ha come vertici la Libia come lo Yemen e il nord della Siria” e aveva come posta in gioco la ridefinizione di “confini, traffici, reti di potere politiche, quotazioni di borsa, controllo del cyberspazio che ha effetto su quelle zone”.
Ora, considerando la Turchia è interessata, più che all’information warfare, ad una tipolgia di controllo del cyberspazio, quella della censura su youtube e twitter, possiamo dire che è palese che la terra di mezzo tra Europa ed Asia sta pienamente in questi processi di ridefinizione. Con le caratteristiche ibride della guerra senza limiti: l’attore statale turco non ha un comando ed una natura coerenti, e si è visto proprio con l’emergere del colpo di stato. Inoltre la Turchia vive la proliferazione di una serie attori non statali, privati, sovranazionali, ibridi che si adattano benissimo alla categorie della guerra senza limiti: quelle di poter essere armi di guerra oltre la pura dimensione del campo di battaglia. Era poi evidente che con il Medio Oriente in piena, caotica, ridefinizione anche la Turchia avrebbe subito delle metamorfosi. Gli stessi emendamenti di Erdogan alla costituzione turca, che già crearono rumors di colpo di stato nel marzo di quest’anno, fanno parte di questo processo di ridefinizione della Turchia al mondo esterno, lo costituzionalizzano. La Turchia per farsi egemone in Medio Oriente pensa, come fa da tempo, di islamizzarsi. Tenendo un legame con l’occidente che è sempre più di puro calcolo, quando questo è possibile, e sempre meno legato ad un processo di integrazione con l’Europa (dei 33 capitoli di trattativa per entrata Turchia in Ue risultato bloccati almeno più della metà mentre solo due recentemente sono stati riaperti). E, come sappiamo se l’integrazione con l’Europa deve essere la Ue, quindi il disastro liberista, è anche comprensibile come la bilancia politica turca penda verso una maggiore islamizzazione del paese.
Se il Medio Oriente è scosso, e l’Europa vacilla è evidente che la Turchia non poteva non risentirne, anche nei conflitti che riguardano l’assetto interno, proprio perchè paese anello di questi due mondi. Ne è uscito fuori un tentativo di golpe che è parso isolato dalla società, quanto comprensibile nelle frizioni interne all’esercito in una situazione controversa. Altri effetti chiari: una possibile legittimazione di una nuova ondata repressiva per il partito di Erdogan, un crollo della lira turca che avrà conseguenze su altre guerre, quelle finanziarie, visto, ad esempio, che la Turchia è destinazione del 10 per cento dell’export italiano. Già, perchè c’è poi l’altro conflitto che la Turchia sta perdendo: quello legato alla produzione di ricchezza, dovuto al rallentamento dell’economia. E che rende più controverse e difficili da governare le controversie interne, dalla giustizia sociale alla questione curda, come il posizionamento in Europa ed in Medio Oriente. Le scosse della guerra senza limiti –che si combatte sul campo, in borsa, con attori formali e informali anche senza coerenza o persino dialogo tra questi soggetti- sono quindi di una intensità che raggiunte la Turchia come Nizza. Con eventi diversi, non paragonabili tra loro. Ma l’origine della crisi –che sta tra la ridefinizione convulsa del Medio Oriente a quelle dei modi di produrre ricchezza- è simile. E simile la durata dei conflitti: senza fine.
Nel frattempo Nizza e la Turchia finiscono, in miriadi di immagini e testimonianze, sui social media. I soggetti che registrano di tutto in questa guerra senza limiti.

NIZZA, TRA REALTA' E PROPAGANDA

$
0
0

da https://news.vice.com/it/article/francia-nizza-propaganda-stato-islamico-analisi

Perché dopo Nizza non possiamo più cadere nella propaganda dello Stato Islamico

Per l'ennesima volta nell'ultimo anno ci troviamo a fare i conti con un evento sanguinoso che scuote alle fondamenta la Francia e l'Europa intera.
Fin dai primi momenti, sulla strage di Nizza del 14 luglio 2016 le massime autorità francesi – e buona parte della stampa – non hanno avuto dubbi: come ha detto il primo ministro Manuel Valls, si è trattato di un "atto di terrorismo"; e l'attentatore, il tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, era "senza dubbio" legato "in un modo o nell'altro all'Islam radicale."
A circa 36 ore dal massacro – un lasso di tempo più elevato rispetto al solito – è arrivata la (scontata) rivendicazione del sedicente Stato Islamico (IS) in un comunicato pubblicato su A'maq, organo di propaganda "ufficiale" di IS. "L'esecutore dell'operazione mortale a Nizza era un soldato di IS," si legge, "e l'azione è una risposta alla chiamata di colpire i cittadini delle nazioni che combattono lo Stato Islamico."
Amaq Agency: "soldier of " carried out , responded to calls to attack citizens of coalition countriespic.twitter.com/418iLcELX1
Impostata in questo modo, dunque, la "narrativa"è assolutamente limpida e lineare. Eppure – a differenza di quanto è successo a Charlie Hedbo, a Parigi nel novembre del 2015 e a Bruxelles – in questo caso il riquadro generale è nettamente più confuso: si è trattato del gesto di uno squilibrato isolato o di un "lupo solitario" di IS? Lo Stato Islamico ha "ordinato" l'attentato o ci ha solo messo il cappello? O ancora: c'è davvero una differenza tra queste cose?
Anzitutto, il profilo dell'attentatore è apparentemente diverso da quello del jihadista duro e puro affiliato allo Stato Islamico. Bouhlel era arrivato in Francia nel 2005, e da allora viveva nel paese con regolare permesso di soggiorno. Le testimonianze dei vicini di casa hanno tratteggiato il riquadro di una persona riservata, "strana," violenta nei confronti della moglie, e non particolarmente religiosa – anzi: mangiava maiale, beveva e non celebrava nemmeno il Ramadan.
Negli ultimi tempi, sempre a detta dei vicini, pareva "depresso." A questo proposito, sia il padre che la sorella hanno detto alla stampa e agli inquirenti francesi che Bouhlel aveva avuto problemi mentali e che si era sottoposto a cure psichiatriche. In passato, inoltre, aveva avuto diversi problemi con la giustizia, tanto che il suo ex avvocato l'ha decritto come "il classico delinquente comune," ma che comunque non aveva minimamente l'aria di un "jihadista radicalizzato."
E infatti – come hanno riferito il procuratore generale di Parigi François Milons e il ministro dell'interno Bernard Cazeneuve – l'uomo non era mai stato attenzionato o segnalato dai servizi, poiché non aveva dato alcun segno di "essere vicino all'ideologia dell'islam radicale." Cazeneuve ha comunque specificato che l'attentatore "sembra essersi radicalizzato velocemente," e al momento cì sarebbe un labile collegamento tra Bouhlel ed una filiera jihadista.
Mounthir Bouhlel, father of  Assailant, gave us this copy of psychologist's med prescription for his son n '04
Posto che la personalità dell'attentatore è contradditoria e problematica, le modalità dell'atto – un camion lanciato sulla folla – sono invece assolutamente inedite. Comeha ricordato il giornalista inglese Jason Burke, nel settembre del 2014 il portavoce di IS Abu Muhammad al-Adnani aveva invitato i simpatizzanti dello Stato Islamico a colpire i nemici in Occidente, tra i quali erano annoverati i "disgustosi francesi."
Nel suo discorso, Adnani aveva affermato che qualsiasi arma sarebbe andata bene per eliminare gli "occidentali.""Se non riuscite a trovare una bomba o una pistola, allora rompetegli la testa con una pietra, fatelo fuori con un coltello, investitelo con la vostra macchina, buttatelo giù da un aereo, strangolatelo, avvelenatelo," aveva detto il portavoce.
Nel corso della conferenza stampa, il procuratore Milons ha detto che questo tipo di azione "rientra negli appelli lanciati dallo Stato Islamico." Ma anche in questo frangente, è davvero difficile stabilire se Bouhel abbia risposto direttamenteall'appello di IS, si sia ispirato a un certo immaginario (anche Al Qaeda, nel 2010, sollecitava i suoi seguaci a usare automobili per "falciare" i nemici), o semplicemente si sia avvalso di un tir in quanto guidatore di mezzi pesanti.
1. Some have correctly pointed out that  sought to inspire lone terrorist attacks with trucks in 2010.
A prescindere da cosa verrà fuori dall'inchiesta e da quali connessioni emergeranno o meno, è chiaro che IS ha tutto l'interesse a intestarsi un atto del genere – e per almeno due motivi.
Il primo, scrive Ben Taub sul New Yorker, è che massacri di questo tipo rientrano – o sono fatti rientrare – nella "cornice di significato" creata dallo Stato Islamico, che permette a ogni aspirante stragista di "ottenere la gloria e l'appartenenza [al gruppo] postuma." In più, "collegare queste atrocità allo Stato Islamico fornisce a tutti un'allettante linea narrativa, una facile occasione di rendere comprensibile l'orrore."
Il secondo motivo ha a che fare le finalità ideologiche e propagandistico dello Stato Islamico. Nel numero di Dabiq (la rivista patinata del gruppo) del febbraio 2015, un articolo statuiva esplicitamente che una delle finalità degli attacchi in Occidente è la polarizzazione delle società e la conseguente "eliminazione della zona grigia"– ossia la "zona di coesistenza" tra musulmani e non-musulmani, e più in generale tra tutti i gruppi religiosi.
Come ha fatto notare Murtaza Hussain su The Intercept, questa "strategia di usare la violenza per amplificare le divisioni ricalca le tattiche del gruppo in Iraq, dove sono stati condotti attacchi contro la popolazione sciita con l'esplicito intento di innescare un conflitto settario, che tra l'altro è ancora in pieno svolgimento."
Sempre secondo Hussain, è improbabile che IS riesca a replicare il "successo" iracheno in Europa o negli Stati Uniti. Ciò nonostante, non serve essere uno scienziato politico per accorgersi di come ad ogni attentato corrisponda inevitabilmente una maggiore polarizzazione – sia a livello sociale, che politico.
Gli spazi per la coesistenza si assottigliano sempre di più, la disperata ricerca di una qualche sicurezza totale sacrifica irrimediabilmente i diritti civili – a questo proposito, molti analisti e commentatori stanno portando avanti l'idea che l'Europa debbadiventare una gigantesca Israele – e le destre più o meno estreme, forti dell'aumento dei consensi, fanno rullare i tamburi di guerra e invocano le "maniere forti."
This is a war.

And it will not stop until we close our borders for Islam and de-Islamize our societies.

No more terror.
No more Islam!
Ma per quanto drastiche e semplificatorie siano le proposte messe sul tavolo, la realtà è che nessuno ha la più pallida idea su come si possano evitare attentati di questo tipo – che, sostiene Jason Burke sul Guardian, evidenziano quanto imprevedibili e mutevoli siano le forme del terrorismo contemporaneo.
Del resto, già la classificazione del fenomeno e la profilazione dei jihadisti è un'impresa ai limiti dell'impossibile. Recentemente i due massimi studiosi francesi del terrorismo islamico – Oliver Roy e Gilles Kepel – si sono scontrati ferocementesulle proprie tesi. Per Roy il jihadismo è una componente marginale dell'Islam, e la chiave risiede piuttosto nel comportamento individuale e nella psicologia. Per Kepel, invece, la risposta si trova all'interno della Francia – soprattutto nelle sue banlieue – e nel ruolo dell'islam.
Non si tratta di un mero dibattito accademico, poiché le idee e le ricerche sul tema influenzano la politica e la risposta che viene dalle autorità – le quali, schiacciate tra le pressioni delle destre e la minaccia incombente, stanno ricorrendo sempre di più a soluzioni emergenziali e militarizzate.
Il che mi porta, ancora una volta, al tema della polarizzazione sociale e delle sue estreme conseguenze. Sullo sfondo di ogni attentanto in Francia, infatti, si staglia un termine ben preciso: "guerra civile." Fino a poco tempo fa era un mormorio sussurrato, un'ipotesi inconcepibile e impronunciabile; meno di mese fa l'ha pronunciata direttamente Patrick Calvar, il capo della Direction générale de la sécurité intérieure (DSGI, l'intelligence interna francese).
Di fronte alla commissione d'inchiesta sugli attacchi del 13 novembre 2015, Calvar ha detto che il paese "è sull'orlo di una guerra civile." Gli estremisti, ha continuato, "stanno crescendo dappertutto e noi, i servizi, stiamo per mettere in campo le risorse per controllare anche l'estrema destra, che non aspetta altro che lo scontro." Uno scontro, ha precisato, che "prima o poi ci sarà. Ancora uno o due attentati e poi vedremo."
Se si prendono in seria considerazione questi scenari apocalittici, l'errore più grande che si può commettere ora è quello di abbandonarsi a rappresaglie e ritorsioni di ogni tipo, nonché quello di cadere nella narrativa dello Stato Islamico che spinge per avere un mondo frantumato dalle divisioni religiose.

E per questo, soprattutto dopo la strage di Nizza, l'unica battaglia che vale la pena combattere è quella che punta alla preservazione della "zona grigia" e all'allargamento di quello spazio di coesistenza che lo Stato Islamico – e non solo – vuole spazzare via per sempre.

GENOVA, QUINDICI ANNI FA...

$
0
0

da http://www.globalist.it/news/articolo/203562/genova-quindici-anni-fa-quando-in-italia-la-democrazia-fu-sospesa.html


Torture alla Diaz durante il G8 di Genova
Sono passati 15 anni dai fatti del G8 di Genova del 2001. Riproponiamo un reportage di Nick Davies, giornalista del Guardian, per non dimenticare quelle giornate che, come è stato detto da Amnesty International, sono state caratterizzate dalla più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale. 

di Nick Davies*

Mancava poco a mezzanotte quando il primo poliziotto colpì Mark Covell con una manganellata sulla spalla sinistra. Covell cercò di urlare in italiano che era un giornalista, ma in pochi secondi si trovò circondato dagli agenti in tenuta antisommossa che lo tempestarono di colpi. Per un po’ riuscì a restare in piedi, poi una bastonata sulle ginocchia lo fece crollare sul selciato.

Mentre giaceva con la faccia a terra nel buio, contuso e spaventato, si rese conto che i poliziotti si stavano radunando per attaccare l’edificio della scuola Diaz, dove 93 ragazzi si erano sistemati per passare la notte. Mark sperò che rompessero subito la catena del cancello, così forse l’avrebbero lasciato in pace. Avrebbe potuto alzarsi e raggiungere la redazione di Indymedia dall’altra parte della strada, dove aveva passato gli ultimi tre giorni scrivendo articoli sul G8 e sulle violenze della polizia.

Proprio in quel momento un agente gli saltò addosso e gli diede un calcio al petto con tanta violenza da incurvargli tutta la parte sinistra della gabbia toracica, rompendogli una mezza dozzina di costole. Le schegge gli lacerarono la pleura del polmone sinistro. Covell, che è alto 1,73 e pesa meno di 51 chili, venne scaraventato sulla strada. Sentì ridere un agente e pensò che non ne sarebbe uscito vivo.

Mentre la squadra antisommossa cercava di forzare il cancello, per ingannare il tempo alcuni agenti cominciarono a colpire Covell come se fosse un pallone. La nuova scarica di calci gli ruppe la mano sinistra e gli danneggiò la spina dorsale. Alle sue spalle, Covell sentì un agente che urlava “Basta! Basta!” e poi il suo corpo che veniva trascinato via.

Intanto un blindato della polizia aveva sfondato il cancello della scuola e 150 poliziotti avevano fatto irruzione nell’edificio con caschi, manganelli e scudi. Due poliziotti si fermarono accanto a Covell, uno lo colpì alla testa con il manganello e il secondo lo prese a calci sulla bocca, spaccandogli una dozzina di denti. Covell svenne.

Non dimenticare

Ci sono diversi buoni motivi per non dimenticare cos’è successo a Mark Covell quella notte a Genova. Il primo è che fu solo l’inizio. A mezzanotte del 21 luglio 2001 i poliziotti occuparono i quattro piani della scuola Diaz imponendo il loro particolare tipo di disciplina ai suoi occupanti e riducendo i dormitori improvvisati in quella che in seguito un funzionario di polizia ha definito “una macelleria messicana”. Poi quegli stessi agenti e i loro colleghi incarcerarono illegalmente le vittime in un centro di detenzione che diventò un luogo di terrore.

Il secondo motivo è che, sette anni dopo, Covell e i suoi compagni aspettano ancora giustizia. Il 14 luglio 2008 quindici poliziotti, guardie penitenziarie e medici carcerari sono stati condannati per il loro ruolo nelle violenze. Ma nessuno sconterà la pena. In Italia gli imputati non vanno in prigione fino alla conclusione dell’ultimo grado di giudizio, e le condanne per i fatti di Genova cadranno in prescrizione l’anno prossimo. I politici che all’epoca erano responsabili della polizia, delle guardie penitenziarie e dei medici carcerari non hanno mai dovuto dare spiegazioni.

Le domande fondamentali su come tutto ciò sia potuto accadere rimangono senza risposta e rimandano al terzo e più importante motivo per ricordare Genova. Questa non è semplicemente una storia di poliziotti esaltati. Sotto c’è qualcosa di più grave e preoccupante.

Questa storia può essere raccontata solo grazie al duro lavoro coordinato da un pubblico ministero appassionato e coraggioso, Enrico Zucca. Con l’aiuto di Covell e di una squadra di magistrati, Zucca ha raccolto centinaia di testimonianze e analizzato cinquemila ore di video e migliaia di fotografie. Tutte insieme raccontano una storia cominciata proprio mentre Covell giaceva a terra sanguinante.

Come porci
I poliziotti irruppero nella Diaz. Alcuni gridavano “Black bloc! Adesso vi ammazziamo”. Ma si sbagliavano di grosso se credevano di dover affrontare i black bloc che avevano scatenato i disordini in alcune zone della città durante le manifestazioni di quel giorno. La scuola era stata messa a disposizione dal comune di Genova a dei ragazzi che non avevano nulla a che fare con gli anarchici: avevano perfino organizzato un servizio di sicurezza per accertarsi che i black bloc non potessero entrare nello stabile.



 Genova, 21 luglio 2001. (Reuters/Contrasto)



Uno dei primi ad accorgersi dell’irruzione fu Michael Gieser, un economista belga di 35 anni che si era appena messo il pigiama e stava facendo la fila davanti al bagno con lo spazzolino in mano. Gieser crede nel dialogo e in un primo momento si diresse verso gli agenti dicendo: “Dobbiamo parlare”. Vide i giubbotti imbottiti, gli sfollagente, i caschi e le bandane che nascondevano i volti dei poliziotti, cambiò idea e scappò di corsa per le scale.

Gli altri furono più lenti. Erano ancora nei sacchi a pelo. I dieci spagnoli accampati nell’atrio della scuola si svegliarono sotto i colpi dei manganelli. Alzarono le mani in segno di resa, ma altri poliziotti cominciarono a picchiarli in testa, provocando tagli e ferite e fratturando il braccio a una donna di 65 anni. Nella stessa stanza alcuni ragazzi erano seduti davanti al computer e mandavano email a casa. Tra loro c’era Melanie Jonasch, 28 anni, studentessa di archeologia a Berlino, che si era offerta di lavorare nella scuola e non aveva neppure partecipato ai cortei.

Melanie non riesce ancora a ricordare cosa accadde. Ma molti testimoni hanno raccontato che i poliziotti l’aggredirono e la colpirono alla testa con tanta violenza che perse subito conoscenza. Quando cadde a terra, gli agenti la circondarono continuando a picchiarla e a prenderla a calci, sbattendole la testa contro un armadio e alla fine lasciandola in una pozza di sangue. Katherina Ottoway, che vide la scena, ricorda: “Tremava tutta. Aveva gli occhi aperti ma rovesciati all’insù. Pensai che stesse morendo, che non sarebbe sopravvissuta”.

Nessuno dei ragazzi che erano al piano terra sfuggì al pestaggio. Come ha scritto Zucca nella sua requisitoria: “Nell’arco di pochi minuti, tutti gli occupanti del piano terra furono ridotti all’impotenza. I gemiti dei feriti si univano agli appelli a chiamare un’ambulanza”. Per la paura, alcune vittime persero il controllo dello sfintere. Poi gli agenti si diressero verso le scale.

Nel corridoio del primo piano trovarono un piccolo gruppo di persone, tra cui Gieser, che stringeva ancora il suo spazzolino: “Qualcuno suggerì di sdraiarsi, per dimostrare che non facevamo nessuna resistenza, così mi sdraiai. I poliziotti arrivarono e cominciarono a picchiarci, uno dopo l’altro. Io mi riparavo la testa con le mani e pensavo: ‘Devo resistere’. Sentivo gridare ‘basta, per favore’ e lo ripetevo anch’io. Mi faceva pensare a quando si sgozzano i maiali. Ci stavano trattando come animali, come porci”.

I poliziotti abbatterono le porte delle stanze che si affacciavano sui corridoi. In una trovarono Dan McQuillan e Norman Blair, arrivati in aereo da Stansted, vicino Londra, per manifestare a favore di “una società libera e giusta dove la gente possa vivere in armonia”, spiega McQuillan. Avevano sentito la polizia al piano terra e insieme a un amico neozelandese, Sam Buchanan, avevano cercato di nascondersi con le loro borse sotto dei tavoli in un angolo di una stanza buia. Una decina di agenti fece irruzione nel locale e li illuminò con una torcia. McQuillan scattò in piedi, alzò le mani e cominciò a ripetere “Calma, calma”, ma non servì a fermare i poliziotti. McQuillan ne uscì con un polso rotto. “Sentivo tutto il loro veleno e il loro odio”, ricorda Norman Blair.

Gieser era in corridoio: “Intorno a me era tutto coperto di sangue. Un poliziotto gridò ‘Basta!’ e per un attimo sperammo che tutto sarebbe finito. Ma gli agenti non si fermarono, continuarono a picchiare di gusto. Alla fine ubbidirono all’ordine, ma erano come dei bambini a cui si toglie un giocattolo contro la loro volontà”.

Ormai c’erano poliziotti in tutta la scuola. Picchiavano e davano calci. Secondo molte vittime c’era quasi del metodo nella loro violenza: gli agenti pestavano chiunque gli capitasse a tiro, poi passavano alla vittima successiva lasciando a un collega il compito di continuare a picchiare la prima. Sembrava importante che tutti fossero pestati a sangue. Nicola Doherty, un’assistente sociale di Londra di 26 anni, racconta che il suo compagno, Richard Moth, si sdraiò sopra di lei per proteggerla. “Sentivo i colpi sul suo corpo, uno dopo l’altro. I poliziotti si allungavano per raggiungere le parti del mio corpo che erano rimaste scoperte”. Nicola cercò di proteggersi la testa con il braccio. Le ruppero il polso.

Un crescendo di violenza

Un gruppo di uomini e donne fu costretto a inginocchiarsi in un corridoio in modo che i poliziotti potessero colpirli più facilmente sulla testa e sulle spalle. Daniel Albrecht, 21 anni, studente di violoncello a Berlino, fu colpito così violentemente che dovettero operarlo per fermare l’emorragia cerebrale. Fuori dall’edificio, i poliziotti tenevano i manganelli al contrario, usando il manico ad angolo retto come un martello.

In questo crescendo di violenza ci furono momenti in cui i poliziotti scelsero l’umiliazione. Un agente si mise a gambe aperte davanti a una donna inginocchiata e ferita, si afferrò il pene e glielo avvicinò al viso. Poi si girò e fece la stessa cosa con Daniel Albrecht, che era inginocchiato lì accanto. Un altro poliziotto interruppe un pestaggio per prendere un coltello e tagliare i capelli alle vittime, tra cui Nicola Doherty. Un altro chiese a un gruppo di ragazzi se stavano bene e quando uno disse di no, partì un’altra scarica di botte.

Alcuni riuscirono a sfuggire alla violenza, almeno per un po’. Karl Boro scappò sul tetto, ma poi fece l’errore di rientrare nella scuola e subì lo stesso trattamento degli altri. Riportò gravi lesioni alle braccia e alle gambe, una frattura cranica e un’emorragia toracica. Jaraslav Engel, polacco, riuscì a uscire dalla Diaz arrampicandosi sulle impalcature, ma fu preso sulla strada da alcuni autisti della polizia che gli spaccarono la testa, lo scaraventarono per terra e rimasero a fumare mentre il suo sangue scorreva sull’asfalto.

Due studenti tedeschi, Lena Zuhlke, 24 anni, e il suo compagno Niels Martensen, furono tra gli ultimi a essere presi. Si erano nascosti in un armadio usato dagli addetti alle pulizie all’ultimo piano. Sentirono la polizia che si avvicinava sbattendo i manganelli sulle pareti delle scale. La porta dell’armadio venne aperta, Martensen fu trascinato fuori e picchiato da una decina di poliziotti schierati a semicerchio intorno a lui. Zuhlke attraversò di corsa il corridoio e si nascose nel bagno. I poliziotti la videro, la seguirono e la trascinarono fuori per i capelli. In corridoio, l’aggredirono come cani addosso a un coniglio. Fu colpita alla testa e poi presa a calci da ogni parte finché sentì collassare la gabbia toracica. La rimisero in piedi appoggiandola a una parete dove un poliziotto le dette una ginocchiata all’inguine mentre gli altri continuarono a prenderla a manganellate. Scivolò giù, ma la picchiarono ancora: “Sembrava che si divertissero, quando gridavo di dolore sembrava che godessero ancora di più”.

I poliziotti trovarono un estintore e spruzzarono la schiuma sulle ferite di Martensen. Zuhlke venne afferrata per i capelli e scaraventata per le scale a testa in giù. Alla fine, trascinarono la ragazza nell’ingresso del piano terra, dove avevano ammassato decine di prigionieri insanguinati e sporchi di escrementi. La gettarono sopra ad altre due persone. Non si muovevano e Zuhlke, tramortita, chiese se erano vivi. Nessuno rispose e lei rimase supina. Non muoveva più il braccio destro ma non riusciva a tenere fermi il braccio sinistro e le gambe, che si contraevano convulsamente. Il sangue le gocciolava dalle ferite alla testa. Un gruppo di poliziotti le passò accanto: uno dopo l’altro si sollevarono le bandane che gli coprivano il volto e le sputarono in faccia.

Mussolini e Pinochet

Perché dei rappresentanti della legge si comportarono con tanto disprezzo della legge? La risposta più semplice può essere quella che ben presto venne urlata dai manifestanti fuori dalla Diaz: “Bastardi!”. Ma stava succedendo qualcos’altro, qualcosa che emerse più chiaramente nei giorni seguenti.

Covell e decine di altre vittime dell’irruzione furono portati all’ospedale San Martino, dove i poliziotti camminavano su e giù per i corridoi, battendo il manganello sul palmo delle mani, ordinando ai feriti di non muoversi e di non guardare dalla finestra, lasciandoli ammanettati. Poi, senza che fossero stati medicati, li spedirono all’altro capo della città nel centro di detenzione di Bolzaneto, dove erano trattenute decine di altri manifestanti, presi alla Diaz e nei cortei.

I primi segnali che c’era qualcosa di più grave possono sembrare banali. Alcuni poliziotti avevano vecchie canzoni fasciste come suoneria del cellulare e parlavano con ammirazione di Mussolini e Pinochet. Diverse volte ordinarono ai prigionieri di gridare “Viva il duce” e usarono le minacce per costringerli a intonare canzoni fasciste: “Uno, due, tre. Viva Pinochet!”.



 Genova, 22 luglio 2001. Un’aula della scuola Diaz. (Alberto Giuliani, Luzphoto)



Le 222 persone detenute a Bolzaneto furono sottoposte a un trattamento che in seguito i pubblici ministeri hanno definito tortura. All’arrivo furono marchiati con dei segni di pennarello sulle guance e molti furono costretti a camminare tra due file di poliziotti che li bastonavano e li prendevano a calci. Una parte dei prigionieri fu trasferita in celle che contenevano fino a 30 persone. Qui furono costretti a restare fermi in piedi davanti al muro, con le braccia in alto e le gambe divaricate. Chi non riusciva a mantenere questa posizione veniva insultato, schiaffeggiato e picchiato. Mohammed Tabach, che ha una gamba artificiale e non riusciva a sopportare la fatica della posizione, crollò. Fu ricompensato con due spruzzate di spray al pepe e, più tardi, un pestaggio particolarmente feroce.

Norman Blair ricorda che mentre era in piedi nella posizione che gli avevano ordinato una guardia gli chiese: “Chi è lo stato?”. “La persona davanti a me aveva risposto ‘Polizei’, così detti la stessa risposta. Avevo paura che mi pestassero”.

Stefan Bauer osò dare un’altra risposta: quando una guardia che parlava tedesco gli chiese di dove era, rispose che veniva dall’Unione europea e aveva il diritto di andare dove voleva. Lo trascinarono fuori, lo riempirono di botte e di spray al pepe sulla faccia, lo spogliarono e lo misero sotto una doccia fredda. I suoi vestiti furono portati via e dovette tornare nella cella gelida con un camice d’ospedale.

Tremanti sui pavimenti di marmo delle celle, i detenuti ebbero solo qualche coperta, furono tenuti svegli senza mangiare e gli venne negato il diritto di telefonare e a vedere un avvocato. Sentivano pianti e urla dalle altre celle.

Uomini e donne con i capelli rasta vennero brutalmente rasati. Marco Bistacchia fu portato in un ufficio, denudato, costretto a mettersi a quattro zampe e ad abbaiare. Poi gli ordinarono di gridare “Viva la polizia italiana!”. Singhiozzava troppo per ubbidire. Un poliziotto anonimo ha dichiarato al quotidiano La Repubblica di aver visto dei colleghi che urinavano sui prigionieri e li picchiavano perché si rifiutavano di cantare Faccetta nera.

Minacce di stupro
Ester Percivati, una ragazza turca, ricorda che le guardie la chiamarono puttana mentre andava al bagno, dove una poliziotta le ficcò la testa nel water e un suo collega maschio le urlò: “Bel culo! Ti piacerebbe che ci infilassi dentro il manganello?”. Alcune donne hanno riferito di minacce di stupro, anale e vaginale.

Perfino l’infermeria era pericolosa. Richard Moth, che aveva difeso con il suo corpo la compagna, era coperto di tagli e lividi. Gli misero dei punti in testa e sulle gambe senza anestesia. “Fu un’esperienza molto dolorosa e traumatica. Dovevano tenermi fermo con la forza”, ricorda. Tra le persone condannate il 14 luglio ci sono anche alcuni medici della prigione.

Tutti hanno dichiarato che non fu un tentativo di costringere i detenuti a confessare, ma solo un esercizio di terrore. E funzionò. Nelle loro testimonianze, i prigionieri hanno descritto la sensazione d’impotenza, di essere tagliati fuori dal mondo in un luogo senza legge e senza regole. La polizia costrinse i prigionieri a firmare delle dichiarazioni. Un francese, David Larroquelle, ebbe tre costole rotte perché non voleva firmare. Anche Percivati si rifiutò: gli sbatterono la faccia contro la parete dell’ufficio, rompendole gli occhiali e facendole sanguinare il naso.

All’esterno arrivò una versione dei fatti molto distorta. Il giorno dopo il pestaggio Covell riprese conoscenza all’ospedale e si accorse che una donna gli stava scuotendo la spalla. Pensò che fosse dell’ambasciata inglese, poi quando l’uomo che era con lei cominciò a scattare foto si rese conto che era una giornalista. Il giorno dopo il Daily Mail pubblicò in prima pagina una storia inventata di sana pianta secondo cui Covell aveva contribuito a pianificare gli scontri (ci sono voluti quattro anni perché il Mail si scusasse e risarcisse Covell per aver violato la sua privacy).

Mentre alcuni cittadini britannici venivano pestati e trattenuti illegalmente, i portavoce del primo ministro Tony Blair dichiararono: “La polizia italiana doveva fare un lavoro difficile. Il premier ritiene che lo abbia svolto”.

Le forze dell’ordine italiane raccontarono ai mezzi d’informazione una serie di menzogne. Perfino mentre i corpi insanguinati venivano trasportati fuori dalla Diaz in barella, i poliziotti raccontavano ai giornali che le ambulanze allineate nella strada non avevano nulla a che fare con l’incursione, che le ferite dei ragazzi erano precedenti all’incursione, e che l’edificio era pieno di estremisti violenti che avevano attaccato gli agenti.

Il giorno dopo, le forze dell’ordine tennero una conferenza stampa in cui annunciarono che tutte le persone presenti nell’edificio sarebbero state accusate di resistenza aggravata e associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. Alla fine, i tribunali italiani hanno respinto tutti i capi di accusa contro ogni singolo imputato, Covell compreso. I tentativi della polizia d’incriminarlo per una serie di reati gravissimi sono stati definiti “grotteschi” dal pubblico ministero Enrico Zucca.

Nella stessa conferenza stampa, furono esibite quelle che la polizia descrisse come armi: piedi di porco, martelli e chiodi che gli stessi agenti avevano preso in un cantiere accanto alla scuola, strutture in alluminio degli zaini, 17 macchine fotografiche, 13 paia di occhialini da nuoto, 10 coltellini e un flacone di lozione solare. Mostrarono anche due bombe molotov che, come ha concluso in seguito Zucca, erano state trovate in precedenza dalla polizia in un’altra zona della città e introdotte alla Diaz alla fine del blitz.

Queste bugie facevano parte di un più ampio tentativo di inquinare i fatti. La notte dell’incursione, un gruppo di 59 poliziotti entrò nell’edificio di fronte alla Diaz dove c’era la redazione di Indymedia e dove, soprattutto, un gruppo di avvocati stava raccogliendo le prove degli attacchi della polizia ai manifestanti. Gli agenti andarono nella stanza degli avvocati, li minacciarono, spaccarono i computer e sequestrarono i dischi rigidi. Portarono via tutto ciò che conteneva fotografie e filmati.

Poiché i magistrati rifiutavano di incriminare gli arrestati, la polizia riuscì a ottenere l’ordine di espellerli dal paese, con il divieto di tornare per cinque anni. In questo modo i testimoni furono allontanati dalla scena. In seguito i giudici hanno giudicato illegali tutti gli ordini di espulsione, così come i tentativi d’incriminazione.

Nessuna spiegazione

Zucca ha lottato per anni contro le bugie e gli insabbiamenti. Nella memoria che accompagna la richiesta di rinvio a giudizio ha dichiarato che tutti i dirigenti coinvolti negavano di aver avuto un ruolo nella vicenda: “Neppure un funzionario ha ammesso di aver avuto un ruolo sostanziale di comando per qualsiasi aspetto dell’operazione”. Un alto funzionario ripreso in video sulla scena ha dichiarato che quella notte era fuori servizio ed era passato alla Diaz solo per accertarsi che i suoi uomini non fossero feriti. Le dichiarazioni della polizia cambiavano continuamente ed erano contraddittorie, e sono state platealmente smentite dalle prove fornite dalle vittime e da numerosi video. “Nessuno dei 150 poliziotti presenti all’operazione ha fornito informazioni precise su un singolo episodio”.

Senza Zucca, senza la determinazione dei magistrati italiani, senza l’intenso lavoro di Covell per trovare i filmati sull’incursione alla Diaz, la polizia avrebbe potuto sottrarsi alle sue responsabilità e ottenere false incriminazioni e pene detentive contro decine di vittime. Oltre al processo per i fatti di Bolzaneto, che si è appena concluso, altri 28 agenti e dirigenti della polizia sono sotto accusa per il loro ruolo nell’incursione alla Diaz. Eppure, la giustizia è stata compromessa.



 Genova, 20 luglio 2001. La polizia davanti al cadavere di Carlo Giuliani. 



Nessun politico italiano è stato chiamato a rendere conto dell’accaduto, anche se c’è il forte sospetto che la polizia abbia agito come se qualcuno le avesse promesso l’impunità. Un ministro visitò Bolzaneto mentre i detenuti venivano picchiati e a quanto sembra non vide nulla, o almeno nulla che ritenesse di dover impedire. Secondo molti giornalisti, Gianfranco Fini – ex segretario del partito neofascista Msi e all’epoca vicepremier – si trovava nel quartier generale della polizia. Nessuno gli ha mai chiesto di spiegare quali ordini abbia dato.

Gran parte dei rappresentanti della legge coinvolti nelle vicende della scuola Diaz e di Bolzaneto – e sono centinaia – se l’è cavata senza sanzioni disciplinari e senza incriminazioni. Nessuno è stato sospeso, alcuni sono stati promossi. Nessuno dei funzionari processati per Bolzaneto è stato accusato di tortura: la legge italiana non prevede questo reato. Alcuni funzionari di polizia che all’inizio dovevano essere accusati per il blitz alla Diaz hanno evitato il processo perché Zucca non è riuscito a dimostrare che esisteva una catena di comando. Ancora oggi, il processo ai 28 funzionari incriminati è a rischio perché Silvio Berlusconi vorrebbe far approvare una legge per rinviare tutti i procedimenti giudiziari che riguardano fatti accaduti prima del giugno 2002. Nessuno è stato incriminato per le violenze inflitte a Covell. E come ha detto Massimo Pastore, uno degli avvocati delle vittime, “nessuno vuole ascoltare quello che questa storia ha da dire”.

La lezione della Diaz
È una storia di fascismo. Circolano molte voci che poliziotti, carabinieri e personale penitenziario appartenessero a gruppi fascisti, ma non ci sono le prove. Secondo Pastore, però, così si rischia di perdere di vista la questione principale: “Non si tratta solo di qualche fascista esaltato. È un comportamento di massa della polizia. Nessuno ha detto no. Questa è la cultura del fascismo”. La requisitoria di Zucca parla di “sospensione dello stato di diritto”.

Cinquantadue giorni dopo l’irruzione nella Diaz, diciannove uomini usarono degli aerei pieni di passeggeri per colpire al cuore le democrazie occidentali. Da quel momento, politici che non si definirebbero mai fascisti hanno autorizzato intercettazioni telefoniche a tappeto, controlli della posta elettronica, detenzioni senza processo, torture sistematiche sui detenuti e l’uccisione mirata di semplici sospetti, mentre la procedura dell’estradizione è stata sostituita dalla “consegna straordinaria” di prigionieri.

Questo non è il fascismo dei dittatori con gli stivali militari e la schiuma alla bocca. È il pragmatismo dei nuovi politici dall’aria simpatica. Ma il risultato appare molto simile. Genova ci dice che quando il potere si sente minacciato, lo stato di diritto può essere sospeso. Ovunque.

L'ULTIMA ESTATE DEL GOVERNO RENZI?

$
0
0

da  http://www.senzasoste.it/nazionale/l-ultima-estate-del-governo-renzi

suddenTra la Brexit ed Erdogan, ovest ed est dei confini Ue, c’è un processo di sgretolamento continentale leggibile anche in termini classicamente geopolitici:quando un soggetto istituzionale si disgrega, le prime ad allontanarsi infatti sono le periferie ai lati. Est ed ovest. Ma che l’abulia, lo stato di bollitura politica permanente, a sinistra continui anche in queste eccezionali condizioni non è sorprendente. Sarebbe semmai sorprendente il contrario, visto che dal dopo-muro - dopo aver fatto una terribile confusione su cosa fosse crollato ad Est - non c’è sinistra, e non solo in Italia, che non si sia avvitata in tattiche contorte e, alla fine, perdenti. In Italia, se vogliamo, ci sarebbe anche l’aggravante: il governo Renzi rischia davvero di passare l’ultima estate, e con lui un intero sistema politico. L’evento, per una serie di coincidenze continentali e globali, è di quelli che richiederebbe un balzo di tigre. Ma non sono tempi per la strategia, lo sappiamo. Ma per un minimalismo politico che non porterà da nessuna parte.
Ma veniamo all’ultima estate del governo Renzi. A causa dello sfilacciamento della maggioranza? In parte, anche perchè sono questioni ricomponibili. A causa del referendum istituzionale? Anche qui, in parte. Il governo Renzi, potrebbe giocare qualche mossa spericolata per sopravvivere anche in caso di vittoria del “no”. A causa dei sondaggi che vedono il movimento 5 stelle davanti al Pd? In parte anche qui e, nel caso, il timore della vittoria di Grillo potrebbe tenere assieme il governo fino alla scadenza naturale della legislatura. Il punto più delicato del governo Renzi, quello che fa davvero impressione, è lo stesso dell’ultima fase del governo Berlusconi e di quelli Monti e Letta.
Si chiama assenza di base materiale. Fenomeno naturale in un paese che ha perso 10 punti di Pil dall’inizio della crisi; quella stessa che sia centrodestra che centrosinistra minimizzavano. Che anche al governo Renzi manchi la base materiale, non certo rintracciabile nell’episodica vittoria elettorale grazie al “popolo degli 80 euro”, ce lo fa capire l’Abi. Associazione che riunisce le banche italiane e che si è già lanciata contro chi danneggia la costituzione, che per l’Abi coincide con le banche italiane, in Europa qualche giorno fa. L’ultimo rapporto di Abi parla quindi chiaro: il governo Renzi, pudicamente non citato, non ha una base materiale. La ripresa economica dice Abi, non c’è, del resto il Fmi ha tagliato le stime per Italia e Portogallo dopo la Brexit e le banche non prestano soldi all’economia. Del resto, informa Abi, i crediti deteriorati, quelli che hanno scatenato la crisi bancaria, aumentano. Uno scenario che contraddice la propaganda del governo, fin qui non sarebbe una novità, per alimentare la percezione di una crisi sistemica delle banche che, se non risolta in tempo, potrebbe essere deflagrante.
Si tratta di 3 punti critici (economia, credito alle imprese, crediti deteriorati) che erano alla base della legittimazione italiana del QE di Draghi. Stampati i soldi da Draghi tutto sarebbe ripreso, così recitavano Corriere e Repubblica, per arrivare a alimentare l’economia, il credito alle imprese e, con interventi mirati a fine primavera di quest’anno, per ridurre i crediti deteriorati. Niente di questo è accaduto. Sapevamo già dall’annuncio del QE, viste l’esperienza Usa e giapponese molto diverse ma anche utili a capire, che sarebbe andata in questo modo: stampare soldi serve a farli aspirare nei circuiti finanziari, per fare nuovi soldi con i soldi; non a rilanciare l’economia.
L’eventuale caduta di Renzi, i cui rumors, discreti, sono cominciati il mese scorso servirebbe non in un’ottica di rilancio dell’economia, che in queste condizioni non è possibile, ma di sostituzione di un personaggio bruciato con uno nuovo. Per continuare la solita politica di iniezione di liquidità nel mondo finanziario, di mantenimento del primato dell’ordoliberalismo tedesco e la solita tenuta in vita artificiale delle zombie bank del continente.
Ma da cosa si capisce che in questo scenario Renzi rischia? Il fondo monetario internazionale ha chiesto l’aumento dell’Iva in Italia. La classica misura che bada a estrarre risorse, deprimendo l’economia (l’Italia ha affrontato tre recessioni annuali consecutive grazie all’aumento Iva deciso all’epoca del governo Monti). Stiamo parlando dell’aumento dell’IVA, oggi al 22%, scattato il primo ottobre 2013, governo Letta ma decisione Monti, che dovrebbe scattare ancora dal 2016. L'Esecutivo Letta, a suo tempo, su pressione dell’“Europa”, non è riuscito ad abolire la gravosa scadenza istituita dal Governo Monti. Il governo Renzi ha fatto slittare di un anno il nuovo scatto di aumento, già previsto dal 2015, con estensione all'aliquota del 10%. L'aumento percentuale dell’aliquota IVA è uno dei provvedimenti volti a recuperare risorse finanziarie necessarie a rientrare nel mitico 3% del rapporto Deficit/PIL stabilito dalla UE. E’ quindi una misura tipica da rastrellamento fondi in economia depressa per deprimerla ancor di più. Il governo Renzi, con questo gioco di rinvii e slittamenti, si opporrebbe alla misura, progettando, addirittura, tagli di tasse e benefit fiscali. Ma è un’opposizione ambigua, senza domani, senza un’idea di economia.
Il messaggio del FMI, invece, è chiaro: “Caro Renzi, l’economia dopo la Brexit è in contrazione, per estrarre risorse o aumenti l’Iva o aumenti l’Iva”. Se il governo Renzi svicolasse da questo diktat, che è del FMI non della Uil, avrebbe buone possibilità di saltare. Perchè se la base materiale manca in patria, e tra economia in declino e banche in crisi manca davvero, un governo deve avere almeno agganci nel mondo globale finanziario che conta. Mancasse anche quest’ultimo, sarebbe davvero l’ultima estate di Renzi. Cosa verrebbe dopo? Non sembra problema di ciò che rimane della sinistra, che sembra in preda all’intreccio tra allucinazione e realtà estiva come Catherine di Improvvisamente l’estate scorsa di Tennesse Williams. A essere sinceri, non sembrerebbe, a parte i proclami, problema di nessuno. Poi, come dice qualcuno che la politica l’ha praticata, improvvisamente nella storia accade sempre qualcosa. Anche stavolta accadrà. Vedremo cosa

GENTRIFICATION?

$
0
0

da  http://www.dinamopress.it/news/gentrification-para-tricarico

Qual'è la vera natura della gentrification che interessa le nostre città? Processo di trasformazione "naturale" o frutto di speculazioni e piani di sviluppo fraudolenti?
La ricostruzione delle nostre città si porta appresso il mettere le mani sulla nostra stessa vita. DINAMO in molte occasioni ha affrontato questo tema andando a vedere cosa succedeva lì dove erano in atto politiche di rigenerazione urbana. Sia di tipo spontaneo che quando queste sono governate dalla logica di mercato. Numerose sono state le lotte che il nostro portale ha raccontato condotte contro quello che abbiamo chiamato “il mattone finanziario”. Siamo andati a vedere e cercato di raccontare, a partire da Roma, come la capacità finanziaria punti, nel proprio incessante lavoro di estrazione di rendita, sia il patrimonio rappresentato dal costruito che lo spazio legato all’immaginario. Sta nascendo una specifica forma di narrazione legata ai processi oggi noti come “gentrification” fatta di due momenti tra loro speculari. Il primo rappresentato dal presentare come pericoloso lo spazio su cui si è messo gli occhi. Campagne contro il degrado nascondono spesso quello che fanno le possenti mani dell’intervento finanziario: sfrattano, demoliscono, costruiscono nuovi spazi di “confine”, isolano le forme di resistenza.... Il secondo accompagna questi fenomeni con il mantra che, una volta ripuliti da abitanti dai redditi bassi o nulli, quello spazio vive finalmente una nuova vita. Su questi temi, su come si costruisce la narrazione intorno il concetto di “gentrification” Dinamo intende chiedere ad attivisti e ricercatori come costruire una autonoma forma di contronarrazione capace di riconoscere le soggettività e le competenze che si oppongono alla “signorilizzazione” dello spazio del nostro abitare. Quello che segue di Stefano Portelli, è il primo di questi contributi.
Il 24 maggio 2016, il blog Che fare ha pubblicato un articolo firmato da Luca Tricarico, dall’infausto titolo “Libera gentrification in libero stato.” Qualche settimana dopo, sul Venerdì di Repubblica è uscito un testo analogo: “La gentrification può far bene”, di Federico Rampini (tra l’altro, recentemente accusato di plagio). Ma il Venerdì spesso trasforma le cose in una questione di costume, cancellando ogni implicazione politica o di classe. Il blog Che fare invece sembra fatto di un’altra pasta; e infatti ha pubblicato di recente anche la risposta critica del sociologo Giovanni Semi, esperto di gentrification. Tricarico si è affrettato a commentare su Facebook definendo Semi “vecchio accademico che scrive in modalità salottiera”. Tutto il discorso sulla gentrification si riduce a confronti tra vecchio e nuovo, a un dibattito sull’estetica, sui cliché. Purtroppo, la parola gentrification è troppo importante per lasciare che divenga preda di queste tergiversazioni.
Ogni tanto qualcuno se ne esce con una difesa della gentrification (ne ho scritto da poco). Gli articoli iniziano sempre con descrizioni popolate di stereotipi: i giovani, la classe creativa, gli artisti, la moda, il design e gli hipster. Queste figure evocano una generica sensazione di innocenza: sono piccoli, hanno storie ingenue, non sanno bene cosa succede intorno a loro, ma vogliono vivere la vita, fare cose nuove, provare esperienze, migliorare la loro condizione. Il loro dinamismo porta una ventata di freschezza ovunque passano. Sono gli eroi della gentrificazione, precari ma sexy. Ad avversarli, invece, ci sono dei paranoici protezionisti, amanti del degrado e dello stantío, vecchi frustrati e chiacchieroni, magari con la busta paga (!), che farebbero di tutto per impedire loro di realizzare questi sogni. Forse per invidia della loro giovane età, forse per l’ideale dell’ostrica: se sei nata a Rivarolo del Re, o a Sassari, come i millennials dell’articolo di Tricarico, devi rimanere lì: non ti fare strane idee, perché potresti alterare degli equilibri urbani centenari.
È semplice, allora! Se le cose stanno così, la gentrification è il nuovo che lotta contro il vecchio; i giovani che vogliono cambiare, e degli egoisti che dovrebbero solo farsi da parte, invece di continuare a esprimere il loro “malcontento”, perché “non possono o non vogliono cogliere le opportunità che le città offrono” (sic!). La gentrification quindi è un’evoluzione naturale, legata al passare del tempo, all’alternarsi delle generazioni, all’adattabilità e alle scelte personali dell’individuo, al cambio delle mode. Questa stessa tesi, che la gentrificazione sia un fenomeno naturale, è rimbalzata qualche anno fa addirittura sul Guardian, che sulle città prende spesso posizioni ambigue. Fortunatamente il prestigioso geografo Tom Slater ha subito risposto che “non c’è niente di naturale nella gentrification”, contestando uno ad uno tutti gli argomenti e le ricerche citate dalGuardian.
Per quanto riguarda Tricarico, innanzitutto, la logica degli “avversari del progresso” dovrebbe essere ormai rifiutata in blocco. Da secoli viene usata contro chi critica le grandi infrastrutture finanziate dallo stato: ultimamente ha giustificato la Tav, il Muos, il Mose, l’Expo, tutti i maxi-progetti di sviluppo che hanno devastato territorio e finanze pubbliche, creando – e non combattendo – le “piccole caste” di cui parla Tricarico. (Un esempio è il gruppo di Ercole Incalza, che da decenni si arricchiva speculando sulle “innovazioni”, e ora fortunatamente è in carcere). Questo è il primo errore dell’articolo: Londra è presentata come “libera e creativa”, Milano come un posto dove “si blocca l’innovazione e il progresso”: per una conversazione sull’autobus o al bar va benissimo, ma quando si scrive di temi importanti bisogna essere un po’ più precisi.
Soprattutto, perché Londra e Milano, o Londra e Roma, non sono due sistemi culturali o economici diversi. Sono il centro e una periferia di uno stesso sistema economico. Chiaramente, il ritmo delle trasformazioni è più intenso al centro, e l’ammontare degli investimenti più ingente; ma la logica è esattamente la stessa. Chi ha cercato di fare i soldi sul mattone a Londra ha promosso le Olimpiadi, chi sta cercando di farli su Roma, uguale. Londra ha inaugurato le esposizioni universali; Milano ha appena celebrato l’Expo. Questi progetti sono stati sempre enormi investimenti di capitali pubblici, che hanno fatto salire il valore immobiliare di terreni prima poco sfruttati economicamente, quasi sempre per il beneficio di privati. Su questi terreni poi ci sarà gente che comprerà casa o aprirà un co-working, o proverà a mettere in piedi progetti; ma quello che conta non sono queste piccole attività, bensì le grandi alleanze tra pubblico e privato che hanno portato alla riqualificazione. In particolare, gli introiti dei privati, e i costi per la città.
Tricarico dice che non è più arrabbiato con la gentrification. Ma non capisce che la gentrification è solo la facciata visibile di quelle forze neoliberali e antidemocratiche contro cui è giustamente ancora arrabbiato, come spiega all’inizio dell’articolo. Tutto il discorso sulla moda, sui co-working, sui giovani, serve solo a nascondere la demolizione pianificata di uno dei più importanti diritti che lo stato contemporaneo avrebbe dovuto tutelare: il diritto alla casa. Nessuno ce l’ha con la libertà di movimento, che è un diritto umano fondamentale. Ma non si può pretendere di tutelare un diritto attraverso la negazione di un altro. La gentrification significa innanzitutto che, come avvenuto a Londra negli ultimi 60 anni, migliaia di persone vengono sfrattate, trasferite in periferia o costrette a trasferirsi, spesso con l’inganno o con leggi fraudolente (a Londra, ad esempio, la recente bedroom tax).
Non è la “libera gentrification”, una mano invisibile che lascerebbe evolvere i quartieri secondo dinamiche naturali, a modificare il panorama dei centri urbani, bensì leggi dello stato volutamente formulate per il beneficio di pochi investitori. Da Bethnal Green e i Docklands negli anni ‘50, a Stratford e Hackney durante le Olimpiadi, a Elephant & Castlequalche anno fa, gli abitanti dei quartieri popolari del centro, o dei grandi complessi di case popolari della prima periferia, sono obbligati a lasciare il loro appartamenti, volenti o nolenti, ed a spostarsi molto più fuori; generalmente in estates di nuova costruzione, molto più care e con meno tutele, a volte addirittura in alloggi temporanei. Naturalmente, queste operazioni distruggono tutte le reti di relazioni e di aiuto mutuo create in decenni di vita di vicinato, e creano quartieri molto più isolati e sofferenti di quelli di partenza. Alcuni, a volte, esplodono in improvvisi episodi di violenza generalizzata – a volte mirata, a volte no.
La stessa cosa avviene in molte città del mondo (se non tutte), anche se in forme molto diverse. È per questo che è stato coniato il termine gentrification. Designa un fenomeno globale, di cui bisogna studiare le implicazioni, nonché le differenze tra caso e caso. A differenza di quanto sembra suggerire Tricarico, In Italia la gentrification avviene da decenni. Perché migliaia di persone nate a Trastevere, a Monti, a Campo de’ Fiori, a San Lorenzo, hanno dovuto lasciare le loro case, per trasferirsi a Corviale, a Torbellamonaca, a Ostia? È chiaro che ora nelle loro strade, le loro piazze, i loro vicoli, ci sono anche persone creative che gestiscono locali simpatici, oltre a migliaia di turisti: ma non sono loro il problema. Nessuno avrebbe preferito che quegli spazi fossero rimasti abbandonati. Ma era dovere dello Stato occuparsi del benessere di queste persone nei loro quartieri prima; non solo del loro diritto alla casa, ma del diritto alla loro casa – the right to stay put, il diritto di rimanere lì. Invece, nei loro quartieri ed edifici sono stati bloccati gli investimenti pubblici, finché il degrado ha cacciato gli abitanti, aprendo spazio alla sostituzione residenziale, ed agli investimenti privati.
Gentrification quindi non è il fatto che dopo qualcuno ha trasformato le macellerie in librerie trendy, ma il fatto che a un certo punto una serie di attori privati hanno capito che avrebbero fatto un sacco di soldi spingendo parti dell’amministrazione pubblica a promuovere leggi inique o progetti “innovativi”, consegnando i centri storici delle città a turisti, investitori e grandi compagnie immobiliari, senza alcun riguardo per chi abitava e spesso aveva costruito questi luoghi. Tra Roma, Torino, Venezia, Milano – così come Londra, Barcellona, Berlino, New York – cambiano i tempi, i ritmi e i modi, ma non la storia. Chi la capisce – e non è difficile – può domandarsi legittimamente perché Luca Tricarico ci tenga tanto a non arrabbiarsi.

WEEK END MAGAZINE

$
0
0

PER SEMPRE




Eri una emozione per vivere,
per stridere durante il pasto
serale. Era emozionante ricevere
posta. La mattina in fretta
le scale scendevo e lì
trovavo le ingiurie tue
alla mortale natalità.

Accuse per andare avanti.
Ma dopo ti rendevi inquieta
al delitto del non detto
se non rispondevo per le rime.
O rima che dirti non sapevo
senza la fuga in avanti 
di terzine squilibrate 
sul dolce stil vecchio della
Musa canterina a presiedere 
gli ozi di Sodoma. Dirti
che ero pieno di sonno .
se l'immortalità era un pio 
desiderio, lugubre sospiro
ti avrebbe annoiato.
Talvolta una stradina
mi risucchia indenne 
dove non alberga strepito di auto;
allora sciolto dai tuoi lunghi
sensi camminare ti vedo per sempre.

(Dario Bellezza)

IL COLPO DI MANO DI HOLLANDE

$
0
0

da http://popoffquotidiano.it/2016/07/22/colpo-di-mano-di-hollande-la-loi-travail-risalta-il-parlamento/

Per la terza volta il governo ricorre al famigerato articolo 49.3 per imporre il jobs act. Il 15 settembre l’intersindacale in piazza. Lo stato d’emergenza soffoca la Francia e la polizia uccide nelle banlieue

di Checchino Antonini
30369b0fd25bc0fb-5a7e6
Terzo e ultimo colpo di mano del governo francese sulla riforma del lavoro. Nel Paese alle prese con l’orrore jihadista dopo la strage di Nizza, la terza in appena 18 mesi, il premier Manuel Valls ha voluto chiudere rapidamente l’infinita querelle sulla Loi Travail barricandosi dietro allo stato d’emergenza. Nel corso di un intervento all’Assemblea Nazionale, il capo del governo – nell’unica breve parentesi non consacrata a sicurezza e stato d’emergenza – ha annunciato il terzo ricorso all’articolo 49.3 della costituzione, che consente di adottare il ‘Jobs act’ francese senza passare per il voto dei deputati, salvo una ormai improbabile mozione di sfiducia entro le prossime 24 ore. Tutto è cominciato a marzo con una prima versione presentata dalla giovane ministra del Lavoro Myriam El Khomri. Dopo mesi di trattative si è arrivati a una sorta di versione ‘alleggerita’ accettata dal sindacato CFDT, una sigla compiacente non manca a nessuna latitudine, ma non dalla CGT, il principale sindacato di Francia contrario alla riforma, che in quattro mesi – spinto dalle mobilitazioni dei precari e degli studente delle Nuit Debut, ha indetto ben 12 giornate di mobilitazione nazionale con scioperi e manifestazioni di piazza in tutto il Paese, anche nel corso degli Europei di calcio. Da parte sua, il presidente Hollande ritiene la legge «conforme ai suoi valori di uomo di sinistra» ma conferma che le sentinelle in piedi del neoliberismo sono i partiti dell’internazionale socialista (la stessa in cui vorrebbe entrare Sel e in cui c’è il Pd).
Bestia nera della CGT era anzitutto l’articolo 2 sulla contrattazione. Una disposizione su cui l’esecutivo non si è piegato e che inverte la gerarchia normativa introducendo la possibilità delle aziende di distaccarsi dai contratti nazionali di categoria e utilizzarne versioni modificate attraverso contrattazioni interne tra direzione e lavoratori. La legge non cancella le 35 ore di lavoro settimanale, misura ‘simbolo’ del Partito socialista, ma permette alle aziende di aggirarla in scioltezza, negoziando aumenti fino a 48 ore e turni di 12 ore. La riforma punta anche a semplificare i licenziamenti economici. Nella visione dell’attuale governo l’obiettivo è ridurre i ricorsi alla giustizia e aumentare la flessibilità col miraggio che tutto ciò spinga le assunzioni. Nonostante il colpo di forza i sindacati ostili alla riforma non hanno indetto alcuna manifestazione complice il clima, pesantissimo, dovuto al terrorismo. Contrariamente al recentissimo passato le piazze sono rimaste vuote a Parigi e in tante altre città di Francia ma la Cgt di Philippe Martinez continua a promettere battaglia, almeno dopo la pausa estiva. Appuntamento fissato per il 15 settembre. «Anche in costume non si molla niente!», dice all’incirca il sito di Solidaires, l’altra gamba della lotta contro la loi travail, sindacato combattivo di base. Per tutta l’estate sono in programma azioni locali per preparare la nuova giornata nazionale del 15 settembre.
Hollande, intanto, ha annunciato di aver portato a diecimila il numero di militari per proteggere le manifestazioni di festa, gli eventi popolari, i luoghi di svago. «Insomma, tutti i luoghi dove saranno i francesi e i turisti stranieri che dobbiamo accogliere». Ma la situazione è pesante anche nelle banlieue: terza notte di tensione in Val-d’Oise, nella banlieue di Parigi, dopo la morte del giovane Adama Traoré durante un fermo di polizia. Cinque persone sono state fermate e rilasciate nella notte. Incendiate sei auto nei comuni di L’Isle-Adam, Champagne-sur-Oise, Bernes-sur-Oise e Beaumont-sur-Oise, e due pompe di benzina. A Persan, un’auto della Gendarmerie Nationale è stata bersaglio di «tiri ad aria compressa». Il n.2 della prefettura locale, Jean-Simon Mérandat, ritiene però che la situazione sia «molto più calma» rispetto alle due notti precedenti. Alle 17 è stata fissata una marcia bianca in ricordo del ragazzo. Ieri, l’esito dell’autopsia praticata sul corpo di Adama, fermato a inizio settimana per sospetta estorsione, avrebbe scartato una possibile responsabilità delle forze dell’ordine. Secondo il procuratore di Pontoise, l’autopsia rivela che Adama soffriva di una «infezione molto grave» su «diversi organi» e il medico legale non ha trovato «tracce di significative violenze sul corpo» del defunto. Per l’avvocato della famiglia, Karim Achoui, «l’infezione» non spiega le cause della morte«. Il legale radiato dall’ordine degli avvocati in Francia ma iscritto al foro di Algeri ha detto che chiederà una contro-expertise e si opporrà al permesso di seppellire Adama. Anche la sorella gemella di Adama, Hawa Traoré, non crede alle conclusioni dell’autopsia ma cerca di placare gli spiriti dei giovani di banlieue: «troveremo la verità, calmatevi ragazzi». La vicenda richiama alla memoria la tragica morte di Zyed e Bouna, due adolescenti morti in una centralina elettrica per nascondersi dalla polizia. Un dramma che dieci anni fa, il 27 ottobre del 2005, scatenò due settimane di rivolte in banlieue.
Infine, un campo profughi di fortuna nel nord di Parigi, con più circa 1500 migranti è stato sgomberato questa mattina dalle autorità francesi nel corso di una vasta operazione, la 26esima registrata dal giugno 2015. Secondo quanto riferiscono i media e le organizzazioni in difesa del diritto d’asilo, tra le 1500 e 2000 persone, per lo più provenienti da Eritrea, Somalia o Afghanistan, sono state radunate prima di essere portate via dai servizi della Prefettura dell’Ile-de-France. I migranti avevano occupato con tende e materassi una vasta zona nei pressi della stazione della metropolitana Jaures, al confine tra il X e il XIX arrondissement.

LOTTA DI CLASSE CONTRO LA ERICSSON

$
0
0
http://popoffquotidiano.it/2016/07/25/genova-ericsson-ha-un-piano-prendere-i-soldi-e-scappare/
da

La lotta durissima dei lavoratori di Genova. La multinazionale svedese Ericsson annuncia esuberi ma punta ai soldi che il governo ha stanziato per la banda larga. Dal 2007, 13 procedure di licenziamento

da GenovaChecchino Antonini

13529124_590941527745796_1954152916144191761_n

Otto scioperi in tre settimane lavorative, cortei con altri lavoratori metalmeccanici e postelegrafonici autoferrotranvieri, blocchi dei caselli dell’aeroporto e della sopraelevata. E oggi, lunedì 25 luglio, per la nona volta i lavoratori Ericsson hanno incrociato le braccia per far sentire il proprio disappunto nei locali del consiglio regionale: oggi, infatti, s’è tenuta la riunione congiunta delle commissioni lavoro di Comune e Regione. Loro avevano chiesto che fossero i due consigli a riunirsi insieme e produrre una deliberazione in tempo utile com’è stato a suo tempo per la vertenza Ansaldo. Ma il governatore Toti (Forza Italia) ha preferito allungare i tempi, Calenda, ministro allo Sviluppo economico, è suo amico e solo in apparenza nel campo politico avverso. Le commissioni, tuttavia, si sono dichiarate disponibili a sottoporre un documento ai consigli ma i tempi sono strettissimi perché il sindaco Doria e la Giunta regionale si impegnino a fare ogni passo per bloccare il piano della Ericsson.
E’ complessa e durissima la lotta dei lavoratori Ericsson di Genova, colosso del settore e gestore delle reti mobili H3G e Vodafone. Quando nel 2006 la multinazionale svedese rilevò la Marconi Spa, altra multinazionale delle telecomunicazioni, sembrava una buona notizia, stava per nascere sulla collina degli Erzelli il Parco tecnologico e loro ne sarebbero stati capofila. Invece, in meno di nove anni si sono inseguite tredici procedure di licenziamento. Da 1100 impiegati, i dipendenti sono crollati a quota 600. E la bestia non è ancora sazia: l’ultima procedura di licenziamento, annunciata dall’azienda il 10 giugno, prevede 385 esuberi di cui 153 in R&D, quel settore ricerca e sviluppo che la multinazionale ha sempre rivendicato come fiore all’occhiello della sua presenza in Italia. E 147 di quegli esuberi sono a Genova (di cui 137 nel settore R&D), già colpita pesantemente dalle altre fasi della ristrutturazione, dove i piani dell’azienda stanno incontrando la resistenza più radicale. Proprio oggi la notizia delle dimissioni del Ceo, Hans Vestberg, annuncia altre misure drastiche della multinazionale dopo i risultati del secondo trimestre che vedono una contrazione delle vendite dell’11% e del 26% dell’utile netto
Il gruppo è principalmente attivo nello sviluppo e nella vendita a livello mondiale di una vasta gamma di soluzioni e prodotti destinati principalmente a clienti industriali attivi nel settore delle telecomunicazioni e in parte ai consumatori finali.
13494817_593954870777795_33350182484923466_nA margine delle iniziative per gli anniversari delle giornate del luglio 2001, Massimo Dalla Giovanna e Daniela Roccu, Rsu della Slc-Cgil, fanno il punto della vertenza Ericsson per la quale il 28 luglio prossimo scadono i 45 giorni in cui, per legge, si può raggiungere un accordo tra azienda e sindacati per provare a individuare un accordo e il 27 agosto scadono i termini anche per il Ministero del Lavoro.
«Entro quella data vogliamo un incontro al Mise, il ministero per lo sviluppo economico, per non discutere di esuberi strutturali, per uscire da quella logica», spiegano i delegati che fanno entrambi riferimento all’area Il sindacato è un’altra cosa-Opposizione in Cgil. «Abbiamo molte proposte da fare per fermare i licenziamenti e mantenere il nostro posto di lavoro, in particolare sulla Banda Ultralarga, business che metterà in campo il Governo fino al 2020 con 7 miliardi di euro pubblici e che la Ericsson ha dichiarato essere uno dei business principali a cui punta. E noi abbiamo sempre avuto le competenze per fare questo. Ma Ericsson vuole solo licenziare i “vecchi” con un salario ancora decente e dei diritti derivanti dallo Statuto dei Lavoratori per assumere invece alcuni giovani “jobs act-izzati”, con bassi stipendi e pochi diritti, licenziabili ogni momento, senza articolo 18 e spostare la realizzazione di alcune parti di questi progetti all’estero, nei paesi dell’Est e Sud-est asiatico a basso costo».
Ma a quell’incontro Ericsson s’è finora sottratta mentre ha avuto la capacità di convocare, a sua volta, il governo promuovendo il proprio meeting annuale (su “Giovani, innovazione, crescita” proprio in una sala di Palazzo Madama». Calenda era in cartellone con altri due colleghi di governo ma sarebbe stato troppo imbarazzante farsi vedere lì dopo il diniego della multinazionale, senza alcuna spiegazione, di partecipare al suo tavolo fissato per il 22 giugno.
Il diario di questa lotta è davvero fitto: venerdì 10 giugno l’annuncio della procedura, lunedì 13 la prima assemblea con 400 presenze su 600 lavoratori. E subito due ore di sciopero con il blocco, per un’ora, del casello di Genova Aeroporto. Martedì 14, otto ore di sciopero e due iniziative: Regione e Comune. E’ allora che s’è riusciti a strappare la convocazione del tavolo disdetto dal management aziendale solo il giorno prima. Così i lavoratori della Ericsson hanno scioperato immediatamente, otto ore (sebbene una parte dei lavoratori siano sottoposti alle procedure di “raffreddamento” previsti dalla legge antisciopero sui servizi pubblici), sfilando in corteo da Piazza De Ferrari fino alla Prefettura dove sono saliti, dopo un nuovo blocco al casello, accompagnati dal sindaco Doria e alcuni emissari del governatore Toti. Parte una nuova richiesta di incontro al Mise da parte della prefetta ligure. Il giorno dopo, altre 8 ore come il 28, con blocco per tutta la giornata della Sopraelevata e quindi della città.
ericsson-protesta-consiglio-regionale-352043.660x368
L’appuntamento, per un nuovo corteo per le vie della città, è per le ore 9.30 del 5 luglio – è un martedì e non sarà il prolungamento del week end – a Sampierdarena in concomitanza con altre manifestazioni di altri lavoratori che darà ancora più enfasi al tutto, come già accaduto con i metalmeccanici. Quel giorno ci sarà infatti lo sciopero regionale dei servizi postali (senza la CISL) e dei lavoratori del Trasporto Pubblico Locale. Dopo quello di venerdì 8 luglio, si sciopererà ancora il 16 luglio, 4 ore coi metalmeccanici in sciopero per il rinnovo.
Chissà se questi cortei congiunti siano riusciti a indicare alla Camera del Lavoro la via maestra della convergenza delle lotte. «Vorremmo tanto che fosse così», rispondono i delegati ma esiste sono un coordinamento con due aziende metalmeccaniche del Parco degli Erzelli. Le segreterie nazionali sono apparse a dir poco piuttosto timide, così come i responsabili sindacali del coordinamento tra i lavoratori del gruppo. In realtà i sindacati avevano appreso del piano di esuberi un mese prima della sua ufficializzazione e ci sarebbe stato tutto il tempo per mettere a punto un’azione congiunta a livello nazionale. Invece, solo l’8 luglio c’è stato lo sciopero nazionale del gruppo e solo quattro giorni dopo il primo momento di coordinamento. «Genova si è sentita sola in questa lotta». Per non dire il livello sovranazionale: esiste solo il Cae, un coordinamento previsto dal regolamento aziendale (per l’Italia partecipano un rappresentante ciascuno di Cgil, Cisl, Uil) ma non ha alcuna funzione contrattuale e può solo formulare quesiti al management.
13442363_587500721423210_600360415951804784_nEppure l’acquisizione di Marconi da parte della multinazionale svedese nel 2006 per 2,10 milioni di euro sembrava nascere sotto i migliori auspici – raccontano i delegati – insieme al marchio rilevava la maggioranza delle attività relative alle reti di accesso, agli apparati e servizi Data Networks con base in Nord America, i Servizi internazionali che includono le attività di Telecomunicazioni (installazione, commissioning e manutenzione) non stanziate nel Regno Unito, le attività nei Servizi a Valore Aggiunto (VAS) nel Medio Oriente e le attività relative ai Servizi Wireless Software. I dipendenti erano 3228 complessivamente nelle sedi di Genova, Roma, Napoli, Assago (Mi), Mestre, Caserta e Torino per quanto attiene al contratto delle Telecomunicazioni.
Il 19 maggio 2012 Regione, Comune e Provincia di Genova, insieme con i Ministeri dello sviluppo economico e dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca firmano con Ericsson Telecomunicazioni Spa l’accordo di programma. L’accordo prevede un finanziamento complessivo di 41,9 milioni di euro (24 milioni del MIUR, di cui circa 5 milioni a titolo di contributo e circa 19 milioni come credito agevolato; 6,9 milioni del MISE, di cui 4,6 milioni quale contributo alla spesa e 2,3 milioni come contributo in conto interessi e 11 milioni di Regione Liguria di cui 5,3 quale contributo alla spesa e 5,7 in forma di credito agevolato a valere sull’Asse 1 – Misura 1.1 del POR-FESR 2007-2013) per la realizzazione del nuovo Centro di ricerca e sviluppo di apparati e sistemi di telecomunicazione dell’azienda all’interno del Parco scientifico e tecnologico di Erzelli del costo complessivo previsto pari a 73,3 milioni di euro. Il “contributo” pubblico viene chiesto dall’azienda con lo scopo di incentivare nuovi progetti di ricerca da sviluppare nell’ambito delle telecomunicazioni con la prospettiva di una crescita occupazionale sul territorio. A fronte vanno però presentati, come da Accordo di programma, dei progetti di ricerca che l’azienda prevede a partire dalla seconda metà del 2012 con l’obiettivo di ultimarli entro il 2014; diversamente Ericsson, nei primi mesi del 2014 decide di non portare avanti i progetti e contemporaneamente la regione Liguria decide di detrarre 9 degli 11 milioni previsti dall’accordo sopracitato.
«Meno chiaro è invece l’esito della richiesta circa i fondi riferiti al Mise, questo a quanto riferiscono le stesse organizzazioni sindacali», segnala anche il deputato ligure, Stefano Quaranta (Si), in una recentissima interrogazione parlamentare. Infatti, nel nuovo piano industriale,Ericsson oltre ad annunciare il piano esuberi, manifesta un forte interesse al progetto del governo riguardante la Banda ultra larga che prevede un importante investimento futuro da parte del Mise. Ad oggi la multinazionale svedese sembra essere il giusto player viste le competenze che potrebbe mettere in campo: tecnologie di rete ottica, tecnologia IP routing ed i sistemi di gestione e controllo di rete, ambiti tecnologici dove le sedi di ricerca e sviluppo di Genova e Pisa erano da sempre fra i leader mondiali e, oggi nonostante tutto, ancora potrebbero esserlo. Ma il piano esuberi e i cambi al vertice potrebbero essere il prodromo di un possibile disimpegno a livello nazionale.
$(KGrHqV,!iEE8IY-DE!RBPMDUG)POw~~60_35Sono stati erogati quei soldi? Che cosa intende fare il governo per capire se Ericsson ha rispettato gli impegni dell’accordo di programma? Farà qualcosa per far ritirare gli esuberi o per mettere clausole ad hoc per il bando della banda ultralarga? Domande che i lavoratori continuano a formulare sottolineandole con forti momenti concreti di conflittualità.
L’autunno di Genova potrebbe essere uno dei più caldi in una città dove, dall’inizio della crisi, l’industria perde mille posti l’anno e almeno cinquemila operai vivono in quello stato di sofferenza salariale che chiamiamo cassa integrazione. I grandi nomi – Piaggio (che vuole dimezzare ulteriormente la forza lavoro), Siemens (che sta per cederne tre quarti), Ilva, Smag – e il pulviscolo straziato della piccola e media impresa disegnano ormai un paesaggio di crisi dentro il quale il padronato sta riscrivendo a proprio vantaggio i rapporti di forza.

SPRIGIONARSI DAL DEBITO

$
0
0

da http://popoffquotidiano.it/2016/07/26/sprigionarsi-dal-debito-per-riprendersi-il-futuro/

Il debito serve a trasferire risorse dal lavoro al capitale e a consegnare ai grandi interessi finanziari, attraverso alienazione del patrimonio pubblico e privatizzazioni, tutto ciò che ci appartiene

di Marco Bersani
drop-debt_092902
Nel 2015, secondo l’Istat, le famiglie che in Italia vivevano in povertà assoluta sono diventate 1 milione e 582 mila, pari a 4 milioni e 598 mila persone, il numero più alto dal 2005.
Sempre nel 2015, una ricerca Censis-Rbm calcola in oltre 11 milioni (coinvolto il 43% delle famiglie italiane) le persone che hanno dovuto rinviare o rinunciare a cure mediche adeguate, a causa delle difficoltà economiche.
Nel medesimo anno, come in tutti gli anni precedenti, lo Stato ha pagato 85 miliardi di euro solo per gli interessi sul debito pubblico.
C’è connessione fra queste cifre? Chi dice di no non ha mai fatto parte né della categoria della povertà assoluta, né di quella che fatica a curarsi adeguatamente. E’ per questo che considera il debito pubblico italiano come essenzialmente dovuto alla dissennatezza collettiva dell’aver vissuto per anni “al di sopra delle proprie possibilità” e trova ora normale doverne pagare lo scotto (interessi compresi), sapendo che ricadrà su ben precise fasce di popolazione.
Ma è andata davvero così? Naturalmente no e pochi dati bastano a dimostrarlo.
Negli ultimi 20 anni, il bilancio dello Stato si è chiuso in avanzo primario (rapporto fra entrate e uscite) per ben 18 volte e la parte dei cittadini che ha sempre pagato le tasse ha versato allo Stato almeno 700 miliardi di euro in più di quello che ha ricevuto sotto forma di beni e servizi.
Come mai allora il nostro debito continua a veleggiare oltre i 2.200 miliardi di euro? Perché dal divorzio fra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia nel 1981, e la conseguente fine della copertura “in ultima istanza” da parte di quest’ultima dei prestiti emessi dallo Stato, gli interessi da pagare sul debito sono saliti alle stelle, tanto che ad oggi abbiamo già collettivamente pagato oltre 3.000 miliardi di interessi su un debito che continua a salire e che auto-alimenta la catena, ingabbiando la vita e i diritti di tutti.
La spesa per interessi è pari a oltre il 5% del Pil e rappresenta la terza voce di spesa dopo la previdenza e la sanità. Se a tutto questo aggiungiamo il fiscal compact, ovvero l’impegno preso in sede europea a riportare il rapporto debito/Pil dall’attuale 130% al 60% nei prossimi venti anni, con un taglio conseguente della spesa pubblica di circa 50 miliardi/anno, il quadro della trappola diviene evidente: il debito serve a trasferire risorse dal lavoro al capitale e a consegnare ai grandi interessi finanziari, attraverso alienazione del patrimonio pubblico e privatizzazioni, tutto ciò che ci appartiene.
E la sottrazione di democrazia messa in campo con la riforma costituzionale, sulla quale si voterà in autunno, rappresenta solo il tentativo di approfittare della crisi per approfondire le politiche liberiste, sostituendo la discussione democratica con l’obbligo alle stesse e il necessario consenso con la collettiva rassegnazione.
La trappola del debito diviene ancor più evidente se poniamo l’attenzione sugli enti locali e le comunità territoriali, ormai giunti al collasso finanziario, grazie al combinato disposto di patto di stabilità (e pareggio di bilancio), tagli ai trasferimenti e spending review: quanti sanno infatti che, nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico italiano sia pari solo al 2,4%, sugli stessi si sia scaricata la maggior parte delle misure, al punto che dal 2008 i tagli delle risorse a loro disposizione siano passati da 1.650 a 15.500 miliardi (+900%) ?
Di fronte a questi dati, possiamo continuare a dire che il debito è ineluttabile e a considerare gli interessi sullo stesso normale parte del contratto stipulato?
Possiamo continuare a pensare che il debito, in quanto colpa, va saldato e trovare normale che a quella cultura si educhino intere generazioni già nella scuola, con la trasformazione dei giudizi sull’apprendimento in “debiti” e “crediti”?
Crediamo di no e, a sostegno di questa tesi, basta leggersi l’art. 103 della Carta dell’Onu, quando pone l’obbligo di ogni Stato a garantire pace, coesione e sviluppo sociale sopra ogni altro e qualsivoglia impegno contratto dallo stesso.
Del resto, qualcuno può ritenere sostenibile mantenere un debito, che oltre allo stesso, comporti la sottrazione annuale di 135 miliardi di euro di risorse collettive, per pagarne gli interessi e per adempiere al fiscal compact?
Da che mondo è mondo, non si è mai visto un creditore anelare al pagamento del debito. L’usuraio teme due soli eventi nella sua “professione”: la morte del debitore e il saldo del debito, perché, in entrambi i casi, perderebbe la fonte periodica del suo sostentamento – gli interessi – e la possibilità di dominio sull’altro e sulle sue scelte in merito ai suoi averi e proprietà (nel caso degli Stati, i beni comuni).
Ecco perché il debito deve smettere di essere un tabù e deve divenire parte concreta delle battaglie per un altro modello sociale. Se il debito è oggi agitato come “lo shock per far diventare politicamente inevitabile, ciò che è socialmente inaccettabile” (Milton Friedman), occorre che le popolazioni passino dal panico prodotto dallo shock – che comporta paralisi, ripiegamento individuale e adesione alla narrazione dominante – alla sana pre-occupazione, ovvero alla capacità collettiva di iniziare ad occuparsi di sé, della collettività e del comune destino.
Rifiutando la trappola del debito e rivendicando a tutti i livelli – locale, nazionale e internazionale – la necessità di un’indagine indipendente e partecipativa che sveli quanta parte del debito è illegittima e quanta parte è odiosa –dunque da non pagare- e che affronti, partendo dall’incomprimibilità dei diritti individuali e sociali, tempi e modi del pagamento dell’eventuale restante parte legittima.
Di tutto questo se ne discuterà all’università estiva di Attac Italia, a Roma dal 16 al 18 settembre, in una serie di seminari che, partendo dal debito internazionale (con la presenza di Eric Toussaint del Cadtm), arriverà a mettere a confronto le nuove esperienze di movimento e istituzionali nelle “città ribelli” di Barcellona, Napoli e Roma.
Un’occasione per liberare il presente e riappropriarci del futuro.

IL GOVERNO BLOCCA IL SALARIO ACCESSORIO

$
0
0

da http://www.senzasoste.it/politica/governo-blinda-decreto-che-blocca-salario-accessorio

Italian Democratic Party's leader Matteo Renzi talks to journalists at the Quirinale presidential palace after talks with Italan President Giorgio Napolitano, in Rome, Monday, Feb. 17, 2014. Renzi was asked to form a new government to replace the one he sacked through a stunning power-grab within his own party. Renzi drove himself to his meeting with Napolitano, mimicking the down-to-earth approach of his predecessor, Enrico Letta.(AP Photo/Alessandra Tarantino)

Il Governo Renzi blinda il decreto Enti Locali ponendo la questione di fiducia e reintroduce il blocco del salario accessorio per le amministrazioni che hanno sforato il Patto di stabilità 2015.
“76 Province su 85 a statuto ordinario e diverse Città Metropolitane saranno costrette a tagliare la parte accessoria del salario dei propri dipendenti”, avverte Gilberto Gini, dell’USB P.I. Enti Locali.
Prosegue Gini: “A pochi mesi dal referendum costituzionale, che riguarderà anche la cancellazione delle Province, è vergognoso che il Governo si sostituisca alla volontà dei cittadini e decida anticipatamente la morte delle Province e di tutti i servizi da queste erogati”.
“Se questo testo verrà approvato – sottolinea il sindacalista – molte amministrazioni rischiano il pre-dissesto già nel 2016 ed il dissesto sicuro nel 2017. Sarà difficilissimo mantenere i livelli occupazionali e salariali attuali,  ed il rischio di vedere una busta paga ancora più misera è elevatissimo. Anche i Comuni subiranno un taglio pari al 30% dello sforamento, mettendo così a rischio le stabilizzazioni del personale precario”.
Aggiunge Gini: “Con l’avallo dei sindacati complici, che in questi anni hanno sempre minimizzato i problemi  per i lavoratori ed oggi fingono una conflittualità di facciata,   il Governo sta affossando gli enti locali del nostro Paese a favore di un centralismo che distribuisce potere e risorse a pochi e che toglie servizi ai cittadini”.
“L’USB Pubblico Impiego esprime netta contrarietà in merito ai provvedimenti contenuti nel decreto ed in particolare al blocco del salario accessorio, ed evidenzia che il contratto nazionale è fermo da oltre sette anni. Inoltre il Governo prosegue nell’atteggiamento di chiusura nei confronti della parti sociali: tutti buoni motivi per aderire allo sciopero generale proclamato dall’USB nel prossimo autunno”, conclude Gini.
Unione Sindacale di Base
22 luglio 2016

LA GUERRA DELL'EDITORIA

$
0
0

da http://popoffquotidiano.it/2016/07/28/mondazzoli-addio-torino-i-libri-vanno-allexpo-di-milano/

La guerra del libro, anzi del Salone, la vince Mondazzoli, il mostro nato dalla fusione di Rizzoli e Mondadori. Editori indipendenti sul piede di guerra. E/O va via dall’Aie sbattendo la porta

di Checchino Antonini
1962672_10202752332083142_884198498_n

Da Torino a Milano per mettere a valore il sistema Expo e il devastante modello di relazioni sociali che si porta dietro. Ecco cos’è questo grande trasloco della kermesse del libro. Così Mondazzoli, il mostro editoriale (e milanese, Mondadori più Rizzoli) che si mangia il 40% delle vendite di libri, schiaccia la biodiversità editoriale. Che già non se la passava bene prima. Perché la guerra Milano-Torino non è uno scontro tra cow boy e indiani. E le piccole case editrici non sono quasi mai luoghi liberati esenti dallo sfruttamento.
E’ durata oltre tre ore ed è stata tutt’altro che pacifica la riunione del consiglio generale dell’Associazione Italiana Editori: 32 votanti, 17 sì, 7 no e 8 astenuti, vince il padrone del pallone a proposito dell’ufficializzazione dell’addio dell’Aie al Salone del Libro di Torino. Era da febbraio che i grandi editori avevano deciso di uscire dalla Fondazione per il Libro ma per «correttezza istituzionale» hanno aspettato dato che a Torino c’era la campagna elettorale.
E’ la decisione di “mettersi in proprio”, anzi, di mettere su casa assieme a chi ha gestito Expo: sta per nascere una nuova società con Fiera Milano (che avrà il 51% delle azioni) per promuovere il libro – il nome sarà annunciato a settembre – in un evento che si svolgerà a maggio, proprio per fare terra bruciata al Salone di Torino. E l’operazione prevede di inglobare anche “Più libri più liberi”, l’evento romano di dicembre dedicato alla piccola e media editoria. Non era semplice prima, sarà difficilissimo, d’ora in poi, per chi voglia pubblicare e leggere libri fuori dalle logiche di un mercato drogato, con regole cucite su misura per le grandi concentrazioni editoriali e finanziarie.
Esulta Mondadori, come pure il gruppo Mauri Spagnol, mentre e/o (la casa editrice che pubblica, ad esempio, Massimo Carlotto) va via dall’Aie sbattendo la porta e la casa editrice Lindau si è detta pronta a lasciare l’associazione e raccogliere in un coordinamento gli editori a sostegno del Salone di Torino. Nei giorni scorsi anche Odei, l’osservatorio degli editori indipendenti (promotore di Milano Book Pride, la fiera degli editori indipendenti, terzo evento fieristico editoriale in Italia per numero di visitatori), aveva espresso preoccupazione per una decisione abbondantemente nell’aria: «le decisioni sull’evento più importante a livello nazionale del mondo dell’editoria e tra i più importanti appuntamenti culturali dell’anno in Italia, devono essere prese consultando un’ampia platea di editori, protagonisti fondamentali del Salone». Così non è stato.
Questo scrivono Sandro Ferri e Sandra Ozzola, anima delle Edizioni E/O:
Questa decisione rivela la subalternità dell’associazione alle strategie dei grandi gruppi editoriali milanesi ed è stata presa senza un’ampia consultazione e tempestiva informazione degli iscritti. Non sono state certamente le frettolose consultazioni e le polemiche campaniliste di questi giorni a cambiare questo dato di fatto. Nel giro di poco meno di un mese ci ritroviamo a sorpresa senza il Salone del Libro di Torino che per trent’anni ha funzionato come una valida esperienza, soprattutto dal punto di vista degli editori indipendenti e dell’incontro tra autori, professionali del libro e lettori.
Per noi è evidente che a Milano non ci saranno le necessarie garanzie per un’equa rappresentazione dell’editoria indipendente e per un valido progetto culturale. Sono sotto gli occhi di tutti le conseguenze dei processi di concentrazione editoriale e distributiva portati avanti dai grandi gruppi editoriali. Il rischio della riduzione degli spazi espressivi e commerciali, attraverso la concentrazione in poche mani di distribuzione, librerie e case editrici, si arricchisce oggi di un altro preoccupante tassello. A partire da oggi anche il Salone del Libro, che aveva garantito in questi anni buona visibilità e attenzione all’editoria indipendente e agli editori più piccoli, finisce nelle stesse mani che già controllano la maggior parte del mercato.
L’AIE, che già adesso non annovera tra i suoi soci importanti editori indipendenti di cultura, perde così un’occasione per una politica di maggiore equità ed equilibrio capace di rappresentare i diversi interessi del mondo editoriale. Per questo motivo usciamo dall’Associazione e continueremo in altre sedi e forme la nostra battaglia per il pluralismo culturale.
«Noi andiamo avanti per la nostra strada – ha fatto sapere il sindaco di Torino Chiara Appendino – l’edizione 2017 si farà». «Lavoreremo con gli editori che non la pensano come il dottor Motta e che si renderanno disponibili – dice – assicurando una nuova fase per rilanciare il Salone con progetti innovativi, potendo contare sul supporto del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, del Miur, della Regione Piemonte e di Banca Intesa San Paolo». Partner forti, a cui nelle ultime ore si è aggiunta anche l’Itedi, l’editore del quotidiano La Stampa, pronto a scendere in campo con una sponsorizzazione triennale e con il contributo di idee del suo direttore creativo, Massimo Gramellini (a proposito di indiani e cow boy). L’ultima parola, insomma, non è ancora scritta e Torino spera ancora di poter dire la sua.
A Torino i medio-piccoli e a Milano il Salone dei grossi? E’ una semplificazione «Non credo che nessuno ci guadagnerebbe» dice Ernesto Ferrero, per 18 anni direttore editoriale del Salone del Libro di Torino, e spiega: «i piccoli editori sono una ricchezza. I visitatori al Salone hanno la possibilità di esplorare i loro cataloghi che non trovano nelle librerie. C’è una produzione forsennata. Negli anni abbiamo fatto di tutto per favorirli, gli abbiamo dedicato un intero padiglione, creato l’incubatole. E poi ci siamo anche sentiti dire che non facevamo nulla per gli editori medio-piccoli». Ferrero non nasconde che l’elezione a nuovo sindaco di Torino di Chiara Appendino possa aver avuto qualche incidenza sulla decisione presa e sottolinea: «Appendino appena è stata eletta è stata così brava che in un pomeriggio ha ottenuto un risparmio del 50% sui costi d’affitto del Lingotto. Non si possono condannare aprioristicamente le persone perché non la pensano come noi. Alla faccia della democrazia».
«Confesso che non capisco questa decisione. Credo che qualsiasi progetto e qualunque nuova iniziativa debba farsi sotto il segno della inclusione e di un vasto consenso. Questo progetto, per altro ancora tutto per aria, ha creato una serie di spaccature all’interno dello stesso Consiglio dell’Aie che non rappresenta tutti gli editori italiani, mettendo i piccoli editori contro i grandi, Torino contro Milano. Inoltre rappresenta un vistoso sgarbo istituzionale ai ministeri. A chi giova tutto questo? Non certo al libro, non certo ai lettori. La promozione della lettura non si fa con la guerra», conclude Ferrero. Ma forse nemmeno con grandi e costosi eventi.

WEEK END MAGAZINE

$
0
0


L'ACQUAZZONE

temporale

Si sciolsero le nubi, all’improvviso:
piovve a dirotto. Al limite del campo
vidi la bimba fra uno scroscio e un lampo,
bello tra i ricci bruni il fresco viso.
Tesi le braccia, ed attraverso il nembo
la bimba accorse, fradicia e ridente
e mi cadde sul cuore, e il suo fremente
piccolo corpo mi raccolsi in grembo…
...Passan i giorni, passano e si muore
Ben altre furie di tempeste tu
affronterai;  ma non ci sarà più
la tua mamma a raccoglierti sul cuore.


(Ada Negri)

QUELL'AMICO POTENTE DEL PD ...

$
0
0

da http://popoffquotidiano.it/2016/07/31/lamico-potente-del-pd-vuole-asfaltare-labruzzo/

Il gruppo imprenditoriale Toto, vicinissimo al governatore Pd, punta all’acquisto del maggior quotidiano e alla realizzazione di una devastante variante dell’autostrada 

da ChietiAlessio Di Florio
13876684_1004191079696866_4242727277384555514_n
L’attuale governatore abruzzese D’Alfonso è da anni considerato vicinissimo al gruppo industriale Toto. Durante l’ultima campagna elettorale per le elezioni regionali, nel 2014, sui social network girava un primissimo piano di D’Alfonso con lo slogan “D’Alfonso è amico di Toto e io non lo voto”. Una contestazione che è tornata ad animare il dibattito politico abruzzese dopo le due recenti notizie sul gruppo Toto: il possibile acquisto del principale quotidiano abruzzese, Il Centro, e soprattutto il progetto di variante delle autostrade A24 e A25.
Maurizio Acerbo della segreteria nazionale di Rifondazione Comunista ha commentato la notizia del possibile acquisto de Il Centro scrivendo di possibile “emergenza democratica” e descrivendo il gruppo Toto come “il più forte gruppo che opera nel settore dei lavori pubblici, dell’edilizia, dei trasporti e che gestisce in concessione l’autostrada che collega l’Abruzzo a Roma già può contare sull’amicizia di un Presidente della Regione che nelle vicende giudiziarie che lo hanno riguardato si è autodefinito damo di compagnia della famiglia Toto”. “Se un gruppo che ha legami così forti con le scelte della pubblica amministrazione – ha aggiunto l’ex deputato ed ex consigliere regionale – e delle istituzioni a livello locale e regionale acquisisse il controllo del quotidiano Il Centro si configurerebbe un panorama informativo da terzo mondo”.
L’altra notizia che sta scatenando una fortissima mobilitazione è, come già accennato, quello delle varianti autostradali, che prevede anche 40 km di gallerie e un taglio dell’attuale tracciato di A24 e A25 (da Bussi a Celano il tratto verrà ridotto di 17,6 chilometri) per 10 anni di lavori con un investimento di oltre 6 miliardi. Il gruppo ha dichiarato che il progetto bilancerebbe le esigenze di sicurezza (tra cui pendenze ritenute testualmente “inaccettabili” e metterebbe in sicurezza le autostrade, per esempio, dai rischi di terremoti) e di tutela dell’ambiente. Alcuni sindaci delle aree interne si stanno dichiarando favorevoli all’opera (oltre ad esponenti del Partito Democratico finora solo il segretario regionale dell’Italia dei Valori si è detto favorevole), puntando soprattutto sulle possibilità di collegamenti più rapidi che la variante potrebbe portare, diversi altri si stanno aggiungendo alle tantissime voci contrarie che si stanno organizzando in un vero e proprio fronte comune. Un fronte di contrari all’opera ampissimo, dal Forum Abruzzese dei Movimenti per l’Acqua Pubblica alle associazioni ambientaliste (Wwf, Legambiente, Fai, Italia Nostra, Lipu e altre), ai Cobas, al Movimento 5Stelle, Rifondazione Comunista, Sinistra Anticapitalista, Sel/SI e altre associazioni.
Secondo Maurizio Acerbo il gruppo “non avrebbe mai dovuto presentare” il progetto, e il governatore non l’avrebbe “mai dovuto sponsorizzare” per il “palese legame” con l’azienda stessa. Il progettista ha dichiarato che, tra i motivi per la sua realizzazione, c’è il rischio per la sicurezza dei camion che potrebbero “andare a fuoco”. Ma, dichiara Acerbo, “non ci risulta che sia venuta dagli autotrasportatori la richiesta dell’opera anzi che importanti associazioni di categoria si siano dichiarate apertamente contrarie”. Altri punti contestati sono i numeri dei lavoratori che verranno impiegati (20.000 secondo l’azienda, un numero spropositato secondo Acerbo), la dichiarazione che i 6 miliardi saranno di capitali privati. Ma, contesta Maurizio Acerbo, “Ramadori (il progettista dell’opera)dimentica di dire che i soldi li metteranno i cittadini con i pedaggi”. In un’intervista Ramadori ha comunicato che “il progetto sarebbe cambiato di nuovo”, secondo l’esponente nazionale del partito guidato da Paolo Ferrero “un tentativo di depotenziare la protesta che monta” e “un segno della mancanza di trasparenza di un’operazione sgangherata che è potuta andare avanti solo perché i Toto attraverso D’Alfonso hanno conquistato il governo regionale”.
Le associazioni ambientaliste sono allarmate per l’area “delle sorgenti del Pescara, là dove nel sottosuolo c’è il bacino imbrifero più grande d’Italia e forse d’Europa, che fornisce acqua potabile a oltre metà degli abruzzesi”. Mentre la CGIL ha criticato il progetto affermando che si può investire “sulla manutenzione programmata del territorio, sulla messa a norma in sicurezza del territorio, sulla valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale, sulle politiche industriali che in definitiva sposano la sostenibilità ambientale”. Preoccupazioni simili sono state espresse da Sinistra Ecologia Libertà, partito che partecipa alla maggioranza che sostiene D’Alfonso e rappresentato nella Giunta Regionale dal sottosegretario alla Presidenza Mazzocca ma che si è esposta contro un progetto che definisce “insostenibile sotto il profilo ambientale: tornare a bucare le montagne abruzzesi per ulteriori 3 milioni di metri cubi determinerebbe un impatto incalcolabile ed irreversibile sull’ambiente naturale, in particolar modo sulle riserve idriche delle nostre montagne da cui la nostra Regione dipende; un impatto letale sull’assetto del sottosuolo, sulla componente paesistica e sulla qualità della vita”. Secondo Sel il progetto sarebbe insostenibile anche sul “piano sociale” perché “la sua realizzazione impatterebbe drasticamente con il tessuto sociale delle comunità locali, anche per gli elevati costi che non potranno non gravare prevalentemente sulla comunità locale-utente” e “convince ancor meno è la sostenibilità economico-finanziaria dell’intervento; non ci convince, ad esempio, il rapporto costi/benefici soprattutto in ordine alla proporzione fra l’elevata consistenza dell’investimento e la consequenziale giustificazione tecnico-economica a supporto”. In risposta ai favorevoli all’opera per la diminuzione dei tempi di percorrenza il segretario regionale Febo e il sottosegretario Mazzocca ritengono “strategico ottimizzare e qualificare il collegamento tra l’Abruzzo e la Capitale” ma che questo vada realizzato con “una serrata discussione sulla esigenza di implementare e potenziare la linea ferroviaria, da tempo immemore necessitante di un reale e congruo intervento strutturale”. I due esponenti del partito di maggioranza in Abruzzo pongono poi l’attenzione sulla situazione sismica, affermando che dalla “relazione del Gruppo di lavoro interdipartimentale istituito dalla Giunta Regionale con DGR 325 del 5/5/2015, al punto 3. Ambito sismico” appare emergere un “interessamento maggiore di zone ad alto rischio sismico rispetto all’attuale tracciato”.
Il Forum Abruzzese dei Movimenti per l’Acqua Pubblica, che ha reso noto il progetto pubblicandone anche gli elaborati, attacca D’Alfonso accusandolo di temere il confronto e di mancata trasparenza. “Un incubo sociale ed ambientale da fermare” definisce il progetto con “5 trafori del Gran Sasso nelle montagne piene d’acqua” e “Parco d’Abruzzo, Parco del Sirente, Simbruini, Gole del Sagittario e Gole di San Venanzio traforati per decine di km. Ferita la Val Vomano” che comporterebbero “impatti irreversibili su acquiferi, paesaggio, suolo, qualità della vita”.
Centinaia di persone hanno partecipato all’assemblea fondativa del Coordinamento “No Toto – Salviamo l’Abruzzo” mentre la pagina facebook “No Toto – Salviamo l’Abruzzo” registra un costante e consistente aumento delle adesioni.

STRAGE DI BOLOGNA E TEOREMI VARI

$
0
0

da https://insorgenze.net/2016/07/31/stazione-di-bologna-2-agosto-1980-la-bomba-con-cui-la-destra-vorrebbe-rovesciare-la-storia-dello-stragismo/

bologna-3-1024x669A pochi giorni dal trentaseiesimo anniversario della strage si torna a parlare della bomba, oltre venti chili di gelatinato e compound B, una micidiale miscela nascosta molto probabilmente in una valigia, che esplose alle 10.25 del 2 agosto 1980 nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. Saltarono in aria circa 300 persone, 85 di queste morirono. Dopo una inchiesta molto discussa e un tormentato percorso processuale furono condannati come realizzatori materiali dell’orrenda carneficina, tre neofascisti appartenenti ai Nar: Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, minorenne al momento dei fatti (tutti già condannati per altre uccisioni). L’operato della procura bolognese fu caratterizzato da errori, l’uso di teoremi, il ricorso indiscriminato a ricostruzioni e piste aperte da pentiti, dovette anche confrontarsi con l’azione di depistaggio dei Servizi. Per l’inquinamento delle indagini vennero sanzionati Licio Gelli, Francesco Pazienza e due dirigenti del Sismi, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte.
Per ammissione stessa dei magistrati che hanno redatto la sentenza finale di condanna, le conclusioni processuali non sono riuscite a definire in modo soddisfacente quello che fu il movente della strage ed individuarne i mandanti. Una indeterminatezza che ha lasciato aperte ipotesi e discussioni su piste alternative, scenari diversi che si sono sostituiti col passar dei decenni e delle maggioranze politiche. Negli anni 90 si è discussa l’ipotesi che la bomba alla stazione fosse stato un diversivo per distogliere l’attenzione dalla strage di Ustica: l’abbattimento, la sera del 27 giugno dello stesso anno, dell’aereo di linea Itavia che trasportava 81 persone sulla linea Bologna-Palermo. Disastro causato da una vera e propria azione di guerra aerea che vide jet militari Nato attaccare alcuni Mig libici che utilizzavano (autorizzati segretamente dalle autorità italiane) il “cono d’ombra” dell’aereo civile come schermo per traversare indisturbati i cieli del Tirreno di pertinenza Nato.
A partire dal 2000, su iniziativa della destra, si è imposta all’attenzione la cosiddetta “pista palestinese” che aggiornava la “pista mediorientale”, ipotizzata negli anni 80 da alcuni ambienti politici democristiani (Zamberletti), convinti della responsabilità del colonnello Gheddafi, di cui si sospettava la reazione per un accordo di protezione che l’Italia aveva concluso con Malta. La pista palestinese, a causa della sua strutturale fragilità (un movente inconsistente e indizzi striminziti rispetto a quelli della pista neofascista), ha sempre avuto dei contorni incerti e varianti successive (dalla rappresaglia all’esplosione accidentale durante un trasporto di esplosivo) elaborati di volta in volta per colmare palesi incongruenze e gigantesche illogicità, per non citare l’assenza di riscontri.
A detta dei suoi sostenitori, oltre a membri della resistenza palestinese, vedeva coinvolti militanti della sinistra rivoluzionaria tedesca, almeno una delle vittime della strage, ed avrebbe persino lambito gli ambienti della lotta armata italiana.
Nelle intenzioni dei suoi fautori, infatti, essa costituiva un vero e proprio capovolgimento di paradigma storico, una sorta di risarcimento simbolico che in qualche modo doveva riequilibrare e riabilitare in forma vittimistica l’immagine della destra italiana macchiata dall’infamia indelebile per il ruolo avuto nella lunga stagione delle stragi, da piazza Fontana all’Italicus.

Nonostante l’importante campagna politico-mediatica dispiegata attorno a questa pista nell’ultimo decennio, il flusso incontrollato di documenti provenienti dagli ex archivi dell’Est, a volte inattendibili, in altre circostanze male utilizzati, i lavori molto discutibili della commissione Mitrokhin, l’azione di quella che può definirsi l’attività di una “agenzia di disinformazione e depistaggio” non ha prodotto risultati efficaci sul piano giudiziario: «Inserita all’interno di una cornice terroristica internazionale e suggestivamente intrecciata ad un groviglio di fatti storicamente accertati o meramente ipotizzati – concludeva il pm Ceri nella sua richiesta di archiviazione dell’inchiesta bis sulla strage, accolta dal Gip Giangiacomo – la pista palestinese ha rivelato una sostanziale inidoneità a fornire una complessiva spiegazione delle vicende della strage di Bologna».
Più fruttuosi sono stati invece i risultati sul piano del senso comune, dove il battage vittimistico del neofascismo e il paradigma rovescista messo in piedi dalla destra, che attribuiva per la prima volta le responsabilità di una strage, la più grande mai vista in Italia, ai “rossi”, grazie anche alla congiuntura favorevole del ventennio berlusconiano, ha riscontrato maggiore successo facendo breccia goebelsianemente in quella che possiamo definire la “percezione storica” del Paese.
Nella prossima puntata torneremo su alcune questioni recentemente sollevate dai sostenitori della pista palestinese, soprattutto – poiché questo è il vero tema – esamineremo la tecnica distorsiva e manipolatoria da loro utilizzata per dare vita ad una narrazione vittimistica e falsificatoria sulla strage.
1/continua
Precedenti puntate sull’argomento

IL BLUFF CON IL TRUCCO

$
0
0

da  http://www.senzasoste.it/lavoro-capitale/jobs-act-il-grande-bluff-con-il-trucco

Tra gli 8 e i 10 miliardi truffati con il beneplacito dell’Inps
È ormai possibile tirare le somme dell’operazione Jobs Act e incrementi occupazionali che è stata, nell’ultimo biennio il cuore politico e pubblicitario del governodi Matteo Renzi.
Che il Jobs Act in sé considerato consiste solo in una sistematica distruzione dei diritti che assicuravano dignità ai lavoratori italiani, è ormai chiaro a tutti perché, con la pratica abolizione dell’art. 18 dello Statuto, i lavoratori sono ormai privi di difesa., contro ogni tipo di sopraffazione.
Ci si è chiesti però se questa umiliazione avesse – come a sempre ha sostenuto il patronato – il pur discutibile vantaggio di una maggiore occupabilità, ossia di una maggior propensione dei datori di lavoro ad assumere lavoratori perché ormai resi malleabili.
Per sostenere questa deteriore ed infondata tesi il governo Renzi ha pensato di ricorrere ad un (costosissimo) trucco che gli avrebbe consentito poi di menare gran vanto: si trattava di dotare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato (ma senza garanzia dell’art. 18) di un incentivo economico davvero poderoso, così drogando al massimo le assunzioni nel periodo subito successivo al Jobs Act ossia nell’anno 2015.
E’ stata, dunque, varata la decontribuzione, in forza della quale il datore che avesse assunto nell’anno 2015 lavoratori con il «nuovo» contratto di lavoro a tempo indeterminato avrebbe ricevuto, per il triennio successivo uno sgravio contributivo fino ad 8.060,00 annui per un totale così di ben euro 24.000 per ogni assunzione. Ma appunto solo per i contratti conclusi nell’anno 2015, perché per quelli conclusi nel 2016 il regalo si sarebbe più che dimezzato.
L’unica condizione posta dalla legge era che il lavoratore da assumere non avesse già avuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato negli ultimi sei mesi precedenti, perché altrimenti, come ovvio, tutti sarebbero ricorsi a licenziamenti immediatamente seguiti dalle assunzioni con l’incentivo. La decontribuzione veniva invece concessa se il lavoratore avesse prima lavorato con contratto precario (es: a termine, di apprendistato, di collaborazione a progetto) perché queste trasformazioni sarebbero state il fiore all’occhiello del governo Renzi accreditato come grande protagonista – della lotta al precariato.
Ben presto questa «storica impresa» si è rivelata un semplice bluff con il crollo delle assunzioni a tempo indeterminato appena trascorso l’anno d’oro 2015, ma quello che pochi sanno è che non si è trattato solo di un immenso dispendio di denaro pubblico senza adeguati risultati, ma, piuttosto, di un immenso furto di denaro pubblico perché consapevolmente versato, nei casi di trasformazioni di rapporti precari, a datori di lavoro i quali, 9 volte su 10 erano evasori e contravventori passibili di multe e recuperi contributivi da parte dell’Inps.
In secondo luogo vogliamo segnalare al lettore che la decontribuzione demagogica del governo ha dovuto drenare risorse per il suo «regalo agli evasori», ha dovuto abrogare il principale vero incentivo all’occupazione, che funzionava bene da oltre 20 anni, ossia quello previsto dall’art 8 l. 407/1990 per disoccupati e cassa integrati da più di 24 mesi.
Procediamo, però, con ordine: nel corso del 2015 si sono registrati 1,4 milioni di nuovi rapporti a tempo indeterminato incentivati ma, con quasi 500.000 trasformazioni di contratti a termine e quasi 100.00 di contratti di apprendistato, oltre alle trasformazioni di centinaia di migliaia di co.co.pro. (collaborazioni a progetto) figura giuridica abrogata dal 01.01.2016.
Proprio queste trasformazioni sono state le occasioni del rande furto di cui tra poco si dirà, dopo aver ricordato che nel 2016, quando la decontribuzione è stata ridotta per i contratti di quest’ultimo anno da 8.060 a 3.250 e la sua durata decurtata da 36 a 24 mesi. Allora è arrivato il risveglio dalla sbornia: infatti secondo l’Inps nei primi quattro mesi del 2016 si è avuta una diminuzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente addirittura del 78% dei contratti a tempo indeterminato mentre tornavano cosi a dominarlo i contratti precari e a termine e addirittura vouchers, forma di mercificazione definitiva del lavoro umano.
<TB>Il bluff così è stato scoperto ma non ancora il reato che esso nascondeva e che ora denunciamo: il fatto è che le molte centinaia di migliaia di trasformazioni dei contratti precari (delle tre principali tipologie del contratto a termine, apprendistato e a progetto) nascondevano una circostanza peraltro notissima agli operatori del mercato del lavoro, e cioè che essi erano quasi sempre irregolari. Infatti o mancava una causale precisa (contratti a termine), o mancava l’insegnamento (apprendistato), o mancava in realtà il progetto (co.co.pro.) con la conseguenza che per legge quei rapporti dovevano essere considerati già tutti a tempo indeterminato fin dal loro inizio. Per conseguenza non poteva essere concessa dall’Inps la decontribuzione connessa alla loro apparente trasformazione nei nuovi contratti a tutele crescenti perché, come detto, la stessa Legge 190/2014 vietava di concedere la decontribuzione con riguardo ai lavoratori che già fossero (in realtà) a tempo indeterminata nei sei mesi precedenti.
Quello che scandalizza, allora, è che l’Inps il quale era, per l’innanzi, ben attento a perseguire i rapporti precari irregolari, andando alla loro caccia e dichiarandoli a tempo indeterminato, cosi da poter recuperare la relativa contribuzione, sia improvvisamente convertito con l’arrivo del Jobs Act e della L.190/2014 al ruolo di pacifico e innocuo «ufficiale pagatore». Così da concedere, in automatico tutte le decontribuzioni richieste per le supposte trasformazioni di rapporti o precari invece di fare ciò che doveva fare, ossia una attentissimo screening o vaglio dei contratti precari in via di trasformazione, per escludere quelli irregolari, dai quali, era già sorto fin dal principio un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Quante sono state le trasformazioni fasulle? Difficile dirlo, naturalmente, ma ammesso che potessero essere anche solo 8 su 10 e cioè 500.000 circa in tutto, il danno ovvero furto di denaro pubblico può essere calcolato in miliardi di euro, tra gli 8 e 10 nell’arco del triennio. Ognuno può d’altro canto calcolare da sé le varie ipotesi quantitative, ricordando che la decontribuzione triennale per ogni contratto del 2015 è di 24.000.
Può essere che nessuna centrale sindacale senta il bisogno di portare queste semplicissime riflessioni ad una Procura della Corte dei Conti o anche della Magistratura penale?
E’ veniamo al secondo importante profilo: l’incentivazione dell’occupazione è uno dei punti più delicati della disciplina del mercato del lavoro può facilmente dar luogo ad effetti distorsivi. Ma su un concetto vi è un accordo unanime: che l’incentivazione più importante è quella che aiuti a reinserire nel circuito lavorativo chi ne è uscito da un tempo ormai cosi lungo da far temere una emarginazione definitiva.
A questo provvedeva l’art. 8 della Legge 407 /1990, il quale concedeva a chi avesse assunto a tempo indeterminato un disoccupato o cassaintegrato da più di 24 mesi, una decontribuzione per tre anni al 100% se l’imprenditore operante del centro sud o di qualifica artigiana e del 50% negli altri casi. La grande utilità della misura è testimoniata dalla circostanza che è durata per ben 25 anni fin quando Renzi l’ha abolita per finanziare le sue trasformazioni fasulle di contratti precari irregolari.
Decisamente la normativa del lavoro del governo Renzi e degli altri governi liberisti che l’hanno preceduto, scritta sotto dettatura di Confindustria, merita soltanto di essere abrogata e rifatta da capo a fondo.

PREMIERAI

$
0
0

da http://ilmanifesto.info/rai-digital-vintage-torna-il-monocolore-anni-50/


Formalmente era solo un «preconsiglio» perché martedì, alla vigilia, Carlo Freccero aveva fatto notare un errore di procedura della convocazione di oggi del cda Rai. In sostanza ieri mattina nella sala Orsello del mitico settimo piano di Viale Mazzini è arrivato il piano sull’informazione Rai del direttore Carlo Verdelli. Si chiama «Proposta di sviluppo del progetto dell’offerta informativa», punta tutto sul digitale («digital first»), prende atto che l’azienda pubblica italiana è leader sull’informazione tradizionale e invece debolissima nel digitale e disegna le linee per colmare il disavanzo. Sfida cruciale. Perché ormai gli italiani passano almeno il 47 per cento del tempo che dedicano all’informazione a compulsare i media digitali. Verdelli ha impiegato quasi un’ora per illustrare la sua «rivoluzione» che andrà a regime solo giugno del 2017.
Ma il core business della riunione era la consegna ai consiglieri dei quattro curricola dei nuovi direttori designati, passaggio formale indispensabile per procedere stamattina (la nuova riunione del cda è convocata per le 10 e 30) alle nomine. I nomi sono quelli ampiamente annunciati dai boatos: Ida Colucci al Tg2, Luca Mazzà al Tg3, Nicoletta Manzione a Rai Parlamento e Andrea Montanari al Gr-Radio1.
La polemica politica era ampiamente annunciata. La rimozione di Bianca Berlinguer arriva, sfortunatamente per i vertici Rai e per il governo editore di riferimento, proprio nel giorno in cui l’Agcom certifica l’equilibrio del suo Tg sul referendum costituzionale. Di «normalizzazione» parla Loredana De Petris (Sinistra italiana), «ancora più sfacciata se si considera che il direttore del Tg3 che sostituirà Bianca Berlinguer sarà proprio il giornalista che andò via da Ballarò perché non gradiva le posizioni critiche del conduttore al premier. La Lega parla di «Telerenzi» parla la Lega. Ma stavolta è il Pd ad avere problemi seri. L’ex segretario Bersani sentenzia: «Le nomine prefigurano un Pd pienamente partecipe dei vecchi vizi». Nel pomeriggio la minoranza dem prepara un documento di censura in vista della riunione serale della vigilanza Rai dove il direttore generale Campo Dall’Orto e la presidente Maggioni presentano il piano ancora non approvato dal cda. « Si è consumato uno strappo istituzionale senza precedenti», attacca Federico Fornaro per il quale c’è il tentativo di costruire «una sorta di patto del Nazareno televisivo». I giovani turchi, nella maggioranza renziana, non lo firmano ma hanno parecchi dubbi: «I vertici Rai hanno sbagliato a formalizzare le proposte per le nomine prima dell’audizione», spiega Francesco Verducci, vicepresidente della commissione, «prima viene il progetto, poi i nomi», anche perché la discussione della Vigilanza «ha un indubbio valore istituzionale di cui i vertici Rai non possono non tener conto». Dg e presidente se ne sono infischiati. Per Verducci è «una grave sgrammaticatura istituzionale». Da destra, anche Maurizio Gasparri e Renato Brunetta preparano un documento. Per l’azzurra Gelmini «non è un bel regalo al servizio pubblico trasformare la Rai in un comitato elettorale per il Sì». I 5 stelle sono già in modalità combact: «Se loro occupano la Rai noi staremo in piazza», scrive su facebook Alessandro Di Battista. La Vigilanza slitta alle 22 a causa dei lavori della camera. Mentre il manifesto va in stampa rullano tamburi di guerra. In realtà la commissione non ha competenza sulla nomine, ma ha il dovere istituzionale di discussione sul piano dell’informazione. Quello del precedente dg Gubitosi, famoso per le newsroom, è stato discusso a lungo. I nuovi vertici Rai – che ieri pomeriggio sono stati anche ascoltati per due ore dall’autorità anticorruzione nell’ambito dell’ istruttoria su presunte irregolarità nelle procedure di assunzione di 21 dirigenti esterni – con un po’ troppa disinvoltura già ieri lo davano per approvato, tanto da programmare la chiusura della pratica già per stamattina.
Fra l’altro anche nel cda di oggi non tutto filerà liscio. Il consigliere Carlo Freccero è allibito: «È surreale parlare della sfida digitale e poi precipitare sui nomi. Tutta l’illustrazione di Verdelli viene ridotta a una mise en scène. Mentre Campo Dall’Orto pronuncia le sue parole magiche ’innovazione’ e ’contemporaneatà’, il clan di Palazzo Chigi chiede che si costituisca il fronte unico dell’informazione Rai a favore del sì in vista del referendum costituzionale. Dopo gli anni 50 è la prima volta che in Rai torna il monocolore governativo, a riprova che il vero ispiratore di Renzi è Fanfani». Anche Arturo Diaconale sbotta: «Una parte politica che rappresenta il 20 per cento del Paese, e tolgo anche la minoranza dem, occupa il 100 per cento del servizio pubblico». Provano a tenere botta i consiglieri renziani. «C’è una resistenza preconcetta e contraddittoria al cambiamento», dice Guelfo Guelfi. Ma anche per loro non sarà facile ’metterci la faccia’ e votare sì

L'ESTATE DEL PRECARIATO ACROBATICO

$
0
0

da http://espresso.repubblica.it/inchieste/2016/07/29/news/e-tu-quest-estate-che-fai-il-precario-acrobatico-1.279097


Lavoratori pagati in buoni mensa. O in cambio di scontrini. O a due euro per ogni stanza d’albergo pulita. Oppure licenziati e poi ripresi a voucher. Cronache dal Paese della “flessibilità creativa”

DI BRAHIM MAARAD, MICHELE SASSO E FRANCESCA SIRONI - ILLUSTRAZIONI DI MAURIZIO CECCATO

L'estate del precariato acrobatico
Si potrebbe chiamare “precariato acrobatico”. È l’ultima versione della flessibilità estrema in Italia, estate 2016. Quella delle forme più creative in cui ormai si declina il dumpingnel mondo del lavoro: ore stipendiate in buoni pasto, ad esempio. O pagate solo attraverso il rimborso di scontrini. Oppure il cottimo a stanza d’albergo pulita (due euro l’una, in alcuni tre stelle della Riviera romagnola). Per non dire dell’estensione infinita dei voucher,nati per far emergere dal nero i lavori accessori e diventati invece un modo fisiologico per non dare più ai dipendenti alcun tipo di contratto, nemmeno quelli interinali. “L’Espresso” propone in queste pagine un viaggio nella realtà quotidiana delprecariato acrobatico. Con un disclaimer, obbligatorio: quasi nessuno dei lavoratori che vivono così hanno accettato di esporsi con nome e cognome. Perché la flessibilità estrema porta con sé anche la ricattabilità. E il rischio di non avere - domani - nemmeno queste forme di occupazione.

AL POSTO DEI SOLDI

Pistoia, capitale della cultura 2017. Un’economia in ripresa, nonostante le difficoltà: industria manifatturiera su del 2,6 per cento nell’ultimo trimestre, saldo positivo tra aziende chiuse e nuove nate. Ma è in questa città benestante che 
Luana Del Bino, responsabile dell’ufficio vertenze della Cgil, ha ricevuto la prima denuncia di uno “stipendio” interamente dato in ticket restaurant, a un lavapiatti di un ristorante. All’inizio Del Bino non ci voleva credere: «Ogni anno affrontiamo tanti casi di rapporto di lavoro al nero, ma almeno in contanti. Questa modalità di pagamento non l’avevo mai sentita». Invece dopo la sua denuncia apparsa sul quotidiano “il Tirreno”, sono emerse altre segnalazioni simili, sempre in Toscana.

Si è ad esempio scoperto che una società di Viareggio ha proposto i carnet come salario per impieghi a tempo durante l’ultimo carnevale. E in provincia di Pisa quattro commesse part time si sono viste retribuire così gli straordinari. Poi è emerso un altro ristorante, questa volta sul lago di Como: un cuoco con contratto a tempo determinato per 40 ore a settimana, ne lavorava invece 50-60 di media. E anche per lui, questi straordinari venivano pagati ogni tanto con un blocchetto di ticket restaurant.

«È un fenomeno che stiamo scoprendo: imprenditori che cercano di convertire i soldi degli stipendi in “benefit”, così evitando di pagare contributi», dice Gualtiero Biondo, della Cisl lariana che ha ricevuto la denuncia. Biondo cita un caso che sta seguendo proprio in questi giorni: un’azienda metalmeccanica lombarda, con circa 150 dipendenti. L’amministrazione ha proposto loro di ridurre la retribuzione. Trasformando una parte di salario in “servizi” - visite dal dentista o giornate al nido per i figli, ad esempio - in cambio di una decurtazione dello stipendio. Insomma, al posto dei soldi dovuti per il lavoro.


SALARIO PER SCONTRINI

Roma, Biblioteca nazionale. Si incontrano all’ingresso, mentre danno informazioni o tesserini agli studenti. Li vedi all’ufficio prestiti, a distribuire i libri richiesti. O ancora, li puoi incrociare nei magazzini. Sono anche loro a tenere in piedi una delle principali strutture culturali pubbliche del Paese: quattro milioni e mezzo di volumi, per capirci. Il punto è che lo fanno, formalmente, da volontari. E da cinque anni. “Volontari a rimborso”, per la precisione: per essere pagati, devono raccogliere scontrini. Spese di benzina, ricariche telefoniche, panini al bar, conti per massimo trenta euro al supermarket. Raccolgono scontrini e li portano ogni mese per ottenere un “rimborso” di massimo 400 euro a testa, ad eccezione di due “senior”, che stanno più ore, e possono quindi arrivare a 600. Niente contratti, né contributi, solo fogli da firmare per l’ingresso e l’uscita, stando ai turni in cui rientrano anche loro. Non vogliono parlare con nome e cognome, perché si sentono facilmente sostituibili, spiegano, dai ragazzi del servizio civile: il loro ultimo incubo. Quindi si tengono stretti questo posto.Sono in 25 in tutto, su circa 200 dipendenti della biblioteca. Prima erano impiegati attraverso una cooperativa, con contratto regolare.

Poi l’azienda è stata sostituita da un’associazione di volontariato. Ma loro sono rimasti lì. Stesso impiego di prima, nuova casacca e nuova modalità di pagamento. Adesso dicono che per l’estate il rimborso rischia perfino di diminuire: l’anno scorso infatti nei mesi più caldi hanno ricevuto 100 euro in meno. Era il “contributo all’aria condizionata”, il privilegio di stare al fresco al lavoro. La speranza è che quest’anno i loro datori siano più umani e accettino gli scontrini fino alla cifra intera. «Quando abbiamo chiesto conto della situazione all’ufficio del personale ci hanno detto che non essendo i volontari parte dell’organico, non ne sono responsabili», dice Norberto Benemeglio del sindacato atipici della Cgil: «Insomma sono dei fantasmi, non esistono».
Illustrazione di Maurizio Ceccato

INTERINALI RETROCESSI

Massa, ipermercato Carrefour aperto 7 giorni su 7. Sara - nome di fantasia - quando arriva indossa una gonna blu al ginocchio e ha le unghie laccate. «Avere le mani curate e vestiti neri o blu è richiesto», spiega. Lei fa la cassiera e rappresenta l’ultima deriva dell’uso ordinario di forme straordinarie di pagamento: i voucher . Dal 16 luglio alla Carrefour di Massa i cassieri sono divisi in tre: interni, interinali e voucheristi. I primi sono i “privilegiati”, a tempo indeterminato; i secondi sono precari ma con una prospettiva di salario lunga qualche mese; i terzi sono assunti a ora, senza ferie, malattia, maternità, liquidazione, niente; e 
licenziabili non dall’oggi al domani ma proprio dal mattino al pomeriggio. 

Questi ultimi non sono dei nuovi assunti, peraltro, ma dei retrocessi: prima erano interinali. Finito l’ultimo contratto, sono passati a voucher. Sara mostra l’ultima busta paga della Manpower, l’agenzia attraverso la quale veniva di solito collocata nel supermercato: in una settimana di giugno, ad esempio, ha lavorato 18 ore. Stipendio: 199 euro netti, più Tfr, contributi, malattia e infortuni. Per lavorare le stesse ore, in voucher, ne prenderà 135: cioè 64 in meno. Il 2 giugno scorso era festa e Sara è stata pagata un po’ di più: otto ore, 125 euro. Se alla prossima festa della repubblica sarà ancora lì, ne prenderà 60. Sara naturalmente non è l’unica.Altri lavoratori dell’ipermercato stanno passando dall’interinale al voucher . «Ci hanno convocato ai primi di luglio, in una ventina, tutti interinali», racconta la cassiera: «Ci hanno spiegato che eravamo a scadenza e ci hanno offerto quindi di allungare la nostra permanenza grazie ai buoni. Abbiamo accettato in pochi. Per alcuni non conviene nemmeno dire sì, dovendo arrivare da lontano con la macchina. Io per ora provo».

Già: Sara era “a scadenza” perché vicina al limite dei 200 contratti attivati attraverso l’agenzia sullo stesso luogo di lavoro. Essendo “richiesta” spesso di giorno in giorno (e ogni richiesta vale un contratto), ha fatto presto ad accumularne 200. E quando non è di turno al Carrefour? «Faccio i mestieri a casa di alcune signore della zona», risponde. E anche lì è pagata a voucher, che in fondo sono stati inventati proprio per questo? Macché: «In nero. I voucher non li avevo mai sentiti nominare prima che me ne parlassero al Carrefour»

INCUBO IN ALBERGO

Se i mestieri casalinghi sono in nero, quelli nei grandi alberghi non luccicano. Almeno non sempre. Perché l’altra frontiera del precariato estivo sta proprio lì: in stanza. Nei grandi alberghi della riviera romagnola, vista mare. Donne delle pulizie pagate per ogni camera rifatta. Due euro a stanza. Stagionali che hanno contratti di trenta ore la settimana, ma che di ore ne fanno più di dodici al giorno. In alcuni casi anche sedici. Senza turno di riposo. E a fine mese prendono 1.200 euro, di cui metà - appunto - in nero.

Le testimonianze sono così tante che risulta difficile non pensare ormai a una prassi consolidata. Di episodi da raccontare ne ha diversi Minodora Puni, 46enne rumena, chedal 2012 harifatto centinaia di stanze negli hotel tra Rimini e Riccione. «La prima volta che ho cominciato a lavorare in Italia sono stata assunta tramite un’agenzia internazionale direttamente in Romania. Circa 700 euro al mese, quindici ore al giorno per trenta giorni. Mi avrebbero dovuta pagare in valuta rumena». Usa il condizionale perché non ha ricevuto nemmeno quei 700 euro. Lasciata l’agenzia, ha lavorato per una cooperativa (italiana).

Non è andata meglio, nonostante avesse prestato servizio in un albergo a quattro stelle a Marina centro, il cuore turistico di Rimini. «Mi è stato affidato un piano, diciassette camere in tutto. Dovevo rifarne tre all’ora per avere i sei euro e cinquanta.Assunta con un contratto a chiamata, da marzo a novembre. Sette ore al giorno per un totale massimo di ottocento al mese. Per riuscire a fare in tempo spesso tornavo a casa con il panino che mi ero portata dietro per il pranzo».
Eppure quelle camere che puliva per due ore arrivavano a costare trecento euro a notte. Ha pensato quindi di lasciare e affidarsi alla gestione familiare di un piccolo albergo, trenta camere in tutto. Un altro inferno: «Lavoravo mediamente dodici ore al giorno, facevo sia le camere sia la cucina. Ed eravamo costretti a mangiare gli avanzi dei clienti perché per il personale non hanno mai cucinato nulla». Conclude Minodora: «Tutti lavorano praticamente in queste condizioni, chi rifiuta sta a casa. Non sono casi eccezionali, è la normalità. Si accetta perché non si ha scelta».

ONLUS CON LA GABELLA

L
’estate pesa anche su Alessandro. Durante l’anno scolastico è un docente precario di 30 anni. Da giugno si trasforma in animatore di un centro estivo. Qui migliaia di minorenni vengono seguiti dalle 8 del mattino alle 6 del pomeriggio, un sostituto del tempo pieno della scuola per chi non può seguire i propri figli. Fino a dieci anni fa la gestione passava attraverso i bandi comunali. Non c’era però una formula univoca: alcuni facevano pagare alle famiglie oppure il municipio copriva la maggior parte del costo
.

Fino all’arrivo della spending review: quando quasi tutti gli enti locali hanno virato verso l’affido diretto dei centri estivi. Così Alessandro adesso ha per datori di lavoro delle onlus, società sportive o parrocchie, che incassano contributi pubblici ma pagano i propri collaboratori poco, incassando la gabella. E in nero: «Prendo 700 euro al mese», racconta Alessandro: «Totalmente in nero, anche se lavoriamo fino a dieci ore al giorno con la responsabilità di decine bambini, che spesso accompagniamo anche in piscina o in gita».

FATTORINI NO-STOP

Mario ha cinquant’anni, è italiano e macina decine di chilometri: fino a sessanta a notte, da una parte all’altra di Roma. «Mi è capitato di non avere abbastanza soldi e andare in giro lo stesso senza assicurazione», confessa. Mario è uno di quelle migliaia di spedizionieri-lampo richiesti dal boom di startup nel settore della ristorazione. Pizza, sushi, panini e cocktail a domicilio.

L’innovazione è nel servizio: basta un clic per completare la richiesta. Ma sul lavoro i rischi di chi attraversa la città per portare i piatti sono rimasti gli stessi. Mario prende le pizze e le porta all’indirizzo segnato. A cottimo: più viaggia, più incassa. Il suo incubo sono le buche. E dopo le tre di notte c’è da tenere a bada il sonno. Perché di giorno Mario ha un altro lavoro - sempre in nero, sempre saltuario, sempre a cottimo. Quando è fortunato e riesce a fare il bis, incassa 80 euro. Per un giorno intero, no-stop.

LA BEFFA DEL CAPITALE UMANO

Z. C. era anche lui uno stacanovista del volante. Ma impegnato in viaggi più lunghi. Troppo lunghi. Autista originario della Bulgaria per una grossa società di trasporti e logistica con depositi dall’Abruzzo alla Lombardia, consegnava materie prime per gelaterie, pizzerie e ristoranti. Con carico e scarico compreso nel viaggio, la parte più faticosa. Un giorno, mentre è impegnato in una consegna, si accascia in cabina. Infarto fulminante. A soli 45 anni muore.

La famiglia si rivolge a un legale e viene ricostruito il suo mestiere da incubo: per il primo anno di lavoro vengono registrate 865 ore di straordinario “ufficiale” in busta paga. E poi per gli anni successivi si oscilla da un minimo di 255 ore ad un picco di 868, il che significa 72 giornate di extra-lavoro all’anno. In soli otto anni di super-lavoro si arriva a quota 4.148 ore. Mentre l’Inps fissa a 48 la quota massima settimanale a bordo di furgoni e camion si arriva tranquillamente a 70-75.

La società di trasporti, citata in causa per i turni massacranti che potrebbero aver portato alla morte di Z. C., ha una diversa visione dei fatti: «Gli straordinari sono di fatto periodi di riposo o attesa tra un carico e l’altro». Ma l’avvocato di famiglia ha raccolto tante testimonianze, tutte uguali: il personale era sottodimensionato e gli orari reali erano dalle 6 del mattino alle 9 di sera. «La prova del decesso non è facile», sottolinea il legale: «E in questi casi di palese sfruttamento la conciliazione è beffarda: il cosiddetto “capitale umano”, per calcolare il risarcimento, si è ridotto ad un quinto di quello inizialmente richiesto. Ma non c’erano altre strade possibili. E i familiari hanno accettato».

WEEK END MAGAZINE

$
0
0

SOLO ET PENSOSO



Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l'arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d'alegrezza spenti
di fuor si legge com'io dentro avampi:

sí ch'io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch'è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch'Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co llui.

(Francesco Petrarca)

A SCUOLA DI COMANDO

$
0
0

da   http://ilmanifesto.info/a-scuola-di-comando/

"Buona Scuola". La scuola è stato uno dei terreni sui quali si è più chiaramente manifestata l’idea renziana che il governo è comando, che si deve sottrarre ai lacci e lacciuoli di una concertazione antitetica rispetto a un decisionismo veloce ed efficiente

E venne il giorno dell’ira. Migliaia di docenti hanno manifestato per protestare contro la «buona» scuola. Abbiamo ascoltato storie di famiglie frantumate o di figli abbandonati alla cura di nonni esausti, angosciosi interrogativi su come far quadrare i conti con un stipendio già magro a fronte delle maggiori spese di una sistemazione lontana. Un disastro annunciato. La risposta del sottosegretario Faraone è stata degna di una caserma: ottimo e abbondante. L’algoritmo non si tocca, gli errori – se ci sono – rimangono marginali, il governo ha tolto dalla precarietà tantissimi docenti, che avranno finalmente un contratto a tempo indeterminato. Quel che accade – inclusa la risposta del sottosegretario – è invece un buon esempio di quanto sia fragile la concezione del governare che circola nelle ovattate stanze di palazzo Chigi, e quanto siano inadeguate le soluzioni legislative che ne derivano.
Al sottosegretario intanto ci permettiamo di consigliare prudenza. Quando si hanno masse di docenti arrabbiati che protestano senza farsi intimidire, la risposta che tutto va bene può solo mostrarsi sorda e arrogante. Di fronte a una transumanza di professori di dimensioni inusitate, un errore da qualche parte deve esserci: o negli algoritmi ministeriali, o nella loro applicazione, o nell’impianto stesso della legge. Possiamo scegliere. E l’argomento della cessazione del precariato non bilancia il fallimento. Tra i manifestanti non mancavano gli ex-precari, e la ragione è semplice. È forse una soluzione dare al precario un contratto a tempo indeterminato, ma ricattandolo con la condizione di uno spostamento di centinaia di chilometri? Perché si trovi poi comunque esposto in prospettiva al potere discrezionale di un preside sceriffo?
Qui troviamo forse il punto di maggiore fragilità ad un tempo dell’impianto legislativo e della concezione del governare che impera a palazzo Chigi. La legge 107/2015 porta nella scuola la concezione dell’uomo solo al comando, tradotta nell’ampiezza del potere discrezionale del dirigente scolastico. Un connotato testardamente difeso anche da ultimo dal ministero, nella definizione dei requisiti e dei titoli valutabili per la chiamata dei docenti. Contro il parere e le proposte dei sindacati, l’elenco è diventato lunghissimo, tanto da lasciare di fatto al dirigente le mani libere nella scelta. Ma, oltre ad essere occasione – come ampiamente detto in passato – di clientele e malcostume, se non di corruzione in senso proprio, questo significa che tutte le tensioni di oggi cadono sulle spalle del dirigente. Qualunque cosa faccia, sbaglierà. E come sarà possibile alla fine garantire il buon andamento e l’efficienza del servizio con una parte non marginale del corpo docente che cercherà in ogni modo di sottrarsi alle difficoltà familiari e di vita derivanti dalla forzata deportazione? Con l’utilizzazione anzitutto di ogni possibile permesso, aspettativa, assenza giustificata per qualsivoglia motivo? E con una guerriglia infinita nelle sedi giudiziarie?
Sono gli esiti perversi di una concezione malata del governare. La scuola è stato uno dei terreni sui quali si è più chiaramente manifestata l’idea che il governo è comando, che si deve sottrarre ai lacci e lacciuoli di una concertazione antitetica rispetto a un decisionismo veloce ed efficiente. A nulla hanno valso proteste e manifestazioni. Il mondo della scuola è stato sostanzialmente messo ai margini nelle decisioni che hanno portato alla legge 107/2015. E lo stesso è accaduto anche nella fase dell’attuazione.
Questo ci dice quanto fosse fondata l’iniziativa referendaria sulla legge 107, e quanto invece sbagliata la timidezza di una parte della scuola e del sindacato che non ne ha colto l’importanza. Quando il parlamento è poco rappresentativo e sordo, e il governo non avverte la necessità di un confronto democratico, la via referendaria può ben essere la sola che rimane. La speranza di una correzione per via contrattuale non poteva che essere largamente illusoria.
Vedremo tra qualche giorno se le firme raccolte sui quesiti abrogativi di punti nodali della legge 107 – a partire dal preside-sceriffo – sono sufficienti, e speriamo vivamente che lo siano. E ci auguriamo che il mondo della scuola capisca come sia ora decisivo anche il No nel voto sul referendum costituzionale. È ben vero che non riguarda direttamente la scuola. Ma è l’unico strumento utile a determinare un clima politico nuovo, più aperto all’ascolto e disponibile alle ragioni di una scuola diversa da quella che il governo ha dimostrato di volere.
Infine, una considerazione. L’istruzione a tutti i livelli ci vede in basso nelle classifiche internazionali, e questo non può dirsi dovuto soltanto al governo in carica. Ma se questa «buona» scuola è davvero la migliore che possiamo oggi aspettarci, prepariamoci a vivere in un paese di analfabeti.
Viewing all 2361 articles
Browse latest View live