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L'ACCOGLIENZA CHE PUZZA

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da http://www.senzasoste.it/locale/l-accoglienza-ai-rifugiati-nel-paese-di-toto

profughi ciboCosì la stampa del gennaio 2015 dava notizia dello scandalo delle strutture di “accoglienza”: “Quasi trecento rom sono ospitati in condizioni disumane all’interno di una struttura gestita dalla cooperativa sociale “InOpera” a Roma, in un edificio posto vicino al Grande raccordo anulare. Ironicamente il centro si chiama “Best House”, casa migliore, anche se l’alloggio offerto alle persone sgombrate dai campi è tragico. 288 persone di etnia rom, metà bambini, vivono in un edificio degradato, un capannone industriale riadattato, con stanze senza finestre dove dimorano sette persone in media. I bagni sono in comune e non sono praticamente mai puliti, con wc senza chiavi, docce senza protezione e porte sfondate”. (1)
A quanto si legge, nella “Best house” non si poteva cucinare, dopo le 23,00 non si poteva uscire e a nessuno era consentito ricevere visite. “Chi non rispetta le regole è fuori; lo è anche chi denuncia cosa accade all’interno. L’edificio è blindato per evitare di far trapelare al di fuori la condizione di vita di nuclei stipati in “loculi” di 12 mq dove non si respira e l’unica luce che si vede è quella prodotta dai neon” così come fu accertato dal presidente della Commissione Diritti Umani del Senato Luigi Manconi.
Ma solo nel 2014 questa specie di lager “era costato circa 2,8 milioni di euro, pari a una spesa di 650 euro al mese per ogni ospite, mentre per una singola famiglia, dalla nascita del centro, il Comune aveva speso oltre 150 mila euro. Il 93% delle risorse è stato usato per la sola gestione della struttura mentre nulla è stato destinato all’inclusione sociale. Dei quasi 3 milioni di euro non un centesimo è andato ai rom” (2).
La struttura era nata nell’estate 2012 con una determinazione a firma del dirigente comunale Angelo Scozzafava, implicato nello scandalo Mafia capitale come uno dei referenti di Buzzi e Carminati e accusato di associazione mafiosa e corruzione aggravata (3). Buzzi, lo ricordiamo, in una delle intercettazioni che dettero via l’inchiesta parlava dei rom e degli immigrati come delle “galline dalle uova d’oro”, un affare più lucroso dello spaccio di droga.
Nel giugno del 2015 l’Autorità Nazionale Anticorruzione ha chiesto al Comune di Roma una giustificazione circa i reiterati affidamenti diretti di breve durata alla cooperativa “InOpera” nonché circa la mancanza di una opportuna pubblicazione a livello comunitario degli stessi affidamenti, contravvenendo così al principio di trasparenza». L’ANAC parlava di «un pressoché generalizzato ricorso a procedure sottratte all’evidenza pubblica, in alcuni casi addirittura spregiudicato: un lucido escamotage verso un percorso di distorsioni anche di carattere corruttivo» (4).
Ma non basta: nel febbraio 2016 vengono chiuse su iniziativa dei NAS sette case di accoglienza in Irpinia, alcune delle quali gestite dalla cooperativa “InOpera”, che Repubblica definisce come “coinvolta in Mafia Capitale”. Il quotidiano parla di: “Derrate alimentari in condizioni di pessima conservazione; ambienti con seri problemi strutturali e di sicurezza; carenze anche vistose dal punto di vista igienico-sanitario: questa la situazione che i carabinieri dei Nas di Salerno, insieme ai militari delle Compagnie di Avellino e Baiano hanno riscontrato nel blitz, scattato in mattinata, che ha portato al sequestro di sette centri che in provincia di Avellino ospitano gli immigrati richiedenti asilo. L'inchiesta, coordinata dalla procura del capoluogo irpino, ha fatto anche emergere gravi inadempienze dei titolari delle cooperative, indagati insieme a fornitori di beni e servizi, rispetto al capitolato d'appalto previsto dalla prefettura di Avellino (5).
La cooperativa “InOpera” ha in appalto la gestione della struttura per i rifugiati nota come Sant’Anna, che si trova in Venezia. Almeno fino ad oggi perchè nei prossimi giorni subentrerà un'altra società. La cooperativa aveva vinto un bando da 840mila euro nell’estate del 2014, superando vari soggetti locali (ARCI, CESDI, Caritas, Misericordia ecc.) che intendevano proporsi come gestori, ma che non avevano una struttura di appoggio. Mentre “InOpera” aveva potuto contare sul Sant’Anna, evidentemente in accordo con gli enti religiosi proprietari che dunque devono essere chiamati anche loro a rispondere di quanto sta accadendo. “Vergognoso arricchirsi sui profughi” aveva dichiarato il presidente dell’ARCI.
Quest’oggi, gli ospiti della struttura hanno protestato vibratamente per la mancata corresponsione dei 2,50 euro giornalieri che gli spettano per le piccole spese quotidiane: gli unici soldi che vanno a loro dei famosi 35-40 euro al giorno che tanto scandalizzano i leghisti e compagnia cantante. Una sottrazione che avviene da così tanto tempo che il credito di ognuno è ormai arrivato oltre i cento euro. Ma c’era anche un altro motivo della protesta: il fatto che l’acqua è stata staccata perché il gestore non ha pagato neanche la bolletta. A Livorno forse qualcuno non c’è abituato, tanto è vero che nessuno ha aperto bocca quando la città è rimasta a secco qualche anno fa.
Ma comunque, il succo è che quei famosi 35-40 euro non vanno agli immigrati, ma a cooperative di italiani che il più delle volte se li mettono in tasca senza neanche provvedere alle spese per l’ordinaria amministrazione delle strutture.
Non è stato un fulmine a ciel sereno, perché proteste dello stesso tenore erano state inscenate dagli ospiti della stessa struttura già in passato. Ma né queste proteste, né le preoccupanti notizie che abbiamo riportato, avevano finora portato alla revoca da parte delle prefettura dell’incarico alla cooperativa romana.
Una brutta storia, che fa emergere tutta l’inadeguatezza del sistema di accoglienza ai profughi e richiedenti asilo messo in piedi dal governo e dalle prefetture. Le persone vengono inviate nelle varie destinazioni senza alcuna consultazione con le comunità locali, senza concordare le sedi delle strutture di accoglienza, senza neanche dare modo all’associazionismo o ai servizi socio-sanitari di predisporre un’assistenza adeguata.
E spesso, come nel caso del Sant’Anna, sul territorio non resta neanche una parte dei fondi governativi per l’emergenza.
Le strutture spesso vengono ricavate da vecchi alberghi in disuso, che società di comodo trasformano frettolosamente da ruderi fatiscenti in case “di accoglienza”. Alcune di queste, a quanto ci risulta, non hanno neanche il riscaldamento e ci sarà da vedere cosa succederà ai primi freddi invernali. Altrove non c’è la rete e per chi ha solo il telefono per rimanere in contatto con la famiglia non è per niente un lusso come per i maniaci dei selfie.
Ma non è soltanto un problema di strutture: i richiedenti asilo non possono lavorare, e di conseguenza vengono trattati da vagabondi. Se lavorassero, direbbero che rubano il lavoro agli italiani. Nessuno li vuole ma il paradosso è che neppure loro vogliono stare qua: per loro l’Italia è solo un ponte per arrivare in Europa, in Germania, in Francia, destinazioni sempre più comuni anche per i giovani italiani. Tutti se ne vogliono andare, tanto è vero che nelle ultime statistiche il flusso degli immigrati, fra ingressi e uscite, si è praticamente ridotto a zero. Ma nell’incredibile dibattito politico del paese di Totò, accade di sentir parlare 23 ore al giorno dell’emergenza immigrazione.
E non c’è canale televisivo che ad ogni notizia sull’immigrazione non aggiunga l’opinione di Salvini, come se fosse chissà quale antropologo o sociologo. In pratica gli stessi media che da una parte si dichiarano a favore dell’accoglienza hanno pensato bene di sfruttare la situazione per creare un’opinione pubblica xenofoba e far dimenticare i problemi reali che stanno alla base anche di questo fenomeno. Compreso il fatto che i bilanci degli stati sono quotidiatamente tagliati per scuola, sanità e assistenza, e quindi anche quelli per l'integrazione lasciando il tutto al caso.
E la questione dei rifugiati rischia di diventare davvero ingestibile: se continua la strategia del “caos controllato” (ma neanche tanto controllato) in Medio Oriente e la distruzione dell’ambiente con la creazione di centinaia di milioni di “rifugiati climatici”, il flusso dei profughi potrebbe stabilizzarsi su livelli molto alti e provocare un terremoto sociale e politico in Europa, dove il peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari potrebbe innescare (e in parte lo sta già facendo) un processo di individuazione di un capro espiatorio e di fascistizzazione di massa. Perchè è chiaro che oggi il tema dell'immigrazione è il miglior scudo per un sistema che è ormai un malato terminale, ma che grazie a questo scudo concentra rabbia e sfoghi di una parte di popolazione che non protesta mai per nulla, come da tradizione di una buona parte di abitanti di questa penisola.
Noi lo abbiamo scritto ormai molto tempo fa: non crediamo sia una soluzione trasferire tutti gli abitanti della Siria o dell’Iraq in Norvegia o in Irlanda. La soluzione è la fine della politica neocolonialista di rapina delle risorse naturali e un grande piano per il sud del mondo che porterebbe reddito e benessere sia ai paesi ricchi che a quelli poveri. Il resto sono chiacchiere da bar.
redazione, 5 settembre 2016
NOTE
(1) Fonte: www.gadlerner.it, 27.01.2015
(2) (3) Fonte: Il Fatto Quotidiano 29.11.2015
(5) Repubblica.it, 13 febbraio 2016

SE QUESTO E' UN OPERAIO...

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da http://ilmanifesto.info/se-questo-e-un-operaio/


di Moni Ovadia

Pomigliano. Il dramma dimenticato dei lavoratori licenziati da Marchionne dopo le proteste per le condizioni di lavoro in fabbrica

Risultati immagini per suicidio marchionne

La vicenda dei lavoratori della Fca (già Fiat) di Pomigliano-Nola che si sono suicidati o hanno commesso gesti estremi a causa del perdurare di condizioni di lavoro insostenibili sul piano materiale e psicologico è nota ai lettori di questo giornale, così come è conosciuto «l’happening» che ha messo in scena la rappresentazione del suicidio dell’Ad Sergio Marchionne per «estremo rimorso», azione di provocazione e di satira atta ad evocare i gesti disperati dei compagni di lavoro. Questa rappresentazione ha dato il motivo all’azienda di licenziare gli operai che hanno inscenato il suicidio in effigie di Sergio Marchionne.
I lavoratori licenziati si sono rivolti al tribunale del lavoro per per fare revocare il provvedimento che a mio parere ha tutti i tratti della rappresaglia. Il tribunale del lavoro, sia in primo grado che nel ricorso di competenza, ha dato ragione all’Azienda con questa fattispecie di motivazione: «un intollerabile incitamento alla violenza (…)una palese violazione dei più elementari doveri discendenti dal rapporto di lavoro gravissimo nocumento morale all’azienda e al suo vertice societario, da ledere irreversibilmente (sic!) il vincolo di fiducia sotteso al rapporto di lavoro».
In seguito, nel riesame del ricorso, il tribunale di Nola ha confermato il primo giudizio. In questa motivazione si legge che le manifestazioni messe in atto: «hanno travalicato i limiti del diritto di critica e si sono tradotte in azioni recanti un grave pregiudizio all’onore e alla reputazione della società resistente, arrecando alla stessa, in ragione della diffusione mediatica che esse hanno ricevuto, anche un grave nocumento all’immagine».
Ritengo che queste parole – dato che le sentenze non si discutono – meritino un’analisi spassionata per trarne un ammaestramento non solo sullo specifico dell’accaduto ma anche di carattere generale e persino universale. L’azienda ritiene che l’azione drammatica della messa in scena di un suicidio in effigie rechi nocumento all’immagine, pregiudizio all’onore, alla reputazione e nuovamente nocumento morale.
Il suicidio reale, carnale, tragico e «violento» di tre esseri umani invece non recherebbe, a quanto pare, danno di sorta al buon nome dell’azienda. Forse i vertici ritengono essere quei suicidi indipendenti dalle condizioni lavoro, dalla cassa integrazione, dallo stillicidio dell’erosione continua dei diritti sociali, dal peggioramento inarrestabile delle prospettive di vita, forse si tratta di un’epidemia suicidaria dovuta all’insostenibile pressione del benessere come in Svezia, visto che il numero di suicidi nel reparto di Nola di quella leggendaria azienda ex vanto dell’italico genio ex italico, pare essere di cento volte superiore alla media nazionale.
Il capo della Fca, imprenditore, pare non cogliere il senso di un suicidio reale quando è causato da disperanti e umilianti condizioni di vita. Mi permetto di suggerirgliene uno servendomi del linguaggio usato da un suo collega meno fortunato di lui che si è tolto la vita a seguito dei morsi della crisi che lo ha rovinato. Ai familiari ha lasciato uno scritto lapidario per spiegare le ragioni del suo gesto: “la dignità è più importante della vita!”. Dovrebbe essere semplice da capire, la vita senza dignità cessa di essere tale per diventare sopravvivenza.
Da noi in Italia non c’è stato un dibattito serrato, profondo e diffuso sul concetto di dignità come è accaduto invece in Germania a partire dalla redazione della Costituzione pensata e ratificata all’indomani della micidiale esperienza nazista. Il primo articolo di quella carta recita: «Die Würde des Menschen ist unantastbar. Sie zu achten und zu schützen ist Verpflichtung aller staatlichen Gewalt». (La dignità umana è intangibile. Rispettarla e proteggerla è obbligo di ogni potere statale). Ecco quale è il primo è fondante merito della giustizia sociale come del resto proclama anche il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
L’attacco portato allo statuto dei lavoratori è un attacco all’idea stessa di dignità del lavoratore nel lavoro e nella vita. È da qui che è necessario ripartire chiedendoci «se questo è un operaio», che è privato dei diritti, che vive sotto ricatto, a cui non è concesso di progettare la propria esistenza e di costruire un futuro migliore per i propri figli, che non può neppure protestare con il legittimo linguaggio della provocazione concesso ad ogni disegnatore satirico, a cui per non perdere il posto si chiede di accettare la condanna alla disperazione senza alzare la testa, come l’ultimo dei servi.

BRASILE, LA RAGIONE E LA STORIA

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da http://www.senzasoste.it/le-nostre-traduzioni/brasile-la-ragione-e-la-storia
diretas
tratto da pagina12.com
Il carattere anomalo dell’impeachment contro Dilma Rousseff -anomalo perché il fatto di aver rispettato ritualmente i passi costituzionali non è riuscito a occultare il dato fondamentale, cioè l’assenza del delitto- non deve impedirci di analizzare gli errori che lo hanno reso possibile, non per colpire il pugile già al tappeto ma per cercare di salvare il salvabile in un processo che merita attenzione.
E in questo senso la prima cosa che occorre mettere in evidenza è il cambiamento di contesto. Com’è noto, a partire dal 2002-2003 l’America Latina ha vissuto un decennio di alta crescita economica che in alcuni Paesi ha raggiunto tassi cinesi (anche se si dovrebbe rivedere questo paragone perché ormai la Cina non cresce più a tassi cinesi). Il Brasile, anche se è cresciuto a un ritmo più lento della media regionale, è cresciuto in modo sostenuto finché, a un certo momento tra il 2011 e il 2012, si è fermato. La risposta di Dilma a questo cambio di direzione del vento è stata la peggiore tra tutte quelle possibili: tradendo le sue promesse elettorali, ha imposto un aggiustamento ortodosso non molto diverso da quello che proponeva l’opposizione di destra durante la campagna elettorale, incaricando di questo compito il banchiere ultraliberale Joaquim Levy al quale dopo ha tolto l’appoggio, a tal punto che alla fine rifiutava di farsi fotografare con lui.
Con tutte le variabili macroeconomiche -crescita, inflazione, disoccupazione, deficit- allineate contro, si è aperta l’opportunità di una convergenza tra il potere economico, la giustizia e i partiti di destra, tra i quali sopravvivono formazioni clerico-fasciste che farebbero arrossire anche Cecilia Pando [esponente dell’estrema destra argentina, ndt]. I media sono stati decisivi ma non determinanti: a dire il vero lo stesso schieramento mediatico egemonizzato da Rete Globo aveva provato senza successo un’accusa simile contro Lula a proposito dello scandalo del “mensalão” [mazzette ndt] nel 2005. L’offensiva, costruita intorno a una serie di accuse abbastanza fondate che coinvolgevano metà della classe politica, compresa la prima linea del PT ma esclusa signicativamente la stessa Dilma, aveva accentuato la fragilità del governo.
Di fronte a questo scenario molto impegnativo che non si aspettava, la presidentessa non ha trovato una via d’uscita: da una parte ha rifiutato di negoziare con i poteri reali e i loro rappresentanti parlamentari la formazione di una coalizione che le permettesse, anche volgendo le spalle alla società, di governare fino al termine del mandato con politiche di stabilizzazione e aggiustamento, come aveva fatto Fernando Henrique Cardoso nel suo secondo governo. Ma non si è attivata neanche per convocare un plebiscito che desse impulso alla riforma politica o le elezioni anticipate. Dotata di una qualità etica (o di una rigidità tattica) diversa da quella di Lula, non ha voluto procedere sulla strada insaponata di un patto con gli impresentabili del Congresso né si è sentita sufficientemente sicura da affrontare il salto nel vuoto di un referendum che ha recentemente evocato quando non era più nelle sue prerogative convocare. Alla fine Dilma è rimasta semi-paralizzata, governando nel vuoto.
Perché oltretutto, e qui la responsabilità è più di Lula che sua, il PT aveva prodotto un sorprendente processo di smobilitazione della sua base politica. Provvisto di alcuni dei migliori quadri politici del Brasile, una dote di iscritti che a un certo momento ha raggiunto i due milioni e un leader fuoriserie, il PT è arrivato al governo sulla spinta di una epopea storica che risale agli scioperi contro la dittatura nell’ABC paulista [una zona industriale dello Stato di San Paolo, ndt] e in poco tempo, quasi senza rendersene conto, si è intiepidito. Rilassato comodamente nell’ovatta dello Stato brasiliano, ha perso tensione e senso, cosa che spiega la mistura di apatia e astio con cui è stata accolta la notizia dell’impeachment: per quanto una parte della società brasiliana fosse contro la rimozione di Dilma, pochi erano disposti a fare qualcosa per impedirlo.
Su questo aspetto, il contrasto con il Venezuela è illuminante. A differenza del PT e del Frente Amplio uruguagio, nati in un contesto di lotta contro le dittature, e a differenza anche del MAS boliviano, una costruzione politica per la quale sono occorsi decenni e scaturita dal sindacalismo cocalero del Chapare, l’arrivo al potere di Hugo Chávez è stato prodotto di un incidente, diremmo quasi di una carambola della storia, come quella di Rafael Correa e in un certo senso anche quella di Néstor Kirchner. In sostanza un paracadutista, Chávez è atterrato inaspettatamente a Palazzo Miraflores circondato solo da un pugno di seguaci inesperti e forse per questo si è dato la pena di costruire, inevitabilmente dall’alto, una base militante capace di sostenerlo nei momenti difficili: probabilmente è l’insistenza ostinata di questo zoccolo duro inamovibile ciò che spiega come il chavismo riesca a mantenersi in piedi nonostante l’“ora cade” che viene ripetuto da anni (rimane il dubbio se l’altra faccia di questa base incondizionata, il costo effettivo della sua costruzione e sostentamento, non siano proprio alcuni dei tratti più criticabili del regime venezuelano: le derive autoritarie, la corruzione sfrenata, la deistituzionalizzazione rampante; in altre parole, fino a che punto i tratti negativi del chavismo sono deviazioni correggibili o piuttosto la condizione necessaria per la sua sopravvivenza?).
Però parlavamo del Brasile e del processo di smobilitazione del PT, che in parte spiega la sua caduta e che a sua volta è il risultato del cambiamento nella conformazione del suo elettorato. In realtà, dalla sua fondazione negli anni ‘80 all’arrivo di Lula alla presidenza nel 2003, la base sociale del PT era composta da operai qualificati e dalle classi medie progressiste dei grandi centri urbani. Fondato sullo stile del laburismo britannico, il PT è nato come un tipico partito delle masse industriali radicato soprattutto negli stati moderni del sud e del centro, che perdeva sistematicamente nelle zone africanizzate del nordest, dove venivano rieletti senza difficoltà vecchi caudillos di destra che qui chiameremmo “popolar-conservatori”. Questa equazione si invertì durante la prima presidenza di Lula, quando lo scandalo del mensalão provocò l’allontanamento di parte dell’elettorato originario che tuttavia fu compensato dal crescente appoggio del sottoproletariato nordestino, beneficiato dal favoloso processo di inclusione promosso dal governo. Siccome tra la prima vittoria presidenziale di Lula nel 2002 e la sua rielezione nel 2006 la percentuale di voti fu praticamente la stessa, questo movimento tellurico dell’elettorato passò relativamente inosservato finché il politologo André Singer lo individuò e lo definì come il passaggio dal “petismo” al “lulismo”.
Dilma, che è lulista ma non è Lula, nel senso che fu eletta e rieletta con i voti dei settori più poveri della società ma gli manca la storia di vita e il carisma del suo padrino, ha mantenuto il modello dell’inclusione tramite consumo avviato da Lula, senza preoccuparsi di far crescere l’attivismo politico, costruire potere popolare o, diciamo, dare potere alle masse. Si è trovata con un partito smobilitato, che ha coltivato poco e che quando è arrivato il momento cruciale, non aveva l’energia né le risorse per difenderla.
Ma il modo in cui è caduta Dilma si spiega anche con una tradizione brasiliana che risale all’inizio della sua storia nazionale. A differenza delle guerre sanguinose che hanno segnato l’indipendenza dell’America spagnola, il Brasile si separò dal Portogallo per una decisione politica di Pedro I, il principe ereditario, accettata senza resistenza da suo padre, e più tardi, nel 1889, diventò repubblica mediante una disposizione altrettanto amministrativa (questo ha fatto sì che la storia brasiliana sia una storia sprovvista di eroi e statue, senza un Bolívar o un San Martín da venerare). Allo stesso modo, la versione brasiliana del populismo, il varguismo, fu un movimento redistributivo e inclusivo ma nel quale la componente della mobilitazione era notevolmente attenuata (diciamo un peronismo senza 17 ottobre). Molto più tardi, l’ebollizione degli anni ‘60 creò un movimento guerrigliero entusiasta ma disperso e senza forza, almeno in confronto con Argentina, Uruguay o Cile, e poi la dittatura, anche se naturalmente torturò e uccise, non creò un sistema di campi di concentramento in stile argentino e permise perfino il funzionamento controllato del Congresso, che non fu mai chiuso. Anche il recupero della democrazia avvenne in modo negoziato, “sicuro”, secondo la famosa definizione di Geisel, il generale che la iniziò, a tal punto che il primo presidente democratico, Tancredo Neves, non fu eletto con un voto diretto ma mediante il vecchio sistema di collegi elettorali creato dai militari.
Quello che voglio dire con questo è che la storia brasiliana è essenzialmente una storia di patti tra élites, che sono quelle che governano realmente il Brasile, diversamente da quello che succede in ogni altro Paese della regione salvo quelli del Centroamerica. Gli effetti di questa tradizione sono paradossali: se da una parte ha permesso al Brasile di evitare “picchi di sofferenza” come quelli registrati in Argentina (le lotte tra unitari e federali, la dittatura, le Malvine, il 2001), dall’altro ha gravemente limitato l‘incidenza della popolazione nelle decisioni nazionali, come ha confermato la passività sociale della scorsa settimana. La significativa assenza in Brasile di una Plaza de Mayo, questo centro simbolico della politica argentina dove la gente marcia periodicamente per festeggiare o abbattere governi, non risponde tanto a una questione urbanistica ma di storia politica. E anche, chiaramente, alla decisione di Kubitschek di spostare la capitale in mezzo alla foresta, esplicabile con la strategia sviluppista di portare la civiltà nel deserto ma anche con l’intenzione di allontanare il centro delle decisioni politiche dalle masse che abitano i grandi conglomerati urbani.
Concludiamo quindi rilevando che la rimozione di Dilma, e il modo sordo, quasi senza rumore, con il quale è stata sloggiata dal potere, si spiega con l’offensiva senza scrupoli della destra e con la forma di costruzione politica scelta dal PT ma anche con una tradizione storica tipicamente brasiliana. La caduta di Dilma conferma un modello e sottolinea una cultura politica. E apre una nuova epoca in Sudamerica, che negli ultimi tempi stiamo iniziando a decifrare. I suoi errori, che ora appaiono evidenti, non dovrebbero oscurare il fatto che il suo governo come quelli di Lula prima, sono riusciti a combinare, come mai dopo il varguismo, stabilità economica, libertà politica e inclusione sociale, tre condizioni che sembra difficile possano tornare a coniugarsi nel prossimo futuro.
(*) José Natanson è direttore de Le Monde Diplomatique, edizione Cono Sud
traduzione per Senza Soste di Nello Gradirà

GRILLO, IL MEDIATORE CHE DECIDE

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5 Stelle. «Virginia va avanti, noi vigileremo». Grillo sigla la tregua con una mediazione che premia la sindaca. Di Maio fa mea culpa sul caso Muraro e boccia le Olimpiadi nella capitale


Serrare le file. Fare muro intorno alla sindaca di Roma che, piaccia o non piaccia ad alcuni dirigenti, del Movimento 5 Stelle è il simbolo. Virginia Raggi, che – urla Beppe Grillo – «in tre mesi ha fatto risparmiare 90 milioni semplicemente facendo pagare i più ricchi. Raggi andrà avanti e noi vigileremo». Della vigilanza, forse, fa parte anche la decisione di sciogliere il nodo delle Olimpiadi a Roma. Se ne incarica Luigi Di Maio: «Non si faranno».
Così Beppe Grillo chiude la partita certificando la vittoria piena della prima cittadina romana: E poi: «Voglio ringraziare il Direttorio, quelli che sono stati vicini a Viriginia». Gli attacchi? «E’ il sistema che si compatta contro di noi, ma sono dilettanti della comunicazione. Mi preoccuperò davvero quando cominceranno a dire che abbiamo ragione».
Sul palco a Nettuno, per la conclusione del tour di Alessandro Di Battista per il No al referendum costituzionale, c’è l’intero stato maggiore a cinque stelle. Bisogna dare un segnale di massima unità, non c’è spazio per i distinguo. Infatti subito dopo il capo prende la parola Luigi Di Maio, sotto accusa per non aver comunicato al resto del Direttorio la notizia dell’indagine a carico dell’assessora all’Ambiente Paola Muraro. Si scusa, ammette l’errore: «Ho sottovalutato, devo spiegazioni». Ma non lo fa col tono di chi si stia umiliando. Riprende alla lettera le argomentazioni della sindaca di Roma: «Il reato per cui è indagata la Muraro può anche risolversi con una multa. Non abbiamo ancora le carte per saperlo». E comunque: «Dov’era la stampa quando c’era Mafia Capitale? Da quando governiamo noi sono diventati tutti Sherlock Holmes».
Si conclude così, con un epilogo prevedibilissimo sin da quando sul blog di Grillo era apparso il post con cui la Raggi ripeteva che per ora Paola Muraro non si dimetterà, una giornata che lo stesso Beppe definisce «difficile». Non era certo questa la conclusione che aveva chiesto il Direttorio martedì notte, dopo l’interminabile seduta di autocoscienza prolungatasi per oltre 8 ore. Non era questo che reclamavano le dirigenti più battagliere e inviperite, come Roberta Lombardi, che mirava a una sorta di resa incondizionata, e Carla Ruocco.
Ma Roma non è Quarto e non è neppure Parma. Scomunicare la sindaca ad appena tre mesi dall’elezione vuol dire mettere seriamente a rischio la sopravvivenza stessa del Movimento. Quando arriva nel calderone incandescente della città eterna Grillo lo sa perfettamente, e lo sa altrettanto bene la diretta interessata. Per questo già nella notte ha deciso di non cedere e lo ha detto, in un colloquio telefonico notturno «intercettato» dal Fatto, a Luigi Di Maio.
«Siamo senza Ama e senza assessore. Io un’altra così non la trovo», dice Virginia Raggi. «O mi dite cosa fare o andiamo a casa, perché sui rifiuti io non so che fare. Muraro è l’unica che sa come funzionano queste cose». E allora? «Continuiamo a sostenere che dobbiamo prima vedere le carte. Prendiamo il tempo necessario. Mettiamo un’altra testa in Ama».
E’ un colloquio chiarificatore, proprio perché privato. La spiegazione di molte delle vicende di questi ultimi giorni è probabilmente proprio che la Giunta, arrivata al governo della città, ha scoperto che la situazione è ancora più difficile di quanto non pensasse. Proprio sul come muoversi in una situazione di fatto disperata i nervi sono saltati a più riprese.
Non c’è solo questo. Il braccio di ferro tra i dirigenti nazionali e locali decisi a imbrigliare la sindaca e lei anche più determinata a evitarlo ha giocato in questi giorni un ruolo essenziale. Quando decide di accogliere solo in parte la richiesta del Direttorio, la Raggi sta anche combattendo una battaglia personale per difendere la propria autonomia. Ma i due fronti, quello della oggettiva difficoltà in cui si trova chiunque voglia governare Roma e quello del bilanciamento dei poteri nel Movimento, sono intrecciati al punto che è impossibile dire dove inizi uno e finisca l’altro.Anche su questo, oltre che sulla sua assoluta intoccabilità in questo momento, ha puntato Virginia Raggi nella guerra di nervi di ieri.
Quando il Direttorio si riunisce con Grillo in persona, in località segreta tra Roma e Nettuno, per evitare il prevedibile assedio della stampa, la sindaca non c’è. Una nota informale fa sapere che «eventualmente» sarà il fondatore genovese a recarsi al Campidoglio. Lui però preferisce il telefono, e quando compone il numero per chiedere di «non dividere il Movimento» ha già deciso che l’unica strada aperta è chiudere la partita con una mediazione che premia la sindaca e non i suoi nemici.
La partita non è certo chiusa. Ma la difficilissima mano delle ultime 48 ore di passione se la è aggiudicata Virginia Raggi. Le difficoltà vere iniziano solo ora. Finita l’estate, che a Roma rappresenta sempre una pausa, i nodi della città arriveranno al pettine tutti insieme e l’M5S non può più permettersi di affrontare una sfida in cui si gioca tutto indebolendo la giunta romana per questioni di potere interne al Movimento.

WEEK END MAGAZINE

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LA MORTE DI UN IMPIEGATO

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Una magnifica sera un non meno magnifico usciere, Ivàn Dmitric' Cerviakòv, era seduto nella seconda fila di poltrone e seguiva col binocolo Le campane di Corneville. Guardava e si sentiva al colmo della beatitudine, ma a un tratto il suo viso fece una smorfia, gli occhi si stralunarono, il respiro gli si fermò... egli scostò dagli occhi il binocolo, si chinò e starnutì. Starnutire non è vietato ad alcuno e in nessun posto. Starnutiscono i contadini, i capi di polizia e a volte perfino i consiglieri. Tutti starnutiscono. Cerviakòv non si confuse per nulla, s'asciugò col fazzolettino e, da persona garbata, guardò intorno a sé per vedere se non aveva disturbato qualcuno col suo starnuto. Ma qui, sì, gli toccò confondersi. Vide che un vecchietto, seduto davanti a lui, nella prima fila di poltrone, stava asciugandosi accuratamente la calvizie e il collo col guanto e borbottava qualcosa. Nel vecchietto Cerviakòv riconobbe il generale civile Brizzalov, in servizio al dicastero delle comunicazioni.
«L'ho spruzzato! », pensò Cerviakòv. 'Non è il mio superiore, è un estraneo, ma tuttavia è seccante. Bisogna scusarsi».
Cerviakòv tossì, si sporse col busto in avanti e bisbigliò all'orecchio del generale:
- Scusate, eccellenza, vi ho spruzzato involontariamente...
- Non è nulla, non è nulla...
- Per amor di Dio, scusatemi. Io... non lo volevo!
- Ah, sedete, vi prego! Lasciatemi ascoltare!
Cerviakòv rimase impacciato, sorrise scioccamente e riprese a guardare la scena. Guardava, ma ormai la beatitudine era scomparsa. Cominciò a tormentarlo l'inquietudine. Nell'intervallo egli s'avvicinò a Brizzalov, passeggiò un poco accanto a lui e, vinta la timidezza, mormorò:
- Vi ho spruzzato, eccellenza... perdonate... io, vedete... non che volessi...
- Ah, smettetela... Io ho già dimenticato, e voi ci tornate sempre su! - disse il generale che mosse con impazienza il labbro inferiore.
«Ha dimenticato, e intanto ha la malignità negli occhi», pensò Cerviakòv, gettando occhiate sospettose al generale. «Non vuol nemmeno parlare. Bisognerebbe spiegargli che non desideravo affatto... che questa è una legge di natura, se no penserà ch'io volessi sputare. Se non lo penserà adesso, lo penserà poi! ...
Giunto a casa, Cerviakòv riferì alla moglie il suo atto incivile. La moglie, come a lui parve, prese l'accaduto con troppa leggerezza; ella si spaventò soltanto, ma poi, quando apprese che Brizzalov era un "estraneo", si tranquillizzò.
- Ma tuttavia passaci, scusati. -disse. -Penserà che tu non sappia comportarti in pubblico!
- Ecco, è proprio questo! Io mi sono scusato, ma lui si è comportato in un modo strano... una sola parola sensata non l'ha detta. E non c'era neppure tempo di discorrere.
Il giorno dopo Cerviakòv indossò la divisa di servizio nuova, si fece tagliare i capelli e andò da Brizzalov a spiegare. Entrato nella sala di ricevimento del generale, vide numerosi postulanti e in mezzo ad essi il generale in persona, che già aveva cominciato l'accettazione delle domande. Interrogati alcuni visitatori, il generale alzò gli occhi anche su Cerviakòv.

- Ieri all'arcadia, se rammentate, eccellenza, - prese a esporre l'usciere, - io starnutii e... involontariamente vi spruzzai... Scus...
- Che bazzecole... che desiderate? - domandò il generale rivolgendosi al postulante successivo.
«Non vuole parlare! », pensò Cerviakòv, impallidendo. «É arrabbiato dunque... No, non posso permetterlo... gli spiegherò..'.
Quando il generale finì di conversare con l'ultimo postulante e stava per dirigersi verso gli appartamenti interni, Cerviakòv gli andò dietro e prese a disse:
- Eccellenza! Se oso incomodare vostra eccellenza, è precisamente per un senso, posso dire, di pentimento! ... Non lo feci apposta, voi stesso lo sapete!
Il generale fece una faccia piagnucolosa e agitò la mano.
- Ma voi vi burlate semplicemente, egregio signore! - disse, scomparendo dietro la porta.
«Che burla è mai questa? », pensò Cerviakòv. «Qui non c'è proprio nessuna burla! É generale, ma non può capire! Quand'è così, non starò più a scusarmi con questo fanfarone! Vada al diavolo! Gli scriverò una lettera e non ci andrò più! Com'è vero Dio, non ci andrò più!
Così pensava Cerviakòv andando a casa. La lettera al generale non la scrisse. Pensò, pensò, ma in nessuna maniera poté concepire quella lettera. Andò il giorno dopo a spiegare di persona.
- Sono venuto ieri a incomodare vostra eccellenza, - si mise a borbottare, quando il generale alzò su di lui due occhi interrogativi, - non già per burlarmi, come vi piacque dire. Io mi scusai perchè, starnutendo, vi avevo spruzzato... ma non pensavo di burlarmi. Come potrei? Se noi ci burlassimo, vorrebbe dire allora che non c'è più alcun rispetto... per le persone...
- Vattene! - urlò il generale, fattosi d'un tratto livido e tremante.
- Che cosa? - domandò con un bisbiglio Cerviakòv, venendo meno dallo sgomento.
- Vattene! - ripeté il generale, pestando i piedi.
Nel ventre di Cerviakòv qualcosa si lacerò. Senza veder nulla, senza udir nulla, egli indietreggiò verso la porta, uscì in strada e si trascinò via. Arrivato macchinalmente a casa, senza togliersi la divisa di servizio, si coricò sul divano e... morì.


(Anton Cechov)

MARX E LE VICENDE ROMANE

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da http://www.senzasoste.it/nazionale/la-guerra-civile-in-francia-e-le-sconfitte-del-movimento-5-stelle-a-roma
marx derPochi testi, per capire la situazione romana del movimento 5 stelle, sono utili e illuminanti come La guerra civile in Franciadi Marx. In molti penseranno che, così scrivendo, si esagera e che, ad esempio, usare l’autore del Capitale in questo contesto è come leggere le controversie sul parcheggio nel cortile del condominio attraverso i classici del diritto internazionale. Nel caso, chi lo sostiene sbaglia. Perchè la vicenda romana, non solo quella recente del movimento 5 stelle ma anche le puntate precedenti, ci dice molto delle trasformazioni di territori in cui si agitano forze sia locali che globali. Poi ci sono coloro che pensano che l’uso di Marx è qualcosa di pretenzioso, o vetero o inutile. Fortunatamente, l’analisi politica usa solo ciò che è utile e non quello che, comunemente, si ritiene consono.
Tornando, appunto, a Marx è interessante notare come l’analisi dell’evoluzione dello stato francese, quella avvenuta dopo la rivoluzione del 1789, costruisca categorie di analisi utili anche per il nostro caso. Marx, parlando della trasformazioni della forma stato, successive alla rivoluzione francese la inquadra in questo modo:
“il governo, posto sotto il controllo parlamentare, (...), non diventò solamente l'incubatrice di enormi debiti pubblici e di imposte schiaccianti; con la irresistibile forza di attrazione dei posti, dei guadagni e delle protezioni, esso non solo diventò il pomo della discordia tra fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti; ma anche il suo carattere politico cambiò di pari passo con le trasformazioni economiche della società”.
C’è un primo aspetto che vale la pena di evidenziare nell’analisi di Marx, il rapporto tra controllo politico dello stato, crescita vertiginosa del debito pubblico e aumento delle tasse (stato come “l'incubatrice di enormi debiti pubblici e di imposte schiaccianti”). Nell’immaginario, ma anche purtroppo nella ricerca storiografica, si impone un diretto rapporto tra debito pubblico e ruberie di ogni genere. Come se, proprio contando nell’immaginario ottocentesco dell’assalto alla diligenza, furto e crisi dello stato si spiegassero reciprocamente. Le cose invece si fanno più complicate, e pronte a fornire una spiegazione più estesa dei fenomeni, se si va a mettere in rapporto la crescita della borsa di Parigi con quella del debito pubblico dello stato francese.
A partire dalla fine degli anni ’30 dell’ottocento, decollano numero e valore dei titoli della borsa di Parigi e, piano piano, anche i debiti dello stato francese. Quando Marx, nella Guerra civile in Francia, ci parla della Comune di Parigi, lo stato francese ha già prodotto montagne di debiti e visto consumare una storica stagione di borsa sotto Napoleone III. L’altro elemento importante è la concezione, che emerge in Marx, dello stato come elemento di attrazione della feroce lotta tra bande tra reti di ceti che si vogliono egemoni e di governo (stato come “pomo della discordia tra fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti”). Nelle letterature della regolazione, che vedono sempre un elemento interno od esterno allo stato capace di farne sfiammare le patologie, la crisi del debito fa comunque emergere ceti e strumenti normativi, di governo capace di razionalizzarlo.
In Marx la crisi del debito, che va vista in sinergia con l’esplosione della borsa, genera o alimenta una lotta feroce tra classi dirigenti. Lo scontro avviene in nome dei processi di razionalizzazione dello stato e, in suo nome, finisce per non cessare mai. L’altro elemento importante, rilevato da Marx nell’evoluzione della forma stato dopo la rivoluzione francese, sta nel rapporto tra istituzioni ed evoluzione dei processi economici (dove, per Marx, “il carattere politico dello stato” cambiava “di pari passo con le trasformazioni economiche della società”). Allora l’evoluzione dello stato avveniva in nome dell’impetuosa crescita dei processi produttivi, e del conflitto capitale e lavoro, attraverso il gigantismo industriale, l’immensa distesa di macchine giganti visibili dalle Dark Satanic Mills di William Blake.
E’ interessante notare come, nella seconda globalizzazione, la nostra, le istituzioni politiche attraversino, nell’occidente capitalistico compreso il Giappone, le dinamiche di crisi viste da Marx nello stato francese durante all’alba della prima globalizzazione, quella che viene periodizzata dal 1871 fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Esplosione del debito in rapporto all’esplosione degli indici di borsa –del resto è ormai luogo comune la storia del rapporto tra esplosione del debito pubblico e sua mercatizzazione in Italia- scontro tra classi dirigenti nella gestione dello stato e del debito (e la moralizzazione del debito, che lo si consideri giusto o ingiusto, è un lascito ottocentesco a questo nostro mondo), evoluzione delle istituzioni politiche di pari passo con i processi economici. Processi che sono molto diversi dal capitalismo di Marx, ma, bisogna dire, che rispetto allora è differente anche lo stato. O meglio quella miriade di istituzioni, raccolte faticosamente nella forma stato contemporanea, che dal locale allo stato centrale riproducono oggi incessantemente la stessa crisi vista da Marx: aumento del debito, lotta tra fazioni nella sua gestione più simile alla parodia che ai processi di regolazione, trasformazione dell’istituzione (sia locale, centrale o regionale) assieme ai processi economici. Certo, esiste la governance, come quella europea multilivello, ma serve a spostare il debito altrove, a trasferirlo negli stati deboli associati ai processi di governance, a esternalizzare le crisi presso classi dirigenti folkloristiche in lotta fra loro. E a riprodurre una concezione dell’economia della concorrenza che si vuole in grado di cavalcare le evoluzioni del mondo economico reale.
La governance europa, con buona pace di tante mitologie attuali (compresa quella dei banchieri centrali, sacerdoti della regolazione), serve a far si che gli stati più forti, tra quelli che si associano in questi procesi, trasferiscano il peso della del crisi del debito, quello della alta conflittualità delle classi dirigenti e la subordinazione delle istituzioni ai processi economici presso gli stati più deboli. La governance europea si configura così come il dispositivo del trasferimento del rischio, tipico dello stato moderno dall’800 a noi, dagli stati più forti a quelli più deboli. Un dispositivo di trasferimento che, lo si capisce dallo stesso trattato di Roma del ’57 all’origine della successiva governance europea, è tanto più efficace e feroce tanto più è spoliticizzato e opacizzato dalle norme.
La vicenda romana, di una metropoli che naturalmente ha specificità sia locali che globali, va letta in questo scenario. Non in quello della violazione o meno del non-statuto del movimento 5 stelle, del mantenimento o meno della parola data di fronte a qualche assemblea o nelle pieghe di un post su Facebook. E nemmeno sul piano delle trasmissioni che rivelano mail, sms, dibattiti di chat. Usciamo dalla spettacolarizzazione dello scandalo, che è un gioco di palazzo, per andarealla sostanza dei problemi. Infatti è proprio in questo scenario, emerso all’alba della prima globalizzazione, che ritroviamo le criticità delle istituzioni locali. Lo scenario della esplosione del debito, in parallelo con la crescita della finanziariarizzazione della vita pubblica compresa quella locale, quello della lotta infinita tra ceti dirigenti per garantirsi il controllo di queste istituzioni rigonfie di debito, quello del rapporto tra evoluzioni delle istituzioni e mutazioni dell’economia. Lo scenario storico dello stato francese, all’indomani della rivoluzione alla vigilia della Comune, lo scenario delle istituzioni italiane anche nella sua forma locale attuale: la globalizzazione, che sia dell’ottocento o del ventunesimo secolo, non tradisce nel presentare delle regolarità di scenario e di comportamento degli attori.
E non si pensi sia un problema solo italiano: basta vedere la crisi finanziaria dei Laender tedeschi o cosa è accaduto alle finanze delle autonomie locali spagnole dopo lo scoppio della bolla delle banche del 2011. Ma la politica italiana, per non parlare dei suoi pessimi giornali nazionali e locali, è troppo assetata di vittime di paese per far emergere il problema. Quest’anno cade il ventennale della fondazione del gruppo Dexia, una finanziaria per istituzioni che di esplosione del debito pubblico locale, a livello continentale, ne sa qualcosa avendola alimentata. Salvo poi scottarsi le dita, con la crisi del 2008, ed essere salvata sempre con fondi pubblici. Tutte queste storie, quelle che rappresentano i problemi veri del debito pubblico, sono clandestine. Il mainstream italiano vuole soprattutto figure tardopasoliniane come quelle di Buzzi come bersaglio emotivo e capro espiatorio. Il resto, il mondo reale, cosa vuoi che sia.
Inoltre l’esplosione del debito, a livello centrale o di enti locali, è un catalizzatore per cordate e aspiranti ceti politici. Invece di respingere partiti, cartelli elettorali ne attira di nuovi. Nella concorrezza tra cordate politiche per assumere il ruolo di regolatore del rapporto tra grandi imprese e stato (basta vedere le evoluzioni del rapporto tra imprese e ceto politico ne grandi appalti per avere un’idea paradigmatica del fenomeno); nella possibilità, per alcune cordate politiche, di assumere uno status sociale altrimenti negato dalla stagnazione economica; nell’offerta di nuove cordate di “razionalizzatori”, tagliatori, sterilizzatori della spesa pubblica che si impone sempre ad ogni stagione critica della massa di debito presente (che poi il debito serva ad allargare i mercati finanziari, come quello delle obbligazioni, lo sanno anche i bambini, e questo è uno dei motivi per cui esplode. Ma è un’altra vicenda).
Il movimento 5 stelle nasce, e trova un consenso diffuso e risultati elettorali seri, proprio in questo contesto: esplosione del debito (che anche quest’anno ha toccato livelli record), richiesta di un ceto politico nuovo in grado di affrontare questa esplosione. A differenza dei ceti politici precedenti, che si sono imposti con linguaggio mediatico neofrancescano (l’austerità) per proporre veri e propri tagliatori di spesa pubblica (vedendola esplodere lo stesso), il movimento cinque stelle non predica francescanesimo verso gli altri ma, prima di tuto, su sé stesso (la riduzione degli stipendi e il risparmio sui rimborsi). Come spettacolo della carità funziona, del resto il nostro è un paese ancora a forte substrato culturale cattolico (e, gratta gratta, le categorie politiche, si sa, sono teologia adattata a un mondo scristianizzato), e il consenso è stato di grosse proporzioni. Il processo di moralizzazione del debito avanzato dal movimento 5 stelle era quindi diverso da quello, diciamo, montiano. Non la dichiarazione dell’immoralità (la morale è uno strumento comunicativo sempre di forte impatto) del debito per il taglio delle risorse alla popolazione, in nome dell’austerità, ma una dichiarazione di immoralità del debito che richiede risparmio, della politica, e redistribuzione di quanto risparmiato.
Qui sta la forza e la debolezza del brand a 5 stelle: nella concorrenza tra ceti politici nel governo del debito una parte si vuole garanzia di riduzione del debito, immorale e acquisisce consenso e, anche, garanzia di redistribuzione verso il basso, e il consenso arriva copiosamente. Il punto è che tenere assieme i due elementi forti del brand, debito basso prima di tutto e redistribuzione all’ordine del giorno, è materialmente impossibile. Almeno in questa economia, in questa globalizzazione, con questi assetti normativi e con un’economia italiana stimata, fino al 2050, con tassi di crescita attorno all’uno per cento. E questo vale, tanto più, a livello di governo locale dove il pilota automatico della contrazione del debito, inserito nelle leggi di bilancio, esclude a priori ogni significativa redistribuzione. Oltretutto le retoriche, legittime, dell’immoralità del debito alimentano quel processo di contrazione di bilancio delle istituzioni, che alimenta, a sua volta, le privatizzazioni e quindi le ineguaglianze, bloccando ogni redistribuzione.
Ora, sappiamo benissimo che lo stato italiano, enti locali compresi, non certo è lo stato minimo sognato da Nozick nè va certo verso lo zero state sognato da qualche più radicale anarcoliberista americano. Ma, nel primato della politica della riduzione del debito, su quel piano impossibile che vuole sia la riduzione del debito che il nutrimento dei mercati finanziari, le prestazioni sociali sono da stato minimo e si sono incamminate verso la dimensione dello zero stateIl movimento 5 stelle si è immesso nella dinamica di concorrenza tra ceti politici, nella lotta per l’assunzione del comando del governo del debito nazionale e locale, secondo delle coordinate che sono moralmente coerenti ma materialmente impossibili. Perchè tanto più si farà garante dell’abbattimento del debito immorale tanto più dovrà prestare il fianco all’immoralità dell’assenza di una redistribuzione reale. Da qui arrivano molti più problemi di qualche fuga di notizie, di qualche intervista rilasciata frettolosamente. Perché se la morale è un potente vettore comunicativo mancando poi il dispostivo politico-economico, nonché la fecondità di un bacino reale di critica del diritto per scardinare l’assetto normativo esistente (invece di santificare la legalità anche quando serve solo ad azzerare ogni ipotesi redistributiva), per risolvere questi problemi il risultato è quello del debutto romano.
Una giunta ed un assetto di governo fatti per tenere fede all’immagine, intesa come coerenza morale da mostrare a tutti, e che si rivela invece un fragile e scivoloso equilibrio di compromesso da cerchie dello stesso cartello elettorale. Compromesso che, essendo basato su dinamiche di posizionamento interno e non di progetto politico, è saltato al primo problema reale e alla prima incursione dei media. Nessuno imputa ai cinque stelle la coerenza morale anzi, è servita per mandare a casa un pò di ceto politico parassitario, il problema è l’assenza di un progetto materiale. Recentemente un membro del direttorio, del quale è perlomeno lecito aspettarsi un peso nel movimento 5 stelle, ha tirato fuori un ordine del giorno economico di conclamato surrealismo. Passi, per modo di dire, la sua proposta di referendum consultivo sull’euro, giusto per pensare un gioco utile a farsi impallinare dalla speculazione finanziaria globale in un modo più festoso di quello fatto dagli Hedge Fund durante la Brexit. Ma quella, sempre dello stesso membro, di uscire dall’euro e, allo stesso tempo, chiedere gli eurobond per mutualizzare il debito pubblico italiano, e sterilizzarne la portata, è di un surrealismo che, nel parlamento italiano, mancava. Pensare di far saltare l’architettura dell’euro, facendo fare un bel botto ai mercati e alla Germania, e poi farsi pagare dai tedeschi il debito pubblico italiano in effetti è qualcosa di spettacolarmente ardito. Praticabile in un gioco di ruolo su tablet o pc, naturalmente.
Certo, battute a parte, ci sono diversi momenti nel movimento 5 stelle che non trovano coerenza non certo morale ma politica, materiale. C’è stata la capacità di Grillo, e di gruppi di militanti dal basso, di attivare immaginario e pratiche eque e solidali, c’è stato l’aziendalismo di Casaleggio, anche nel senso di coltivazione di immaginario e pratiche di Pmi. Ci sono pulsioni da costuzionalismo popolare e di sinistra della “difesa dei diritti”. E tentativi di farsi carico del debito pubblico in senso tecnico, magari mettendo in conto forti tagli. In qualche modo questo aggregato di valori e pratiche oggi non sta più insieme. O meglio, non sta insieme, come vediamo, come teoria e strumento di governo. Perché c’è un equivoco di fondo. Questo non è un paese, come ha detto un altro membro del direttorio, che “bisogna far tornare normale, facendo funzionare le cose”. Questo è un paese che non tornerà mai più alla nomalità immaginata, e che deve attraversare molti, innovativi, cambiamenti prima di trovare un new normal che tenga. E le cose, oggi, se funzionano sono fatte per mettere in difficoltà la coerenza morale del movimento 5 stelle.
Il terzo elemento di analisi marxiano, dopo l’esplosione del debito e le messa in concorrenza tra ceti politici per il suo governo, è un’altra questione che il movimento 5 stelle si trova ad affrontare. Il rapporto tra istituzioni ed evoluzioni dell’economia. In questo senso le istituzioni locali si trovano, di per sé, ad un bivio piuttosto doloroso: da una parte decrescono come peso economico, di potere, dall’altra sono essenziali per lo sviluppo di un’economia che ha importanti ricadute nella dimensione locale e anche in quella ambientale. L’economia dello smaltimento dei rifiuti è uno di questi settori che, nella sua evoluzione, incide sulle mutazioni dei meccanismi amministrativi ed istituzionali.Tanto più infatti si è privatizzata, tanto più le istituzioni locali hanno dovuto adattare la propria forma di governo alle privatizzazioni, alla finanziarizzazione, alla globalizzazione. Ora non ha, almeno per chi guarda dall’esterno, importanza cartografare al millimetro la geopolitica dello scontro, spettacolarizzato sui media, tra direttorio 5 stelle nazionale, direttorio romano, sindaco e leader del movimento. E’ importante invece vedere come la sostanza dello scontro –ad esempio sulle competenze tra assessore alle partecipate e assessore al’ambiente tocchi proprio la gestione dell’economia dello smaltimento dei rifiuti. E quindi un’economia reale, si è calcolato che questa economia fatturi un miliardo di euro l’anno in area romana, e un tessuto delicatissimo di legami e trasformazioni che passano tra economia (in questo caso dei rifiuti) e mutazioni istituzionali (che, sempre in questo caso, investono le trasformazioni della PA tramite la legge Madia e non solo).
Non stupisce quindi che lo scontro, all’interno del movimento 5 stelle, sia passato dall’economia dei rifiuti, che rappresenta un nesso delicato economia-amministrazione, che sia dovuto ad un assetto organizzativo interno di M5S ancora molto acerbo per questo genere di problemi e che, last but not least, viva sullo scenario del grande debito della capitale. Certo più i problemi si personalizzano, più rivestono il volto di persone in carne ed ossa, meno si risolvono. Qui non ci sono tanto, o solo, errori personali, rapporti nervosi tra cerchie di persone differenti all’interno dello stesso cartello elettorale. Qui ci sono questioni strutturali, tipiche non tanto di questo paese ma delle economie finanziarizzate, che sono state viste, forse per la prima volta da questo movimento, ben in faccia: esplosione del debito nelle istituzioni, concorrenza tra ceti politici per il suo governo (e l’attacco dei media al movimento 5 stelle si spiega anche con il fatto che chi concorre, contro di loro, per il potere, ha il favore del mainstream), problema del governo delle mutazioni che i nessi economici impongono alle istituzioni. Marx puro, si direbbe, mettendosi a leggere La guerra civile in Francia.
Il rischio che oggi corre il movimento cinque stelle, se non si struttura all’altezza delle sfide complesse delle nostre società, è quello di fare un pò la Lega (cavalcando spinte umorali, è un metodo che ha portato Salvini dal tre al 15 per cento) un pò Monti (la Raggi che intima ai partiti di stare lontano dalla giunta, oltre a seguire un ormai vecchio adagio, rappresenta un’autostrada verso la concezione dei “tecnici che tagliano il debito su criteri oggettivi”). Il rischio però, quando si è al governo, è che un elemento entri in conflitto con l’altro. All’opposizione tutto si può sovrapporre e confondere alimentando, anche in modo paradossale, la spinta alla conquista del palazzo. Dal giorno dopo l’entrata nel palazzo, le formule del consenso del giorno precedente possano diventare velenose, rendendo l’aria irrespirabile in poco tempo.
In questo senso, l’esperienza livornese, che pure ha avuto attenzione seria da Roma, non ha ancora insegnato tutto al movimento 5 stelle. Curiosamente, verso il movimento 5 stelle, ha speso parole di saggezza Il Messaggero, giornale di incrocio tra mattone, ceto politico e pressione mediatica delle lobby: “nessun movimento politico che si ritenga e proclami autosufficiente e lontano da contagi può farcela, tagliando ogni legame con la parte migliore della società civile. [..]. Gramsci nel secolo scorso diceva che per avere successo in politica bisogna conquistare le casematte del sapere. Frase profetica e illuminante che fece il successo del Pci nel dopoguerra”. C’è un modo di destra e uno di sinistra per rispondere all’esortazione del Messaggero. Il modo di destra è quello di prender sul serio le parole di quella testata. In quel lessico, parlare di società civile, di Gramsci, stravolgendo il significato dei concetti usati, significa concertazione tra ceti dirigenti. Grandi parole, per riproporre la solita vampirizzazione delle risorse della società. Il modo di sinistra non è certo quello dei direttori, tra l’altro il direttorio rappresenta la fase di declino della rivoluzione francese quindi il concetto è quantomento malaugurante, ma quello di una solida apertura alla società e alle sue casematte del sapere. Qualcosa di molto diverso dal prendere decisioni una chat di Whatsup, per intenderci, in un paese che ha bisogno di far valere, di nuovo, il peso della decisione collettiva in un epoca molto controversa.
Di fronte a trasformazioni epocali o destra, o sinistra: tertium non datur, insomma. Magari in forme nuove e quello è il bello dei processi storici. La politica impone pero’ sempre scelte dolorose. E per queste scelte un autore, come Marx, spesso erroneamente rappresentato come manicheo, una strada, almeno per l’analisi, ce la fornisce.
Per Senza Soste, nique la police
9 settembre 2016

GLI INVISIBILI CHE LOTTANO

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da   http://popoffquotidiano.it/2016/09/09/braccianti-stranieri-i-lavoratori-invisibili-che-lottano/

Le campagne, specialmente al Sud, sono affollate di schiavi ma la politica ufficiale finge di vedere solo richiedenti asilo. Invece di applicare i contratti si cercano soluzioni nel volontariato

di Campagne in lotta

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Caporalatoghetti e schiavitù da una parte, emergenza profughi e accoglienza dall’altro: attorno a questi due nuclei e alla loro intersezione si articola da alcuni anni e con sempre maggiore frequenza – nei media più o meno mainstream, negli ambienti istituzionali e in quelli del terzo settore – una rappresentazione stereotipatavittimizzante e depoliticizzante di un fenomeno ben più complesso. Per restituirne almeno in parte un’immagine più efficace e politicamente incisiva, partiamo innanzitutto dalla dimensione conflittuale che si è andata sviluppando intorno ad un sistema di sfruttamento e segregazione sempre più brutali. Sistema che, nonostante il discorso dominante, non è frutto di condizioni eccezionali, di ritardi storici o contingenze imprevedibili, ma di politiche di lungo corso. La gestione della mobilità transnazionale e il dumping contrattuale e sociale che questa, insieme ad altri dispositivi, promuove, sottendono tanto ai meccanismi dello sfruttamento quanto alle azioni di contrasto messe in campo da chi subisce quotidianamente tutto questo.
Da anni, chi vive e lavora nelle campagne porta avanti importanti battaglie sociali. Per limitarci agli eventi più recenti che hanno dato vita a questo fronte di lotta, due momenti risultano particolarmente significativi: la rivolta/sciopero di Rosarno, nel gennaio 2010, e lo sciopero di Nardò, nel luglio 2011. A seguito di quest’ultimo, lavoratori delle campagne, disoccupate/i, militanti, associazioni e altri soggetti costituiscono una rete informale di respiro nazionale, che prenderà il nome di Campagne in Lotta. L’obiettivo è quello di comprendere e sovvertire le dinamiche di sfruttamento lavorativo nel settore agricolo e quindi, necessariamente, anche di ampliare le lotte, articolandole ad altri contesti e fronti: le lotte nella logistica e quelle per la casa innanzi tutto.
È in provincia di Foggia - distretto di punta della produzione di pomodoro da industria a livello mondiale, in cui sono impiegate decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici, perlopiù stranieri – che la mobilitazione si è maggiormente sviluppata. D’altra parte, questa sta assumendo sempre più una portata nazionale, coinvolgendo in primis coloro che vivono e lavorano nella Piana di Gioia Tauro, teatro recentemente di un drammatico omicidio di stato. I lavoratori e le lavoratrici, perlopiù provenienti dall’Africa subsahariana, si sono organizzati in diversi comitati, e con il sostegno della rete Campagne in Lotta e del Si Cobas a partire dallo scorso settembre per ben sette volte sono scesi nelle strade del capoluogo dauno, per poi dare vita a due momenti di mobilitazione a livello regionale. Il 30 giugno scorso, in contemporanea al corteo che ha attraversato le strade di Bari, una manifestazione è partita dalla Tendopoli di San Ferdinando, a pochi passi dalla cittadina di Rosarno: per chiedere verità e giustizia per la morte di Sekine Traoré, bracciante maliano ucciso da un carabiniere, ma anche per aggredire le condizioni che stanno alla base di questa ennesima tragedia annunciata.
La priorità riguarda lo status giuridico, ovvero la necessità per i braccianti non comunitari di ottenere e mantenere un permesso di soggiorno. Chi popola i ghetti, le baraccopoli più o meno istituzionali, e più in generale le campagne di molte zone d’Italia ha compiuto percorsi anche molto diversi tra loro, ma spesso è accomunato dalla precarietà della propria condizione giuridica. Da una parte ci sono coloro che vivono in Italia da molto tempo ma che, invece di stabilizzare la propria posizione (entrando in possesso di un permesso come lungo soggiornanti, o della cittadinanza italiana), a causa della legge Bossi-Fini, della crisi economica, dell’onnipresenza di lavoro nero sfruttato, sono intrappolati nell’irregolarità e scontano quindi anche l’impossibilità di andarsene altrove. Dall’altra parte ci sono coloro che son arrivati da poco tempo, e per questi il percorso è ancora più segnato. Al loro ingresso in Italia sono costretti, se le politiche sempre più restrittive in materia glielo consentono (vedi il sistema Hotspot e i respingimenti arbitrari), a presentare domanda d’asilo, poiché a partire dal 2012 non esistono altri meccanismi di ingresso per i cittadini non comunitari, quali erano i decreti flussi. Le commissioni territoriali per l’asilo spesso non riconoscono nessuna forma di protezione internazionale, condannando i nuovi arrivati ad un limbo per uscire dal quale occorrono denaro, tempo interminabile e molta frustrazione, che spesso sfocia in disagio manifesto. In questo scenario si inseriscono i contestatissimi centri d’accoglienza, fonte di guadagno per cooperative e consorzi a fronte di un servizio pessimo per gli ‘ospiti’ e di un trattamento contrattuale all’insegna dell’iperprecarietà e dello sfruttamento per gli operatori. I centri d’accoglienza non sono un’alternativa al ghetto, ma il meccanismo che sta alla base della sua esistenza: non soltanto perché sono essi stessi luoghi di segregazione e abuso, ai margini dei quali spesso sorgono vere e proprie baraccopoli. I centri mantengono chi ci vive poco al di sopra della soglia di sopravvivenza, favorendone così lo sfruttamento (nelle campagne che spesso si trovano proprio in prossimità, o sulle strade circostanti nel caso delle prostitute) e soffocando l’insorgere di proteste, che sono però all’ordine del giorno.
In Italia gli strumenti normativi che disciplinano l’immigrazione (più importante tra tutti il Testo Unico sull’immigrazione, a firma Turco-Napolitano prima e Bossi-Fini poi), dopo aver contribuito ad abbassare il costo del lavoro, creando un esercito di lavoratrici e lavoratori senza diritti e sommamente ricattabili attraverso il nesso tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno, hanno esaurito parte della loro funzione. I lunghi anni di crisi economica e di politiche di austerity, i cui effetti tra l’altro si stanno ulteriormente acutizzando, insieme all’allargamento ad est dell’Unione Europea e alle guerre globali di più o meno bassa intensità, hanno permesso di generalizzare ulteriormente la debolezza dei lavoratori di fronte all’accumulazione selvaggia del capitale. E, tuttavia, l’irregolarità giuridica, oggi prodotta soprattutto attraverso un dispositivo di carattere umanitario, rimane uno degli elementi attraverso i quali si producono marginalizzazione e sfruttamento.
Ma proprio perché lo status giuridico non è che una delle cause possibili dello sfruttamento, la lotta dei lavoratori delle campagne si concentra allo stesso tempo sulle loro condizioni contrattuali e salariali. A gran voce e senza sosta i lavoratori chiedono il rispetto dei contratti di categoria, all’interno dei quali è regolamentato molto chiaramente uno dei nodi centrali del reclutamento della manodopera agricola, ovvero il trasporto sul luogo di lavoro. Stando ai contratti, questo deve essere garantito dai datori di lavoro. Ed è qui che si inserisce la figura del caporale, ovvero colui che garantisce – previo pagamento di una tariffa che normalmente si attesta sui 5 euro giornalieri – il trasporto dei lavoratori sui campi. Le altre rivendicazioni riguardano l’accesso al sistema previdenziale, attraverso i contributi e la conseguente fruibilità della disoccupazione agricola, istituto fondamentale per questo comparto caratterizzato da una forte stagionalità; il rispetto degli orari e dei minimi salarialil’alloggio gratuito per i lavoratori stagionali, anch’esso previsto dai contratti collettivi.
La lotta dunque, sul fronte dell’organizzazione del lavoro in agricoltura così come delle politiche di controllo della mobilità, fa emergere i veri problemi e soprattutto i principali responsabili dello sfruttamento di chi lavora in campagna.Sfruttamento che colpisce anche i piccoli produttori, ancor oggi la quasi totalità dei titolari di aziende agricole, sempre più ricattati dallo strapotere della grande distribuzione. Questo percorso vertenziale da una parte sta ottenendo importanti risultati e avanzamenti – come testimonia la firma, da parte di diversi ministeri, regioni e parti sociali, di un ‘Protocollo sperimentale contro il caporalato’ lo scorso 27 maggio. Se è evidente che le istituzioni temono i ‘disordini’ provocati dai lavoratori in lotta e cercano di correre ai ripari, è però altrettanto ovvio che occorre continuare e potenziare le mobilitazioni per giungere a risultati reali: le istituzioni rimangono conniventi, preoccupate soltanto di proteggere l’immagine di un Made in Italy sempre più importante per l’economia del paese. Le lotte, però, ci forniscono anche una lettura reale delle dinamiche di sfruttamento oltre i discorsi dominanti: non caporalato, schiavitù, emergenza, ma sfruttamento selvaggio di una manodopera salariata facilmente sostituibile, in una filiera agroindustriale controllata dalla grande distribuzione e dal marcato globale. Queste lotte ci ricordano i pilastri su cui si poggia il sistema odierno, nelle campagne e altrove: l’organizzazione della forza-lavoro ed il controllo della sua mobilità.

UN''APE' NON FA PRIMAVERA

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da http://www.senzasoste.it/lavoro-capitale/un-ape-non-fa-primavera

Pensioni. L'anticipo pensionistico a cui pensa il governo contrasta in minima parte gli effetti della legge Fornero. Ma i problemi strutturali restano e si aggravano
ape impennaFelice Roberto Pizzuti - tratto dahttps://ilmanifesto.info
Nella prossima legge di Stabilità il governo intende inserire diversi provvedimenti in materia pensionistica. Quello di cui si sta parlando maggiormente è l’anticipo pensionistico (Ape) che dovrebbe attenuare in qualche misura il forte aumento dell’età di pensionamento (fino a sette anni) deciso nel 2011 dal ministro Fornero. Con quel provvedimento, il governo Monti ribadì la linea politica ed economica in atto da oltre un decennio di attingere al bilancio dell’insieme dei lavoratori-pensionati per sostenere il complessivo bilancio pubblico. Eppure, già dal 1998, il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni nette è in attivo (nel 2013 di circa venti miliardi).
Ma oltre a questa discutibile politica redistributiva, lo slittamento improvviso fino a sette anni dell’età di pensionamento ha generato molti altri problemi tra i quali la creazione dei cosiddetti esodati, cioè oltre trecentomila persone venute a trovarsi senza lavoro e senza pensione. Un importante effetto socio-economico è stato che il trattenimento forzoso in attività di persone in vista del pensionamento ha di fatto ostacolato l’ingresso nel mondo del lavoro di altrettanti giovani, con conseguenze negative non solo per le opposte aspettative di vita delle due categorie di popolazione; l’invecchiamento della forza lavoro ne ha ridotto sia la produttività che la capacità di adattarsi ad innovazioni produttive e, allo stesso tempo, ha aumentato il costo del lavoro. D’altra parte, il passaggio al sistema contributivo in un contesto di precarizzazione del mondo del lavoro, di compressione dei salari e di riduzione della crescita del Pil sta creando una vera e propria bomba sociale, cioè la creazione, nel giro di due-tre decenni, di un’ingente massa di pensionati poveri (quelle stesse persone che oggi sono precarie e/o sottopagate come lavoratori).
Di fronte a così tanti e strutturali problemi economico-sociali, l’Ape rappresenta un elemento di flessibilità dell’età di pensionamento che, però, potrà essere utile solo a chi, potendo contare su una pensione più che sufficiente, può anche permettersi di ridurla in cambio di una sua anticipazione. Poiché il governo non vuole toccare più di tanto il bilancio pensionistico (attivo) ha pensato di organizzare un prestito, a richiesta di chi vuole anticipare la pensione, dato dalle banche e assicurato da istituti finanziari privati. Naturalmente gli interessi e i costi assicurativi del prestito sono a carico di chi li chiede, salvo agevolazioni pubbliche per ristrette categorie di lavoratori più svantaggiati (disoccupati, lavoratori precoci o impiegati in attività usuranti). Ma anche tali agevolazioni dovranno essere limitate poiché per l’insieme dei provvedimenti (oltre all’Ape, c’è l’ampliamento dei beneficiari della 14ma, la ricongiunzione gratuita dei periodi contributivi) le risorse sono limitate (2 miliardi).
In definitiva, l’Ape non modifica l’età di pensionamento decisa con la legge Fornero, ma introduce (per un periodo di sperimentazione) un elemento di flessibilità che, di fatto, potrà essere fruito solo da chi avrà una pensione medio-alta, ma molto difficilmente da chi ne avrà una medio-bassa: anticipare di tre anni una pensione attesa di 1000 euro implicherà la sua riduzione a circa 850 euro per il resto della vita da pensionato. I problemi strutturali del sistema pensionistico rimangono intatti e continuano inesorabilmente a crescere. I provvedimenti di cui si sta parlando costituiscono delle misure che aiuteranno solo un ristretto numero di persone, ma in prossimità del referendum.
12 settembre 2016
vedi anche

COM'E' UMANITARIO RENZI!

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da http://popoffquotidiano.it/2016/09/13/duecento-para-in-libia-come-umanitario-renzi/

Duecento parà italiani in Libia ufficialmente a protezione di un ospedale da campo ma Daesh non c’entra: in Libia si combatte per il controllo dei terminal petroliferi

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Roma invierà a Misurata un contingente di 100 medici, con la protezione di circa 200 parà, per curare i soldati libici. Annuncio di Pinotti e Gentiloni, ministri della guerra e degli esteri di Renzi, dalle colonne di Repubblica anziché dagli scranni parlamentari sebbene Renzi, nella sua e-news del 5 marzo 2016, avesse giurato che qualsiasi missione in Libia si sarebbe potuta verificare solo passando dapprima per il voto del Parlamento. La conferma della ministra Pinotti alle commissioni congiunte: l’operazione, chiamata ‘Ippocrate’, coinvolgerà 300 militari: 60 tra medici e infermieri, 135 per supporto logistico e 100 unità di ‘forze protection’. Presente anche un aereo nell’eventualità di evacuazioni ed una nave al largo delle coste libiche. «Tutto è pronto. Il parlamento sta decidendo di votare una risoluzione e lo consideriamo favorevolmente perché è un supporto a quello che il governo ha proposto. Appena questo verrà fatto noi siamo pronti a partire».
Parrebbe una forma umanitaria quella presa dalla missione italiana con la creazione di un ospedale da campo protetto dai militari proprio nella città che fornisce il maggior numero di miliziani che combattono l’Isis a Sirte. Nei fatti è uno soltanto degli aspetti della partecipazione italiana alla campagna di Libia mentre proseguono gli scontri nei porti di petrolio. La Libia è in guerra e l’Italia è in Libia, scriviamo ormai da mesi. Ammette la ministra: «A Sirte le milizie di Daesh sono confinate in uno o due chilometri quadrati distribuiti su due e tre quartieri. E le forze libiche di al Serraj hanno sigillato l’area dove si trovano i jihadisti, con un anello di contenimento. Questo è importante perchè c’era la preoccupazione che i jihadisti, scappando da lì, potessero portare instabilità in altri territori». Daesh, infatti, c’entra poco con quello che sta accadendo sull’altra sponda del Mediterraneo dove la lotta tra Tobruk e Tripoli si concentra sul controllo dei terminal. E restituisce le stesse domande di sempre: c’è una sola Libia o almeno due entità, Tripolitania e Cirenaica, in mano ai signori della guerra? E gli interessi italiani da che parte si collocano visto che le fazioni in campo vedono le grandi potenze occidentali farsi la guerra per interposti signori della guerra. Italiani, inglesi e americani lavorano a Misurata e per Sarraj, i francesi spingono la controparte del generale Khalifa Haftar, che non ha ancora accettato l’accordo dell’Onu. Al Sisi, rimpinguato di armi da Putin e dai francesi, manovra il generale Haftar e considera la Cirenaica una provincia egiziana. Il Qatar finanzia gli islamisti radicali a Tripoli, gli Emirati si sono comprati il precedente mediatore dell’Onu, Leòn, per appoggiare Tobruk, la Turchia ha rispedito i jihadisti libici dalla Siria a fare la guerra santa nella Sirte.
La quarta guerra italiana alla Libia è soprattutto un’operazione sottotraccia alienata da qualsiasi forma di dibattito pubblico e politico. Il governo Renzi s’è gia mostrato disponibile a concedere il sorvolo ai droni Usa e l’utilizzo delle basi come Sigonella (in ossequio al mandato dell’Onu perché ufficialmente richiesti dal governo fantoccio di Sarraj). Per mesi si sono rincorse
indiscrezioni su un discreto numero di militari italiani nel Paese con licenza di uccidere e immunità per eventuali reati commessi (l’ultima legge di stabilità nascondeva 700 milioni di euro per la loro mercede). Sarebbe il numero maggiore di unità straniere nell’ex Jamahiriya di Gheddafi (l’attentato in Bangladesh del 2 luglio 2016 che ha ucciso nove italiani sarebbe una ritorsione per la loro presenza) e sarebbero di stanza proprio a Misurata dove lavorerebbero in team con gli inglesi nell’addestramento e nel supporto logistico alle milizie in trincea di Sirte.
Per effetto di un decreto ministeriale (secretato) del 10 febbraio 2016 il personale militare italiano figura sotto il comando dei servizi segreti per l’estero (Aise), in coordinamento anche con le barbe finte già presenti in Libia, per portare a termine missioni speciali decise da Palazzo Chigi. Tecnicamente non sarebbero truppe sul campo ma forze per la sicurezza e in sostegno ai “nostri” sul posto.
La cosiddetta ‘Mezzaluna petrolifera’ è caduta nelle mani del generale Khalifa Haftar, legato al Parlamento di Tobruk, la città dell’est che ancora non ha dato la fiducia al governo di Tripoli messo su dall’Onu. In meno di 24 ore i porti petroliferi di Zueitina, Brega, Sidra e Ras Lanuf sono caduti nelle mani delle forze del generalissimo Haftar. Il presidente della Camera dei rappresentanti (Hor) di Tobruk, Aqila Saleh, si è felicitato con le guardie delle installazioni petrolifere (vicine a Tripoli) per avere ‘ceduto’ le installazioni «senza alcuna resistenza» e ha chiesto alla National Oil Corporation (Noc) di occuparsene «dopo che sarà conclusa la missione delle forze armate per proteggere i siti». Ma la risposta da Tripoli non si è fatta attendere. Gli attacchi «minano la riconciliazione», ha denunciato il Consiglio della presidenza e sul suo portale Facebook ha annunciato che il «ministro incaricato della Difesa è stato chiamato ad assumersi le sue responsabilità e a chiamare tutte le unità militari a far fronte all’aggressione contro le installazioni ed i porti per riprenderli ed assicurare la loro protezione». Gentiloni invoca la «necessità della cooperazione tra il governo di Tripoli e le altre forze libiche, incluse quelle che si riconoscono in Haftar».
La missione è un «contributo tipico di quello che può fare l’Italia all’estero – ha spiegato il titolare della Farnesina – ossia aiutare i consolidamenti dei processi di stabilizzazione anche con le proprie forze armate». In Libia «abbiamo bisogno che la situazione si consolidi, per far fronte al terrorismo e per gestire meglio l’emergenza migratoria».
da anticapitalista.org

UOMINI E PADRONCINI

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da http://www.internazionale.it/opinione/christian-raimo/2016/09/15/piacenza-gls-operaio-ucciso

di Christian Raimo

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Nella notte tra il 14 e il 15 settembre è successa una cosa gravissima. Abd Elsalam Ahmed Eldanf, un operaio dell’azienda di logistica Gls (General logistics systems) di Piacenza, è stato travolto e ucciso con un camion aziendale mentre stava facendo un picchetto, organizzato dall’Unione sindacale di base (Usb), davanti alla Gls.
Riccardo Germani, rappresentante del sindacato Usb, racconta così i fatti: “Le trattative erano andate male. Avevamo trasformato l’assemblea in un picchetto davanti ai cancelli della Gls. Eravamo una trentina. A un certo punto quelli dell’azienda hanno incitato i camion a forzare il picchetto. E uno, l’azienda l’ha definito un prevosto… un padroncino… insomma, l’ha fatto. Ha accelerato e ha ammazzato sul colpo Abd Elsalam”. Elderah Fisal Elmoursi, un altro operaio, che era presente dichiara:
Situazioni del genere, così tese, erano già accadute. A me ieri i dirigenti mi dicevano ‘Ti sparo! Ti sparo!’. Dovevamo fare la trattativa e ci hanno obbligato ad andare in un locale a fare quest’incontro invece di farlo in magazzino, isolandoci. Così quando abbiamo saputo che la trattativa era andata male, ci siamo messi in sciopero davanti ai cancelli. A un certo punto c’era un dirigente che incitava gli autisti a lavorare comunque. E quindi, uno di loro che prima era sceso e aveva lasciato il motore acceso, è risalito. Gli autisti se la fanno sotto quando ricevono questi ordini dai dirigenti. Noi sappiamo che gli autisti sono dei lavoratori, loro stessi li odiano questi dirigenti: ci dicono aiutateci a cacciarli. Ma poi se la fanno sotto quando gli danno gli ordini. Il nostro amico, Abd Elsalam, era dalla parte dell’autista, quindi quello lo vedeva sicuramente. Ha bussato sul cofano. Ma quello era già partito, non c’ha visto più evidentemente. E il nostro collega è andato sotto le ruote. C’era il sangue che usciva dalla bocca. Una scena che non dimenticheremo mai. Eravamo tutti a urlare, a piangere. E l’autista avrebbe continuato se non l’avessimo fermato.
La procura di Piacenza sostiene che non ci fosse un picchetto, che i camion entravano e uscivano regolarmente dallo stabilimento, e che di fatto si sia trattato di un incidente. Abd Elsalam Ahmed Eldanf si sarebbe allontanato dal gruppo degli altri lanciandosi contro il camioncino, o è stato inavvertitamente investito. Allo stato attuale l’autista è indagato per omicidio stradale.
Un abuso sistematico
Abd Elsalam Ahmed Eldanf aveva 53 anni, cinque figli, lavorava per Gls come facchino dal 2003, e aveva già un contratto a tempo indeterminato: quindi era lì per gli altri. La trattativa che era saltata nella notte prevedeva il reintegro di alcuni operai licenziati perché facevano parte del sindacato, e la stabilizzazione di altri tredici lavoratori. La Gls aveva fatto finta di accettare la proposta, ma alla fine inaspettatamente e irresponsabilmente, aveva interrotto il dialogo.
Gli scioperi, le manifestazioni, le lotte sindacali nel settore della logistica(soprattutto organizzate dalle sigle di base, Usb, Sincobas) negli ultimi anni hanno permesso di ottenere un affrancamento da condizioni di quasi schiavitù e la conquista di tutele minime: il riconoscimento di diritti fondamentali come la tutela all’assenza per malattia o per infortunio, la diaria per la mensa.
Qui ci sono le immagini della manifestazione contro la Gls di gennaio.
Gli strumenti di questo abuso sistematico commesso da molte aziende della logistica sono diversi e terribili: un cottimo di fatto istituzionalizzato, paghe basse per lavori sfiancanti, l’organizzazione in cooperative di comodo, lo sfruttamento di lavoratori stranieri. Capita spesso che gli operai che si organizzano per reclamare i loro diritti siano licenziati semplicemente cambiando il nome della cooperativa.
La disponibilità di manodopera a basso costo è un ulteriore incentivo ai licenziamenti facili. Inoltre, spesso i datori di lavoro fanno leva sulle conflittualità interne ai lavoratori, dovute all’appartenenza a gruppi etnici diversi. Facciamo un esempio: i lavoratori di origine romena o egiziana in molte aziende sono sindacalizzati, quindi i datori di lavoro tenderanno ad assumere lavoratori di origine filippina o bangladese, ancora poco organizzati.
Nonostante la crisi o proprio a causa di questa, la logistica (i trasporti, lo stoccaggio delle merci) è un settore in enorme espansione, ma al tempo stesso è un’avanguardia nello smantellamento dei diritti del lavoro. Il ministro Giuliano Poletti viene dal mondo delle cooperative e conosce bene i meccanismi di ricatto che possono annidarsi in un contesto dove non c’è un rapporto di subordinazione esplicita del lavoratore al datore di lavoro.
Sarebbe giusto, doveroso, che il ministro fosse presente ai funerali di Abd Elsalam Ahmed Eldanf e anche il presidente del consiglio dovrebbe partecipare. Indispensabile infine che sia indetto uno sciopero unitario in solidarietà con gli operai della Gls. Una tragedia come quella di ieri ha un che di ottocentesco – di un tempo in cui la coscienza dei diritti si doveva ancora formare. Fa impressione vedere un passato così spaventoso ritornare davanti agli occhi di tutti.
(Qui c’è il comunicato del sindacato Usb)



da http://popoffquotidiano.it/2016/09/15/piacenza-padroncino-italiano-ammazza-un-facchino-egiziano/

Un operaio egiziano di 53 anni travolto e ucciso da un camionista italiano, un padroncino, mentre scioperava davanti ai cancelli di un’azienda di Piacenza

di Checchino Antonini

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Ucciso mentre scioperava per la stabilizzazione del posto di lavoro. E’ stato travolto da un camionista aizzato da un addetto dell’azienda di Piacenza, la Gls, che stava picchettando coi suoi compagni. E’ successo poco prima della mezzanotte sotto gli occhi della polizia che ha sottratto l’omicida alla rabbia dei compagni dell’operaio di 53 anni, dieci in più del suo assassino.Abdesselem El Danaf da 13 anni lavorava a Piacenza per crescere i suoi cinque figli. Usb, il sindacato di quei facchini della Seam, ditta in appalto della Gls, aveva indetto un’assemblea per discutere il mancato rispetto degli accordi sottoscritti sulle assunzioni dei precari a tempo determinato. Di fronte al comportamento dell’azienda i lavoratori, che erano rimasti in presidio davanti ai cancelli, hanno iniziato lo sciopero immediato.
«E’ un disastro! Il conducente del camion che ha travolto e ucciso il nostro lavoratore è stato incitato a forzare il picchetto da un addetto vicino all’azienda, probabilmente un dirigente, stiamo cercando di capire – dice a Popoff, Riccardo Germani, di Usb, presente alla manifestazione – gli urlavano ‘parti, vai!’ e quello è partito…».  Sotto una pioggia battente va avanti il presidio di fronte all’azienda.
«Abbiamo incontrato i responsabili della Gls, insieme agli agenti della Digos, per discutere della stabilizzazione di 13 contratti a tempo determinato, quando hanno rinnegato gli impegni presi abbiamo deciso per lo sciopero e per il blocco. Ci stavamo accingendo a protestare e la situazione era tranquilla, poi la tragedia. Non si può morire così, non si può perdere la vita per difendere i propri diritti», fanno sapere dall’Unione Sindacale di Base. Non è la prima volta che la Gls, come tante altre aziende nel polo logistico piacentino, è teatro di manifestazioni, blocchi e picchetti. “
«’Ammazzateci tutti’, è il grido dei lavoratori della logistica di Piacenza. Un nostro compagno, un nostro fratello è stato assassinato durante il presidio e lo sciopero dei lavoratori. Questo assassinio è la tragica conferma della insostenibile condizione che i lavoratori della logistica stanno vivendo da troppo tempo. L’Usb si impegna alla massima denuncia dell’accaduto: violenza, ricatti, minacce, assenza di diritti e di stabilità sono la norma inaccettabile in questo settore», scrive in una nota l’Unione sindacale di Base (Usb), annunciando una conferenza stampa alle 13.30 a Piacenza nel piazzale antistante la GLS, mentre a Roma, alle ore 15.00, si terrà una mobilitazione sotto gli uffici del Ministro del Lavoro in via Veneto, dove l’USB chiede di incontrare il Ministro Poletti. In tutte le principali città italiane si svolgeranno in giornata presìdi di protesta presso gli Uffici del Governo, un presidio a Bologna è annunciato dalle ore 17 davanti alla Prefettura in Piazza Roosevelt. Infine, il prossimo sabato 17, manifestazione a Piacenza dalle ore 12.00. Usb, inoltre, proclama 2 ore di sciopero nazionale a fine di ogni turno per tutti i settori, le aziende e le società di lavoro privato per la giornata di domani, 16 settembre.
Un camionista, un “padroncino”, che uccide uno scioperante, che forza un picchetto in nome e e per conto del padrone vero. Un lavoratore italiano garantito che uccide un lavoratore straniero non garantito se non dalla sua capacità di lottare. Sembra una scena del capitalismo allo stato nascente ma è il nostro presente e, probabilmente, il nostro futuro. La guerra dei penultimi contro gli ultimi è la versione della guerra di classe al tempo del neoliberismo feroce. E’ il delitto perfetto di questo paesaggio italiano segnato dalla crisi e, ancora prima, da una deregulation che ha frammentato la classe. In altri tempi si sarebbero fermate le fabbriche, si sarebbe scesi in sciopero, si sarebbe riconosciuto, sotto quel telo bianco nel piazzale, un lavoratore identico a noi, a un nostro fratello, a nostro padre. Invece, nelle città emiliane, intossicate dalla crisi industriale e dal securitarismo, cresce da anni il rancore dei penultimi, degli indigeni impoveriti, contro gli ultimi, i lavoratori stranieri accusati di rubare di tutto, dal lavoro alle biciclette. Cresce la Lega, fanno proseliti Casapound e Forza nuova ma i cinquestelle e il Pd non brillano per capacità di costruire un tessuto sociale solidale. Anzi, se i secondi sono gli artefici delle controriforme e il prodotto di un ceto politico corrotto e parassitario, il nuovo che avanza, i grillini, è portatore dello stesso rancore dal sapore xenofobo e razzista. Non è un omicidio stradale, come probabilmente verrà descritto, ma un delitto di classe.
Nei bar, non solo nei caffè a la page, perfino nei circoli Arci ci sarà chi dice che in fondo se l’è cercata quell’operaio che viene a scioperare a casa nostra.
E ora? Usb proclamerà certamente azioni di lotta, piccole sigle combattive le saranno a fianco, così come quel che resta dell’estrema sinistra. Ma la Cgil avrà la forza, se non fosse sessista di potrebbe dire “le palle”, di esprimere rabbia per un omicidio di classe? E l’onestà intellettuale di ammettere che anche i suoi cedimenti sono effetto e causa di questa guerra orizzontale?

Gls  nasce nel 1999 e fa parte del gruppo Royal Mail, le poste d’Inghilterra, privatizzate al 90% nel 2011 e da tre anni quotate in borsa. Ha acquisito altre aziende della logistica tedesche, ungheresi, danesi, francesi, slovene e irlandesi, conta oltre 14mila dipendenti e un fatturato di 2,1 miliardi di euro, in 41 paesi. In Italia, nel 2001 ha rilevato la Direzione Gruppo Executive, qui conta 145 sedi, 10 centri di smistamento e oltre 3.700 tir, 190 milioni di euro di fatturato e almeno 564 dipendenti più la pletora di subappalti e cooperative.
«Questi non si spostano», ha detto ancora a Popoff, Riccardo Germani, descrivendo la scena agghiacciante del Tir che correva contro il picchetto. Negli ultimi anni, i lavoratori della logistica sono stati protagonisti di numerose vertenze, forti del fatto che il loro comparto è uno dei meno esposti al ricatto della delocalizzazione. La loro rabbia nasce dal fatto che sono i peggio pagati nella filiera industriale, e devono lavorare in condizioni spaventose. Per queste ragioni la composizione del comparto vede un altissimo numero di lavoratori immigrati. I facchini sono stati spesso caricati a freddo dalle forze dell’ordine, manganellati a sangue, denunciati e arrestati. Gls è particolarmente forte nella distribuzione editoriale. Per questo, lo scrittore Cristiano Armati, animatore di Red Star Press, ha voluto scrivere:
Esprimere solidarietà nei confronti di Abdesselem el Danaf, la sua famiglia, i suoi compagni di lotta e la sua organizzazione sindacale è il minimo. Ma come lavoratori di una cooperativa editoriale che tutti i giorni si avvale dei servizi di logistica per trasportare i propri libri ci rivolgiamo a tutti gli editori italiani nella speranza che almeno di fronte alla morte si sia in grado di aprire gli occhi. Come Red Star Press non utilizziamo la GLS perché consapevoli delle condizioni particolarmente dure imposte ai lavoratori delle sue imprese subappaltatrici, eppure PROPONIAMO IL LANCIO DI UNA CAMPAGNA DI BOICOTTAGGIO NEI CONFRONTI DI QUESTA AZIENDA, RICONOSCENDO NELLE CONDIZIONI IMPOSTE AI LAVORATORI LA RESPONSABILITÀ OGGETTIVA DI QUANTO ACCADUTO A PIACENZA e di quanto potrebbe accadere ogni giorno, ovunque livelli di sfruttamento durissimi impongano di organizzare lotte conseguenti per cambiare lo stato di cose.



WEEK END MAGAZINE

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TU  NON SAI LE COLLINE

Risultati immagini per pavese tu non sai le colline

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l'arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
e il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

(Cesare Pavese)

ANCORA MORTI SUL LAVORO

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da http://popoffquotidiano.it/2016/09/17/ilva-e-atac-altri-due-omicidi-di-lavoratori/

Due morti bianche, ossia omicidi padronali, proprio nel giorno in cui, a Piacenza, va in scena un corteo di rabbia per l’omicidio di Abdelsalam

di Francesco Ruggeri
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Due morti bianche, ossia omicidi padronali, proprio nel giorno in cui, a Piacenza, va in scena un corteo di rabbia per l’omicidio di Abdelsalam, facchino in un appalto Gls ucciso da un camionista spronato, secondo la ricostruzione dell’Usb, il suo sindacato, da un uomo del management aziendale.
I vigili del fuoco hanno liberato dagli ingranaggi del rullo del nastro trasportatore esterno all’Afo4 il corpo di Giacomo Campo, 25enne operaio della ditta d’appalto Steel Service, morto poco prima delle 7 di oggi in un incidente sul lavoro. Il giovane era rimasto schiacciato tra il nastro trasportatore ed il rullo per cause in fase di accertamento. Secondo la versione dell’azienda non vi è stato il crollo di alcun carrello né alcun cedimento strutturale, mentre i sindacati parlano di un problema meccanico. «È possibile – sostengono fonti della Fiom Cgil – che il contrappeso, quando è stato tolto il minerale, non sia stato tirato su, consentendo al rullo di muoversi e di trascinare l’operaio. Attendiamo gli esiti degli accertamenti, ma il lavoratore per noi doveva trovarsi non lì ma oltre il passamano». L’area in cui è avvenuto l’incidente è stata interdetta dalla magistratura, che ha aperto una inchiesta per stabilire l’esatta dinamica e accertare le responsabilità.
Folgorato l’operaio morto stamattina nel deposito Atac di rimessaggio dei treni a Roma. È quanto emerso da un primo esame del medico legale intervenuto sul posto insieme alla polizia. Da una prima ricostruzione sembra che l’uomo, capo elettricista, si sia recato in officina per una riparazione. Dopo qualche minuto altri operai, non vedendolo, sono andati a cercarlo e lo hanno trovato morto. «Un incidente assurdo, su cui sta indagando la magistratura ma che, come ogni morte sul lavoro, poteva essere evitato – dichiara Filt Cgil Roma e Lazio – nessun ritardo può costare una vita ed in nessuna circostanza la pressione e la fretta per garantire un servizio adeguato alla domanda di trasporto possono sopperire alle carenze negli organici, nell’organizzazione del lavoro, negli investimenti sulla sicurezza. Mancanze croniche, segnalate da anni e che adesso sarebbe troppo facile elencare, ma che conducono nelle peggiori ipotesi a questo genere di incidenti. Le procedure di lavoro devono essere rispettate, gli organici completati, i turni di riposo garantiti in ogni circostanza».
«Siamo stanchi di passare il tempo a contare le vittime, dirette ed indirette, del lassismo e della mancata messa in sicurezza». È Fabiola Bravi dell’Usb Lavoro Privato a intervenire così sulla morte oggi di un operaio dell’Atac -Roma, che segue quelle del giovane operaio all’Ilva di Taranto e dell’operaio a Piacenza. «I dati relativi agli infortuni mortali pubblicati dall’Inail consegnano un quadro allarmante. Nel 2015 si è registrato un aumento del 16% delle morti bianche, rispetto al 2014» afferma Bravi. «Un chiaro segnale -aggiunge la sindacalista- che le aziende investono sempre meno nella prevenzione della sicurezza e della salute dei lavoratori». «L’avviata riforma per il riordino e la semplificazione del Tu sulla sicurezza sul lavoro preoccupa ulteriormente. Tra le proposte della riforma -indica- sono state inserite norme più flessibili per i datori di lavoro, tra le quali la forte riduzione delle responsabilità penali in capo alle aziende». «È inaccettabile che nel XXI secolo le aziende non investano sulla prevenzione e la salvaguardia della sicurezza e della salute dei propri dipendenti. L’Usb esprime tutta la propria solidarietà alle famiglie delle vittime e continuerà a denunciare a gran voce le gravi condizioni di precarietà nelle quali sono costretti ad operare ancora oggi i lavoratori» conclude la sindacalista.

LO SCIOPERO IN INDIA (E OLTRE)

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da http://www.senzasoste.it/le-nostre-traduzioni/un-grande-sciopero-di-massa-in-india-e-stato-anche-generale

strike-india
di G. SAMPATH - tratto da http://www.connessioniprecarie.org
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Pubblichiamo un articolo, scritto dal giornalista indiano G. Sampath, sullo sciopero che ha investito l’India il 2 settembre scorso. Anche se i numeri sono stati probabilmente sovrastimati dai sindacati, che hanno dichiarato almeno 180 milioni di scioperanti, l’enorme partecipazione di uomini e donne allo sciopero è stata una potente dimostrazione di forza. Tuttavia, lo sciopero non ha ottenuto una risposta adeguata da parte del governo centrale, che si è limitato a reprimere e offrire un aumento salariale pressoché ridicolo. D’altronde il successo, così come i limiti, di questi «All India Strikes» ci aiutano a comprendere fenomeni che vanno ben oltre i confini dell’India stessa. Questo sciopero arriva dopo che la Commissione Seventh Pay, sostenuta dal governo centrale, ha raccomandato di aumentare i salari per i lavoratori delle imprese pubbliche. Lo sciopero, che ha visto in prima fila i sindacati del settore pubblico, ha però coinvolto anche lavoratori di aziende private, soprattutto in settori come quello automobilistico. Tuttavia, tali dinamiche di allargamento e il parziale «successo» dello sciopero lasciano aperte alcune questioni centrali nella prospettiva del superamento dei reali limiti politici dell’azione sindacale, questioni che vanno aldilà dello specifico contesto indiano. Alcuni critici hanno sostenuto che i loro sindacati e politici di riferimento non hanno dato alcun segnale di voler seriamente sindacalizzare e schierarsi con i lavoratori con contratto a chiamata e informali. Non essendoci statistiche ufficiali – e le statistiche non riescono mai davvero a comprendere il movimento sul campo – è difficile avere l’esatta misura della partecipazione dei lavoratori con contratto a chiamata negli scioperi in India. Di sicuro, la difficoltà di organizzare il lavoro informale e di coinvolgere i lavoratori con contratto a chiamata nello sciopero è uno dei principali punti di debolezza e, quindi, una delle maggiori sfide del movimento operaio, indiano e globale. Anche se il problema del lavoro a chiamata sta si sta imponendo all’attenzione e la sua eliminazione era fra le rivendicazioni dei lavoratori, non è ancora stato fatto abbastanza dai sindacati principali. Se lo sciopero del 2 settembre aveva principalmente come obiettivo una contrattazione economica col governo, tuttavia è evidente che nel caso dei lavoratori non organizzati ogni lotta fa emergere questioni politiche e sociali, chiamando in causa lo Stato, insieme ai problemi di salario, sanità, istruzione, condizioni di lavoro e altre questioni relative alla mera sopravvivenza – e i sindacati ne sono ben consapevoli. Tanto per i sindacati quanto per i lavoratori, la sfida sarà allora riuscire a produrre una convergenza delle lotte che vada oltre la mera solidarietà e le solite alleanze politiche per creare le condizioni per un sciopero industriale, logistico e metropolitano.
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Il 2 settembre 2016 secondo le stime 180 milioni di lavoratori hanno scioperato in tutta l’India, prendendo parte a ciò che è stata salutata come la più grande azione industriale coordinata del mondo. Tutti i sindacati centrali, a eccezione del sindacato Bharatiya Mazdoor Sangh (BMS – Sindacato dei lavoratori indiani) affiliato al partito di governo (BJP – Bharatiya Janata Party – Partito degli indiani), hanno partecipato allo sciopero. Lavoratori del settore privato, del pubblico e del settore non organizzato, tranne quelli delle ferrovie, si sono uniti allo sciopero. Tra i settori coinvolti c’è quello bancario, assicurativo, energetico, petrolifero, portuale, e anche l’industria militare. Hanno preso parte allo sciopero in numero considerevole anche i lavoratori migranti e le donne, soprattutto lavoratrici del tessile.
È stato il quarto sciopero di tale entità in tutta l’India da quando i sindacati centrali si sono uniti nel 2009. I precedenti scioperi erano stati nel 2010, nel 2011 e nel 2015. Si tratta di uno sciopero annuale – l’anno scorso si è tenuto lo stesso giorno, il 2 settembre – quindi non è stato convocato in risposta a uno specifico evento o scintilla. Quest’anno, però, la partecipazione è stata maggiore specialmente a causa dell’aumento dei prezzi e del maggior numero di lavoratori sfruttati attraverso i contratti a chiamata. Il governo, in modo quasi nascosto, sta anche facendo passare leggi contro i lavoratori –attraverso i governi dei singoli Stati (o i governi provinciali)negli Stati che controlla, come ad esempio il Rajasthan, l’Haryana e il Gujarat – tutti governati dal BJP. E ci si aspetta che le loro riforme del lavoro, estremamente svantaggiose per i lavoratori, diventino un modello da imitare anche per altri Stati. Così, anche senza l’approvazione di legislazione sul lavoro da parte del governo centrale, i lavoratori stanno sentendo crescere la tensione su di loro.
I lavoratori in sciopero avevano una piattaforma  rivendicativa articolata in 12 punti, ovvero:
— Salario minimo di non meno di 18,000 rupie al mese
— Fine del lavoro con contratti a chiamata per il perennial work (lavoro non a tempo determinato) e assicurare il pagamento dello stesso salario e degli stessi benefit a lavoratori a contratto e regolari
— Registrazione obbligatoria dei sindacati entro 45 giorni dalla richiesta
— Pensione di non meno di 3000 rupie al mese per tutti i lavoratori
— Abbandono delle «riforme» neoliberali della legislazione sul lavoro
— Previdenza sociale universale per tutti i lavoratori
— Stop alle privatizzazioni delle imprese pubbliche
— Rigida applicazione di tutte le attuali leggi sul lavoro senza alcuna eccezione
— Rimozione dei tetti imposti al pagamento e all’estensione del fondo previdenziale e dei sussidi (benefit di sicurezza sociale)
— Contrasto alla crescita dei prezzi attraverso l’universalizzazione di un sistema pubblico di distribuzione (negozi che forniscono cereali e cherosene a tariffe calmierate attraverso sovvenzioni)
— Fine degli investimenti stranieri nel settore ferroviario, assicurativo e della difesa
— Controllo dell’aumento dei prezzi attraverso il divieto di pratiche speculative.
Lo sciopero ha conseguito un blocco completo dell’attività industriale in due Stati dell’India guidati dalla sinistra, il Kerala e il Tripura, in quanto il partito comunista al governo non ha tentato di ostacolarlo. Inoltre, lo sciopero ha ottenuto risultati significativi in molti altri Stati, andando a colpire il sistema dei trasporti pubblici e bloccando le centrali elettriche. Il governo centrale ha fatto del suo meglio per far fallire lo sciopero, arrestando lavoratori che distribuivano volantini nella cintura industriale del Manesar, arrestando infermiere nella capitale e fermando lavoratori che manifestavano nello Stato di origine del primo ministro, il Gujarat. Con una forza-lavoro di 472 milioni di persone, di cui solo il 4% gode di tutele sul lavoro, le principali richieste dei lavoratori in sciopero sono state di mettere fine all’informalizzazione del lavoro e di assicurare il pagamento di un salario minimo.
Secondo le stime del comparto industriale, lo sciopero ha inflitto all’economia indiana una perdita di 180 miliardi di rupie. I media mainstream, la cui reazione ha oscillato tra l’indifferenza e il fastidio, si sono largamente soffermati su come lo sciopero abbia creato inconvenienti per la popolazione, ovvero per la classe media. La maggior parte dei lavoratori, comunque, ritiene che uno sciopero di un giorno possa tutt’al più inviare un messaggio simbolico al governo neoliberale e che c’è bisogno di intraprendere una robusta campagna durante l’anno per far sì che le richieste siano prese sul serio. Il governo del NDA (National Democratic Alliance), che è nazionalista e di destra, ha provato a disinnescare lo sciopero annunciando un aumento di 104 rupie nel salario minimo giornaliero dei lavoratori semi-specializzati non impiegati nel settore agricolo, ma non è riuscito a convincere i sindacati che hanno deciso di andare avanti con lo sciopero. È riuscito, invece, a convincere il sindacato vicino al partito di governo (BMS) a tirarsi indietro. A parte questo, il governo non ha cambiato linea riguardo alle «riforme» neoliberali del mercato del lavoro.
I sindacati hanno giocato un ruolo cruciale nello sciopero – si tratta, dopo tutto, del loro gran giorno. Ogni centrale sindacale è una federazione di centinaia di più piccole strutture sindacali diffuse in vari settori. Così, quando le dieci maggiori centrali sindacali si sono unite, con l’eccezione del BMS, sono riuscite a raggiungere un risultato notevole in termini di partecipazione. Tuttavia, questa volta, eccetto i sindacati sotto il controllo del management, la gran parte dei sindacati indipendenti ha voluto partecipare per mandare un messaggio. I lavoratori spesso accusano la leadership sindacale di non fare granché per tutto l’anno e di attivarsi solo il 2 settembre per fare un’azione simbolica, cosa che viene percepita come una concessione pro-forma.
È un dato di fatto che gli organizzatori dello sciopero hanno annunciato ulteriori iniziative politiche per il futuro solo in termini vaghi. Alcune formazioni minori, come la MASA (Mazdoor Adhikar Sangharsh Abhiyaan), formatasi tre giorni prima dello sciopero del 2 settembre, hanno annunciato un programma annuale di azioni centrate attorno a tre problemi: il salario minimo, l’eliminazione del lavoro con contratto a chiamata per il lavoro non limitato nel tempo (perennial work) e la fine delle riforme del lavoro. Ma non c’è una vera convergenza per ora. I sindacati non sono ancora organicamente uniti. Dal mio scettico punto di vista, credo che una convergenza politicamente coordinata avrà bisogno di più tempo, organizzazione, mobilitazione e lotta. Infine, l’impatto politico dello sciopero sull’opinione pubblica è stato moderato. Se in luogo dell’opinione pubblica prendiamo l’opinione dei lavoratori – raccogliendo large masse di lavoratori, lo sciopero ha contribuito ainnalzare il livello di quella che è considerata una militanza «accettabile» nel movimento della classe operaia.

BAYER-MONSANTO, L'OFFENSIVA DEI COLOSSI

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Da qualche giorno siamo davanti ad un salto di qualità nella governance capitalista, perchè da questa fusione in poi, un oligopolio controllerà l'accesso al cibo, che è un bisogno primario e fondamentale, mentre fino ad oggi eravamo rimasti all' hi tech o comunque a settori non imprescindibili per la vita umana stessa.
E' anche un processo che in qualche modo realizza nei fatti il TTIP, visto che la Monsanto ormai è assorbita in un'azienda europea; ma, per i punti più legati alle questioni economiche e alle lotte intestine tra i grandi gruppi, rimando a questo ottimo link: http://www.linkiesta.it/it/article/2016/08/19/fusione-bayer-monsanto-un-disastro-da-evitare-per-lagricoltura-mondial/31514/.
L'articolo che segue sarà invece molto più sintetico e agibile, anche se, per forza di cose, meno dettagliato rispetto al link immediatamente sopra.


da http://www.eddyburg.it/2016/09/bayer-monsanto-loffensiva-dei-colossi.html



«La notizia dell’acquisto di Monsanto da parte della Bayer fa tremare i polsi ma è solo un tassello importante di un vertiginoso processo di fusioni e aquisizioni in atto nell’industria sementifera-agrochimica e in altri settori strategici del business della catena agroalimentare »Comune.info, 19settembre 2016 (c.m.c.)


Risultati immagini per fusione bayer monsanto

I nuovi colossi accrescono il loro potere nei mercati chiave e si aprono la strada per un incontrollabile aumento dei prezzi dei mezzi di produzione. Avranno inoltre più facilmente le leggi e i regolamenti necessari alla loro guerra contro la sovranità alimentare e l’agricoltura contadina. L’enorme concentrazione in corso non mira tuttavia al solo controllo dei mercati, vuole quello digitale e satellitare dell’intera agricoltura del pianeta. L’offensiva dei colossi dell’agro-business va fermata con ogni mezzo possibile .

Mercoledì 14 settembre, infine, Monsanto ha accettato la terza offerta di acquisto della Bayer. Oltre ad essere una delle maggiori aziende farmaceutiche, adesso Bayer sarà la più grande impresa mondiale nella produzione di sementi e agrotossici. Malgrado abbia grandi dimensioni e conseguenze di ampia portata, questa è solo una delle fusioni recenti tra le imprese transnazionali dell’agro-business. Ci sono movimenti anche tra le imprese di fertilizzanti, tra quelle che producono macchinari e tra quelle che possiedono banche dati che influiscono nei processi agricoli. E’ una battaglia per il controllo non solo dei mercati ma anche delle nuove tecnologie, per il controllo digitale e satellitare dell’agricoltura. 

Diversi fattori influiscono nell’accelerazione dei processi di fusione cominciati nel 2014. Uno di essi è che le coltivazioni transgeniche si stanno imbattendo in molti problemi, cosa che spinge i giganti dei transgenici a cercare posizioni più solide di fronte a ciò che sembra essere una fonte di vulnerabilità crescente. E’ significativo che un giornale conservatore come The Wall Street Journal riconosca che il mercato è stato debilitato dai “dubbi” degli agricoltori degli Stati Uniti sulle coltivazioni transgeniche, visto che, dopo 20 anni nel mercato, esse mostrano ancora numerosi svantaggi: “erbe super-infestanti” resistenti agli agro-tossici, rendimenti che non si equiparano agli alti costi dei semi transgenici, né al costo dell’applicazione di agrotossici in maggior quantità e concentrazione per uccidere erbe infestanti e parassiti resistenti, né all’aumento del lavoro per controllare le erbe. Il crollo dei prezzi delle commodity agricole ha accelerato il malessere facendo sì che gli agricoltori che seminavano transgenici tornassero a cercare sementi non transgeniche, più convenienti e con maggior rendimento. (The Wall Street Journal, 14/9/16). 


Se verrà autorizzata la fusione con Monsanto, Bayer passerà a controllare circa un terzo del commercio globale di agrotossici e di sementi commerciali. L’operazione fa seguito a quella di Syngenta-Chem-China e DuPont-Dow, in un vertiginoso processo di fusioni e aquisizioni nell’industria sementifera-agrochimica. Monsanto, Syngenta, DuPont, Dow, Bayer e Basf insieme controllano il cento per cento del mercato dei semi transgenici, che adesso resterebbe nelle mani di tre sole imprese. Queste fusioni sono sottoposte al vaglio di varie agenzie anti-monopolistiche, visto che costituiscono blocchi che avranno enorme potere nei mercati chiave e produrranno certamente un aumento dei prezzi dei mezzi di produzione. Forzeranno, inoltre, le leggi e regolamenti a loro favore, contro la sovranità alimentare e le sementi contadine. Soltanto il fatto che tre imprese controlleranno tutte le sementi transgeniche dovrebbe essere argomento sufficiente a qualasiasi paese per rifiutare queste coltivazioni, a causa dell’inaccettabile dipendenza che comportano. 

Però il contesto delle operazioni nella catena agroalimentare è più complesso, e include pure gli anelli vicini della catena, così come spiega in modo dettagliato il Gruppo ETC nella sua nalisi della fusione Bayer-Monsanto  Sebbene il consolidamento del settore dei semi e degli agrotossici esiste da decenni e sta toccando il suo apice, questi due settori hanno una vendita molto inferiore a quella delle imprese che producono fetilizzanti e macchinari, gruppi che da alcuni anni hanno cominciato a fare incursioni nel mercato dei primi, stabilendo alleanze strategiche. Anche quelle industrie, inoltre, sono in un processo di consolidamento. Poco prima dell’accordo tra Monsanto e Bayer, due delle maggiori imprese di fertilizzanti, Agrium e Potash Corp. haanno deciso di fondersi trasformandosi nella maggiore impresa di fertilizzanti a livello mondiale. Cosa che, secondo gli analisti dell’industria, ha spinto Bayer ad aumentare l’offerta per Monsanto. 

Contemporaneamente, nel settore delle macchine rurali – non si tratta solo di trattori e mietitrebbiatrici, ma anche di droni, robot e sistemi Gps che permettono di raccogliere i dati della campagna con i satelliti – è andato sviluppando alleanze con tutti i giganti dei transgenici, che comprendono l’accesso alle banche dati agricole, del suolo, del clima, delle malattie, eccetera. Nel 2015, John Deere, con la maggior impresa di macchine al mondo, si era accordato con Monsanto per comprarle la succursale Precision Planting LLD, azienda di dati agricoli, l’acquisto è stato però sottoposto al Dipartimento della Giustizia, che ha sospeso la vendita perché John Deere sarebbe andato a “dominare il mercato dei sistemi di coltivazione di precisione e avrebbe potuto alzare i prezzi e rallentare l’innovazione, a spese degli agricoltori statunitensi che dipendono da quei sistemi”, giacché Precision Planting LLD e Deere sarebbero passati a controllare l’85 per cento del mercato delle coltivazioni di precisione.(Departamento de Justicia de Estados Unidos, 31/8/16, http://tinyurl.com/j9x6am9). 

Siccome questo accordo non è stato concluso, la succursale continua ad essere proprietà di Monsanto e quindi all’interno del pacchetto della nuova fusione, cosa che potrebbe favorire un nuovo ruolo della Bayer nel tema del controllo digitale e muovere tutti pezzi della scacchiera. Ancora una volta, il trattamento dei dati sul suolo, il clima, l’acqua, la genomica delle coltivazioni, le erbe e gli insetti relazionati, sarà ciò che decide chi controlla tutti i primi passi della catena agroalimentare industriale. In questo schema, gli agricoltori sono solo un semplice strumento nella corsa delle imprese per produrre guadagni – non alimenti – cosa che condiziona gravemente la sovranità dei paesi, e non solo quella alimentare.



IL JOBS ACT E' TUTTO UN FLOP

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da  http://ilmanifesto.info/il-jobs-act-e-tutto-un-flop/


 Inps. Nei primi sette mesi del 2016 tracollo delle assunzioni: -33,7%. Prosegue il boom dei voucher: + 36,2%. Tagliati gli sgravi, crollano gli assunti. Fine annunciata di una «riforma strutturale» buona per essere presentata ai tavoli con Bce e Germania. Pioggia di bonus e populismo a favore delle imprese: dieci miliardi di euro volatilizzati



Finiti gli incentivi, crollano le assunzioni del Jobs Act. Lo ha confermato, ancora una volta ieri, l’Osservatorio sul precariato dell’Inps secondo il quale nei primi sette mesi del 2016 il saldo tra cessazioni e contratti a tempo indeterminato è pari a 76.324 mila, l’83,5% in meno rispetto all’anno scorso, quando gli sgravi fiscali per i nuovi assunti con il «contratto a tutele crescenti» era più alto. A conferma del fallimento del Jobs Act può essere utile anche la comparazione con i dati del 2014 quando gli sgravi regalati alle imprese non c’erano ancora.
Due anni fa il saldo sui rapporti a tempo indeterminato era positivo: +129.163 unità. Gli oltre dieci miliardi di euro pubblici elargiti in tre anni dal governo Renzi alle imprese non sono serviti nemmeno a migliorare il dato del 2014, uno dei peggiori anni della crisi. Il rallentamento delle assunzioni ha coinvolto i due pilastri sui quali ha fondato la propria politica occupazionale: calano i contratti a tempo indeterminato (-379 mila pari a – 33,7% rispetto ai primi sette mesi del 2015) e le trasformazioni di contratti precari precedenti in contratti a tempo indeterminato (-36,2%).
Dopo il taglio dell’incentivo per le assunzioni – oggi è al 40% entro il limite annuo di 3.250 euro e durerà due anni e non tre- i rapporti di lavoro agevolati rappresentano il 32,3% del totale delle assunzioni/trasformazioni a tempo indeterminato. Nel 2015 era al 60,8%. Oltre due terzi delle nuove assunzioni a tempo indeterminato ha riguardato operai (539.330 su 743.695) mentre gli impiegati assunti stabilmente sono stati 188.171. Fino al luglio le assunzioni con esonero contributivo biennale sono state 227mila, le trasformazioni dei rapporti a termine che beneficiano del medesimo incentivo sono 71mila.
Il totale è 298 mila rapporti di lavoro agevolati. Teniamo bene a mente questa cifra – per la quale Renzi ha fatto spendere miliardi – e confrontiamola con il dato complessivo delle assunzioni a tempo determinato nel settore privato: due milioni e 143 mila in sette mesi, in linea con il 2015 (+ 0,9%) e in crescita rispetto al 2014 (+ 3,5%).
Complessivamente le assunzioni tra gennaio e luglio sono state 3 milioni e 428 mila, comprensive anche di 408 mila stagionali. Rispetto al 2015 la perdita è stata del 10% secco, 382 mila unità, la maggior parte delle quali hanno coinvolto i contratti a tempo indeterminato (-379 mila), i contratti che il governo ha voluto incentivare con la sua scriteriata politica dei bonus.
Continua il boom dei voucher, la principale innovazione prodotta dal Jobs Act che ne ha esteso l’ambito di applicazione: fino a luglio sono stati venduti 84,3 milioni buoni dal valore nominale di 10 euro con un incremento del 36,2% rispetto ai primi sette mesi del 2015. Si tratta di una «frenata» rispetto alla crescita del 73% registrata nel 2015 rispetto all’anno precedente. Si conferma la tendenza dell’impresa all’uso dell’ultima forma di precarizzazione assoluta: il sistema ha ormai trovato un equilibrio e usa le prestazioni di lavoro occasionali al posto di quelle a termine. Il destino del contratto di lavoro è segnato: sarà sostituito da uno «scontrino» acquistabile dal tabaccaio.
Questi dati permettono di spiegare in un altro modo l’aumento dell’occupazione registrata pochi giorni fa dall’Istat (+189 mila unità nel secondo trimestre 2016) e festeggiato, in maniera a dir poco avventata, dal governo.
I dati dell’Inps (e del ministero del lavoro) registrano i flussi tra un contratto attivato e un altro cessato.
Quelli dell’Istat fotografano invece gli stock, la quantità di chi è al lavoro in un determinato momento.
Le rilevazioni registrano i movimenti compiuti entro la settimana precedente: si è occupati anche se si acquista un voucher. Qui la quantità non risponde a nessun criterio di qualità. Ciò che conta per il governo è creare un movimento artificiale dei contratti in modo tale che le statistiche lo registrino. Con questi dati l’esecutivo può sedersi ai tavoli europei e fingere che il mercato del lavoro sia in ripresa. A tutti fa comodo crederci: ieri anche il governatore della Bundesbank Jens Weidmann ha dato il suo ok al Jobs Act. Le cose stanno diversamente: il governo non rinnoverà gli incentivi nella prossima legge di bilancio, tranne che per giovani e assunzioni nel Sud.
«I voucher fanno statistica ma non fanno occupazione. Finiremo l’anno con 140 milioni di euro di voucher e non è una cosa accettabile. Bisogna assolutamente mettere mano a questo meccanismo – sostiene Pierluigi Bersani (Pd) – Il jobs act ha bisogno di una messa a punto, ci sono problemi serissimi come quelli che riguardano le trasformazioni in contratti a tempo indeterminato che sono meno di quando c’era l’articolo 18 e di quando non c’erano gli incentivi».
«Il Jobs Act è un nuovo bluff di Renzi. I miliardi che è costato potevano andare a chi è in povertà» sostengono i parlamentari Cinque Stelle.
«Questa riforma ha destrutturato i diritti del lavoro. L’aumento dei voucher è il frutto del totale spostamento verso il lavoro nero, non dichiarato e senza tutele» afferma la segretaria della Cgil Susanna Camusso.
«La liberalizzazione dei voucher genera una valanga sempre più grande di precarietà – sostiene Stefano Fassina (Sinistra Italiana) – e spinge alla riduzione delle retribuzioni».

L'OCSE BOCCIA ANCORA LE PREVISIONI DI CRESCITA

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da http://ilmanifesto.info/locse-taglia-ancora-le-previsioni-di-crescita/

Italia. Incagliati allo 0,8 quest’anno e nel 2017. Renzi replica con il piano "Industria 4.0": 23 miliardi di incentivi e investimenti destinati alle imprese


Doccia fredda, anzi gelata, sulle previsioni di crescita dell’Italia: l’Ocse, nel suo ultimo Economic Outlook, ha limato al ribasso (parecchio al ribasso, soprattutto per il 2017) le stime dello scorso giugno. Quest’anno la nostra crescita si dovrebbe attestare al +0,8%, e lo stesso l’anno prossimo (rispettivamente -0,2% e -0,6% rispetto al quadro precedente). Ma sono dati che ridimensionano ancora di più le aspettative del governo Renzi: appare eccessivo perfino lo 0,9% su cui vorrebbe puntare il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan per quest’anno (cifra che ha fatto trapelare di voler inserire nella Nota di aggiornamento al Def attesa il 27 settembre), mentre è evidentemente del tutto utopistico l’1,4% che l’attuale Def indica per il 2017.
A far ripartire la crescita dovrebbe pensare il piano presentato ieri dal ministro dello Sviluppo Carlo Calenda insieme allo stesso premier Matteo Renzi, al Museo della scienza di Milano davanti a una platea di industriali: Industria 4.0. Si tratta di 23 miliardi di euro in 4 anni: 13 miliardi di incentivi fiscali (tra cui ad esempio gli interventi su ammortamento e super ammortamento già previsti) e 10 miliardi di investimenti. Gli incentivi fiscali saranno «orizzontali» senza bisogno di bolli ministeriali o simili, ha spiegato il ministro. «Incentivi a bando non ne faccio più», ha aggiunto, e subito dopo ha promesso nuove defiscalizzazioni per incentivare «lo scambio salario produttività». Gli ha fatto eco il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia: «È una questione di sopravvivenza per il sistema industriale italiano».
Tornando all’Ocse, comunque, seppure i numeri non siano favorevoli al governo, si è registrato un sostegno alle richieste italiane di maggiore flessibilità presso la Ue. E lo stesso istituto ha registrato l’incertezza (sul piano economico e dei mercati) legata al referendum costituzionale. I problemi relativi all’Italia, secondo la capo economista Catherine Mann, sono essenzialmente «di fiducia», a cominciare dalle «incertezze» sull’esito del referendum d’autunno. «In questo caso – ha spiegato – l’incertezza politica si è infiltrata nell’incertezza economica trascinando verso il basso i traguardi conseguiti in termini di azione pubblica».
Questa comunque la situazione economica del nostro Paese: «Nel 2016 gli investimenti e gli scambi non si sono rivelati così fruttuosi come avevamo previsto», spiega Mann. Quanto al 2017 «ci sono debolezze nell’economia mondiale e nella zona euro che peseranno maggiormente sull’Italia che su altri Paesi». «Nel caso dell’Italia c’è un governo piuttosto recente che ha compiuto notevoli progressi, in particolare sulla riforma del lavoro, e questo ha avuto effetti sulla ripresa dell’occupazione generando uno slancio positivo. L’idea era che questo slancio sarebbe proseguito per tutto il 2016 ma le nostre speranze sono andate in qualche modo deluse».
Come detto, però, l’Ocse ritiene condivisibili le richieste di flessibilità che l’Italia avanza a Bruxelles: «L’applicazione delle regole del Patto Ue – sostiene la capo economista – dovrebbe essere modificata per consentire politiche di bilancio più mirate al sostegno della crescita». Secondo lo stesso Economic Outlook, in Europa si «potrebbe fare di più», ad esempio escludendo «le spese nette di investimento dalle regole fiscali e, più in generale, sviluppando un approccio coerente per usare discrezionalità nell’applicazione delle regole».
Riviste al ribasso anche le stime mondiali: il Pil globale viene stimato al 2,9% nel 2016 e al 3,2% nel 2017 (-0,1 punti rispetto all’outlook di giugno), quello dell’eurozona all’1,5% nel 2016 e all’1,4% nel 2017 ( rispettivamente -0,1 e -0,3 punti). Quindi l’invito agli Stati a fornire maggiore sostegno alle politiche commerciali e a diminuire l’«eccessivo ricorso» alle politiche monetarie delle banche centrali. A tre mesi dal referendum sulla Brexit, infine, «la crescita britannica è rallentata: le incertezze restano molto forti». Il Pil del Regno Unito dovrebbe crollare dall’1,8% del 2016 all’1% del 2017, «un tasso di molto inferiore a quello degli ultimi anni», conclude l’Ocse.

WEEK END MAGAZINE

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LE TAGLIATELLE

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Fate una pasta d'ova e di farina,
E riducete rimenando il tutto
In una sfoglia, ma non troppo fina,
Uguale, soda e, sul taglier pulito,
Fatene tagliatelle larghe un dito.
Che farete bollire allegramente
In molt'acqua salata, avendo cura
Che, come si suol dir, restino al dente;
Poiché se passa il punto di cottura
Diventan pappa molle, porcheria,
Insomma roba da buttarla via.
Dall'altra parte in un tegame basso,
Mettete alcune fette di prosciutto
Tagliato a dadi, misto, magro e grasso;
Indi col burro rosolate il tutto.
Scolate la minestra e poi conditela
Con questo intinto e forma, indi servitela.
Questa minestra che onora Bologna
Detta la Grassa non inutilmente
Carezza l'uomo dove gli bisogna,
Dà forza ai muscoli ed alla mente
Fa prender tutto con filosofia
Piace, nutre, consola e così sia.
(Lorenzo Stecchetti)

PONTEDERA: LA VITTORIA DEL LAVORO!

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da  http://www.senzasoste.it/dintorni/la-vittoria-degli-operai-iscot-alla-sole-piaggio-di-pontedera-cronaca-interviste-ed-analisi

Sì è chiusa positivamente mercoledì sera la vicenda dei 7 lavoratori della Iscot, l'azienda in appalto che si occupa delle pulizie industriali all'interno della fabbrica Sole.
Dopo una dura e tenace lotta che ha visto la solidarietà e il supporto di molte rsu e operai delle fabbriche vicine, i lavoratori interinali hanno ottenuto un contratto a tempo indeterminato e migliori condizioni di lavoro. Ieri si sono sfiorati momenti di tensione con l'arrivo delle forze dell'ordine ma in seguito alla convocazione di un ulteriore sciopero alla Sole, la lotta dei lavoratori Iscot che per giorni hanno presidiato i cancelli, ha avuto un esito positivo dopo l'incontro convocato in tarda serata.
Da questa lotta c'è molto da imparare per la determinazione messa in campo, e allo stesso tempo c'è da capire cosa si può migliorare. Sicuramente l'importanza della coscienza politica e sindacale dei lavoratori è un elemento fondamentale della lotta per portare a casa dei risultati. Sarà importante ripartire con questa consapevolezza, e tenerla a mente per il futuro.

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Le lezioni della vertenza alla Sole di Pontedera
 
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La lotta dei sette lavoratori della ISCOT, sostenuti attivamente da un sindacalismo di classe (USB, Si Cobas, delegati FIOM) fortemente insediato tra i lavoratori della Sole, della Piaggio, della Ceva, ma anche da tanti altri solidali giunti di fronte ai cancelli della fabbrica, è un importante segnale di forza del mondo del lavoro.
E in un momento particolarmente duro del conflitto di classe nel paese, come dimostra l’assassinio di Abd Elsalam Ahmed Eldanf alla GLS di Piacenza lo scorso 14 settembre.
Questa vertenza ci dice sostanzialmente tre cose
1) la soggettività e la determinazione dei lavoratori (in questo caso i sette dipendenti della ISCOT) sono la pre condizione per dare il via al conflitto, facendo esplodere contraddizioni e condizioni di lavoro insopportabili.
2) la presenza del sindacalismo di classe permette alla determinazione operaia di dotarsi dei giusti strumenti organizzativi per confliggere con il padronato. Passaggi essenziali e di svolta di quella vertenza sono stati i due scioperi indetti da USB, che hanno trasformato la solidarietà in comunanza, dando sponda a chi intendeva scendere in piazza e fermando l’intervento delle forze dell’ordine in una fase cruciale del conflitto, il giorno prima del cedimento padronale.
3) nel conflitto, se guidato da una soggettività collettiva che ha come scopo gli interessi di tutti i lavoratori, si creano le condizioni per la ricomposizione di un fronte operaio indebolito e parcellizzato dalle nuove forme del lavoro e della contrattazione, che dal pacchetto Treu di Prodi al Jobs Act di Renzi hanno frantumato dall’interno un’unità da ricostruire in mezzo a mille difficoltà e conflitti, come in questa vertenza.
Il movimento operaio diviene soggetto collettivo cosciente nel momento nel quale si è dotato del sindacato come arma per emanciparsi dalla propria condizione di sfruttamento. Non è casuale il costante tentativo padronale di sbarazzarsi del sindacalismo di classe e conflittuale, sia attraverso la repressione diretta, sia fomentando la sfiducia nel concetto stesso di sindacato, attraverso la sistematica corruzione e sussunzione nei meccanismi di potere del sindacalismo confederale.
Nonostante questa potente e feroce offensiva padronale e governativa in atto, sta crescendo nel nostro paese una soggettività sindacale, sociale e politica forte e indipendente, che si dà come obiettivo la generalizzazione alle tante e generose vertenze locali, che da sole non sono in grado di affrontare l’attuale livello di scontro, imposto da un sistema di potere che si muove a livello continentale, attraverso normative omogenee, dettate dalla troika europea e dalla grande finanza, applicate dai governi nazionali (il Jobs Act di Renzi, la Loi Travail di Hollande, il Piano Hartz della Merkel, i Memorandum di Tsipras….) e protette dai manganelli di polizia e carabinieri.
Una soggettività incarnata da migliaia di lavoratori, precari, senza casa, immigrati, giovani, pensionati che si mettono in gioco tutti i giorni e a tutto campo, dalle fabbriche alla logistica, dalle cooperative ai trasporti, dai braccianti al pubblico impiego, nei quartieri popolari.
Lo sciopero del 21 ottobre, al quale seguirà la manifestazione del 22 contro Renzi e per il NO al Referendum, sono passaggi essenziali di accumulo di forze, indispensabili per cambiare i rapporti di forza generali nella società e nel paese. Solo un fronte ampio ci può dare l’energia necessaria per consolidare le piccole e grandi conquiste, per contrastare i piani padronali e politici di annichilimento della classe operaia, del mondo del lavoro e dei settori popolari. 
La lotta e le conquiste ottenute a Pontedera sono un patrimonio comune da consolidare e da usare nel più generale conflitto tra mondo del lavoro e padronato, tra masse popolari senza rappresentanza e un blocco di potere intenzionato a chiudere ogni spazio di agibilità politica, attraverso la distruzione definitiva della Costituzione.
Un cambiamento di rapporti di forza che deve contenere i germi dell’alternativa sistemica al capitalismo, attraverso una rottura rivoluzionaria del sistema politico/statuale vigente a livello nazionale e continentale, per la socializzazione dei mezzi di produzione e il controllo operaio e popolare sulla società e sulla produzione.
La vittoria di Pontedera ci dà una salutare spinta in questa partita da giocare per il prossimo futuro, a partire dallo sciopero e dalla manifestazione del prossimo 21 e 22 ottobre.
Rete dei Comunisti - Pisa
23 settembre 2016
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Vittoria degli operai Iscot dopo tre giorni di blocchi alla Sole
sole
Dopo dieci giorni di sciopero e presidio permanente dei lavoratori Iscot davanti alla fabbrica Sole, negli ultimi tre giorni ci sono state molte accelerazioni di fronte al tentativo padronale di piegare questa lotta e non sono mancate le provocazioni poliziesche. Alla fine però la resistenza ha pagato e nella serata di ieri la ditta ha ceduto sul punto dei contratti a tempo indeterminato.

Le condizioni
I sette operai delle pulizie industriali lavoravano in realtà per conto di un’agenzia interinale, che procurava manodopera alla Iscot, in appalto alla Sole, che produce pezzi per l’indotto Piaggio. Un vergognoso sistema di scatole cinesi che si concretizzava in contratti irregolari della durata di poche settimane e condizioni di lavoro da schiavitù. Nella piattaforma di rivendicazioni presentata con l’inizio dello sciopero (12 settembre) il punto centrale era proprio quello dei contratti: i lavoratori esigevano contratti a tempo indeterminato oppure con clausole di reintegro in caso di scadenza dell’appalto. E’ proprio questa rivendicazione che creava problemi alla Iscot, ma soprattutto alla Sole, dove lavorano circa 200 operai di cui molti interinali da lunghi anni. Cedere sul punto dei contratti avrebbe significato dimostrare anche ai propri interinali che con la lotta avrebbero potuto migliorare le proprie condizioni di vita e lavoro.
La trattativa
Il 15 settembre, messa in crisi dallo sciopero, la Iscot si apre a un primo incontro di trattativa, dove, appunto, decide di accontentare le richieste meno che quella relativa ai contratti. L’azienda si scontra però con la rigidità operaia, arrivando a un nulla di fatto; nel frattempo la Sole cerca di costringere i propri operai a svolgere le pulizie industriali al posto degli scioperanti, per depotenziare la lotta, ma in molti si rifiutano. A questo punto la Sole recide il contratto con la Iscot, che non si sta dimostrando capace di “controllare” i propri operai. Il presidio permanente continua, finalmente la Sole si manifesta come controparte diretta.
Il 19 settembre la lotta fa un salto in avanti: gli operai scelgono di colpire ancora più duramente la Sole, con lo sciopero e il blocco dei camion; non entrano e non escono le merci, né gli operai mandati a sostituire gli scioperanti. I blocchi dureranno tre giorni, durante i quali la Sole riapre alla trattativa, chiamando nuovamente in causa la Iscot (nonostante formalmente non abbia più l’appalto!); nuova proposta, ancora irrisolto il nodo dei contratti. Gli operai rifiutano.
La determinazione
A questo punto da parte padronale cominciano le iniziative più bieche; la produzione è visibilmente rallentata dalla lotta dei lavoratori delle pulizie e la sole cerca di aizzare i propri operai contro gli scioperanti. Nel frattempo la polizia, sempre presente durante i dieci giorni di presidio, si fa più invadente. Nel pomeriggio di ieri gli operai in lotta (sostenuti da tanti lavoratori di Piaggio, Ceva e Sole, da tantissimi solidali e dalle sigle SI-Cobas, Usb e Fiom) decidono il blocco totale: nessun lavoratore può entrare. La polizia si innervosisce, la celere si schiera e comincia a provocare visibilmente.
Ma dal picchetto nessuno arretra, e alla fine la polizia viene smobilitata. In serata giunge la comunicazione: la Iscot vuole un incontro, riceverà nuovamente l’appalto dalla Sole ed è pronta a cedere sul tempo indeterminato. E’ vittoria!
Adesso
Questa straordinaria lotta ci ha consegnato alcune indicazioni fondamentali di cui fare tesoro in vista delle tante battaglie che ancora dovrebbero nascere nel mondo del lavoro.
Tornare a dare significato allo sciopero, come momento di danno per il padrone e non come sfilata simbolica e autolesionista. Trovare i canali per unire i lavoratori dello stesso indotto su rivendicazioni comuni, dopo decenni di subappalti e frammentazioni. Non cedere ai ricatti del padrone, e mantenere fiducia nelle proprie possibilità, perché la forza collettiva dei lavoratori può essere spaventosa.
Stavolta ha fatto cilecca l’arroganza di Iscot/Sole e di Piaggio e FCA loro sponsor e committenti
Sei operai e un’operaia (una sorta di “magnifici sette”), inseriti come interinali dall’impresa appaltatrice Iscot, che vanta appalti in mezza Europa, a fare pulizie industriali nella Sole di Pontedera, che produce stampaggi per la Piaggio di Colaninno, per la FCA di Marchionne e per altre aziende meno famose (pardon, famigerate!), si sono messi in testa, un bel giorno di settembre già inoltrato, di smetterla di avere contratti, rinnovati ogni 2-3 settimane, anche di 8 ore settimanali, e di lavorarne 40 o 50, per rivendicare l’assunzione con contratto a tempo indeterminato.
Sono entrati in sciopero e, adottando un’antica forma di lotta per la verità mai abbandonata dagli operai, hanno organizzato il blocco delle merci in entrata e in uscita, hanno piazzato un gazebo come quartier generale, hanno presidiato giorno e notte il campo della loro lotta, supportati da attivisti sindacali della Piaggio, della Sole, del Polo Logistico che si trova a poche decine di metri e dove lavorano un po’ meno di 200 lavoratrici e lavoratori (parecchi più della metà per New Job, il resto per Ceva, impegnati nel magazzino Piaggio, di cui sono un appalto), ma soprattutto aiutati dai loro familiari e da militanti impegnati a Pisa sulle problematiche sociali di quartiere.
E così si è anche scoperto una realtà che i sindacati già presenti in Sole non avevano portato alla luce, fatta di una presenza di lavoratori interinali, impegnati direttamente in produzione, ben oltre quelli inseriti da Iscot: c’è chi dice un’ottantina, una cifra comunque massiccia, soprattutto se si considera che i lavoratori alle dirette dipendenze di Sole si aggirano sui 120.
Precarietà e sfruttamento a go-go, organizzazione dei turni imposta brutalmente senza preavviso, condizioni di sicurezza zero o quasi, diritti -non se ne parla- semplicemente cancellati.
Evidentemente, il quadro generale, con tanta disoccupazione consolidata e parecchia altra che si annuncia (la Ristori di Montecalvoli alle prese con una sessantina di “esuberi”; altrettanto la TMM di Pontedera; meno, ma non pochissimi, la Pieracci Meccanica di Fornacette: tutt’e tre indotto Piaggio; la Teseco di Ospedaletto) è la “risorsa” che dà la forza ai padroni per imporre un rapporto di lavoro di tipo schiavistico, dove tutto (condizioni e carichi di lavoro, turni, orari, ritmi, salario) è improntato a spietatezza e brutalità, con la dignità stessa di chi lavora che finisce calpestata.
I “magnifici sette” si suppone che abbiano pensato che avrebbero avuto da perdere solo le loro catene, se si fossero impegnati in questa lotta.
E -in un succedersi di manovre e contromanovre, finte e controfinte, inscenate dalle cosiddette istituzioni, da Iscot, da Sole e, dietro le quinte, da Piaggio e da FCA- ci si sono impegnati davvero con convinzione e con loro tutte quelle persone che gli hanno dato una mano, consapevoli che la partita che si stava giocando avrebbe avuto un significato proiettabile oltre la vertenza in corso, consapevoli che mai, come in questa circostanza che vedeva David contro Golia, la solidarietà sarebbe stata -come dire?- il “valore aggiunto” decisivo.
Già, la solidarietà. Essa è stata sempre determinante, in particolare quando al presidio ha fatto la sua comparsa un manipolo di poliziotti in assetto anti-sommossa a minacciare una carica: la minaccia è stata presa sul serio e in pochi minuti il presidio si è rafforzato di un centinaio di operaie e operai accorsi da New Job, da Ceva, da Piaggio, da Sole.
Quando, dopo circa 2 settimane di lotta, la Iscot ha dovuto cedere e firmare un accordo per assumere con contratto a tempo indeterminato gli operai in lotta, i sette devono, si suppone, avere interiorizzato di essere diventati davvero i magnifici sette.
Per finire, nei comunicati di alcune delle sigle sindacali presenti in Sole e firmatarie dell’accordo non si è trovata traccia della presenza nel presidio delle operaie e degli operai della New Job. Eppure, vi hanno partecipato, addirittura sono giunti precipitosamente in 20/25, in gruppo compatto, il giorno dell’arrivo del manipolo in divisa. Si può rimediare?
(23 settembre 2016)
COBAS LAVORO PRIVATO - PISA

IL FANTASTICO QUATTRO

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da http://ilmanifesto.info/voto-tra-oltre-due-mesi-regole-tra-tre-settimane/



Referendum. Il Consiglio dei ministri di ieri ha scelto la data più lontana tra quelle a sua disposizione. Il confronto tra Sì e No si terrà il 4 dicembre. Nel frattempo la campagna elettorale va avanti, senza par condicio. Il governo sceglie di far coincidere le urne con il ballottaggio presidenziale in Austria. Un’altra occasione di propaganda


Il più lontano possibile. Il referendum costituzionale si terrà domenica 4 dicembre, l’ultima data a disposizione del Consiglio dei ministri di ieri. Sarà un decreto del presidente della Repubblica a convocare formalmente il referendum, che si tiene perché la legge ri revisione costituzionale Renzi-Boschi è stata approvata dal senato e dalla camera con il voto favorevole di meno dei due terzi dei componenti. Tocca dunque agli elettori confermare o far cadere la riforma alla quale Renzi ha legato il destino suo e del governo (anche se ultimamente ha fatto più di un passo indietro). La legge sulla par condicio nell’informazione radio-tv scatterà solo all’apertura ufficiale dei comizi elettorali, il 20 ottobre.
Intorno a quella data – la scadenza prevista dalla legge è il 15 ottobre, ma negli anni precedenti il governo ha sempre ritardato – palazzo Chigi trasmetterà alla camera dei deputati la legge di Stabilità. E lì si potrà vedere quali e quante misure Renzi sarà riuscito a infilare nella manovra per cercare di risalire nei sondaggi. Che al momento non sono buoni e hanno ispirato al presidente del Consiglio il rovesciamento della sua strategia. Prima l’annuncio di voler votare «il prima possibile», «a naso il 2 ottobre», poi la scelta di rinviare al massimo. La giustificazione ufficiale è che bisogna mettere in sicurezza la manovra finanziaria, e dunque farla approvare almeno da un ramo del parlamento – la camera – prima che l’eventuale vittoria del No travolga tutto. Ma la giustificazione non regge più, anche a voler adottare il punto di vista della comunicazione di palazzo Chigi. Visto che adesso si spiega che non ci sarà alcuna ricaduta sulla legislatura, anche nel caso di sconfitta del Sì.
Secondo quanto previsto dalla legge sul referendum, il Consiglio dei ministri si sarebbe potuto riunire per fissare la data del voto già dall’8 di agosto, e in quel caso si sarebbe potuto votare anche ai primi di ottobre. Fissando il referendum il 4 dicembre, invece, Renzi non si è solo garantito la possibilità di utilizzare la legge di stabilità a fini propagandistici. Si è anche regalato tre settimane abbondanti di campagna elettorale senza regole (la par condicio entra in vigore il 45esimo giorno prima del voto). Evidentemente ha intenzione di sfruttarle fino in fondo e già dopodomani partirà per un giro di comizi, naturalmente da Firenze.
Per il voto a dicembre non ci sono precedenti in Italia, considerando ogni genere di elezione (politiche, amministrative, europee) o referendum, con l’unica eccezione del turno di ballottaggio in qualche grande comune nel ’93 e ’94. Il rischio consapevolmente corso dal governo è che molti elettori restino lontani dai seggi. Nei due unici precedenti di referendum costituzionale, che non prevede quorum di validità, l’affluenza si era fermata al 34% nel 2001, quando per confermare la riforma del Titolo V si votò in un solo giorno di inizio ottobre. Mentre aveva superato il 52% nel 2005, quando si votò in due giorni di giugno e risultò bocciata la riforma di Berlusconi e Bossi. In questo momento tutti i sondaggi danno il Sì e il No sostanzialmente appaiati, a fronte però di una grande massa di indecisi.
Il 4 dicembre si voterà anche in Austria, per il ballottaggio presidenziale più volte rimandato. A palazzo Chigi non deve essere dispiaciuta l’idea di far coincidere il referendum con quell’appuntamento già sotto i riflettori dell’Europa, perché tra i due candidati c’è un esponente dell’ultradestra nazionalista e antieuropeo. Da tempo infatti Renzi incoraggia l’impressione che la vittoria del No allontani il nostro paese dall’Europa. Dichiarazioni di sostegno al Sì da parte dei leader dei paesi alleati ne abbiamo già viste e altre ne vedremo.
Quanto al «merito» il presidente del Consiglio si ferma ancora e soltanto al titolo della sua riforma. Che sarà il testo stampato sulla scheda, in modo da risultare ingannevole per l’elettore. «Vogliamo superare il bicameralismo paritario sì o no?», chiede Renzi attraverso la sua enews diffusa un minuto dopo la conclusione del Consiglio dei ministri di ieri. E ancora: «Vogliamo ridurre il numero dei parlamentari si o no? Vogliamo contenere i costi delle istituzioni si o no? Vogliamo cancellare il Cnel si o no? Vogliamo cambiare i rapporti stato regioni che tanti conflitti di competenza hanno causato in questi 15 anni si o no?». La cancellazione del Cnel è inoppugnabile, quanto al resto la riduzione dei parlamentari è molto parziale, la riduzione dei costi solo immaginata, i rapporti stato regioni destinati a restare confusi. Malgrado una vigorosa sterzata centralista.

VINCONO I CINQUE DI POMIGLIANO!

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da http://popoffquotidiano.it/2016/09/27/fca-condannata-per-i-licenziamenti-a-pomigliano/
  • Fca. Ribaltata la sentenza di primo grado: i cinque di Pomigliano non dovevano essere licenziati. L’azienda era irritata per una manifestazione satirica contro i suicidi operai

Fca. Ribaltata la sentenza di primo grado: i cinque di Pomigliano non dovevano essere licenziati. L’azienda era irritata per una manifestazione satirica contro i suicidi operai
di Checchino Antonini
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Ce l’hanno fatta, i cinque di Pomigliano hanno vinto! E’ festa al presidio permanente in Piazza Municipio. Era illegittimo il liceziamento di Mimmo Mignano, Marco Cusano, Roberto Fabbricatore, Massimo Napolitano e Antonio Montella. I giudici del tribunale di Napoli hanno ribaltato la sentenza dei colleghi di Nola che avevano assecondato la richiesta della Fiat di confermare il licenziamento, il 5 giugno 2014, dei cinque operai colpevoli di aver messo in scena, fuori dai cancelli di Pomigliano, il suicidio di un “Marchionne pentito” (un fantoccio) per l’ondata di suicidi con ogni evidenza scatenata dalla politica industriale di Corso Marconi. I cinque sono tutti aderenti al SiCobas e, in quanto tali deportati e mobbizzati dal management Fiat nel polo logistico di Nola assieme a parecchi iscritti Fiom, tutti i lavoratori con ridotte capacità lavorative e quelli con un contenzioso aperto con l’azienda. Con un nodo alla gola, Antonio Montella, 55 anni metà passati in Fiat, dedica la notizia a chi non c’è più, ai colleghi che si sono tolti la vita. Dice che si sente, con i suoi compagni come Davide quando ha battuto Golia. Spiega infine che è una vittoria a disposizione della libertà di opinione di tutti gli altri lavoratori, dentro e fuori dal gruppo guidato da Marchionne. Un appello di solidarietà ai 5 è stato firmato da migliaia di persone. Stupisce l’assenza delle firme di Landini che pure su Pomigliano ha costruito gran parte della sua immagine di lottatore.
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Testata_Left_2014In corteo, i cinque di Pomigliano e centinaia di persone venute da Melfi, Taranto, dalla Val Susa, Roma, Torino, hanno raggiunto il Tribunale di Napoli il 20 settembre, per il processo d’appello. «La sentenza di Nola nega che si sia trattato di una manifestazione sindacale e che ci sia un nesso di causalità con l’ondata di suicidi – spiega a Left, nel numero ora in edicola, Pino Marziale, legale dei cinque operai – e, soprattutto, estende gli obblighi di fedeltà all’azienda anche fuori dall’attività lavorativa, sebbene i cinque non mettessero piede in fabbrica da quasi sei anni. C’è un clima repressivo che si respira anche nelle aule dei tribunali. La parola magica sembra essere “vincolo fiduciario”, come se il lavoratore appartenesse al datore di lavoro».
«Immagina un capannone – spiega Antonio Montella – come una piazza ma coperta. Vuota, mille metri quadrati per 150 operai ad ogni turno. E che non hanno nulla da fare. Come centocinquanta detenuti in un’ora d’aria moltiplicata per otto, qua e là a chiacchierare in piccoli gruppi. Ecco cos’è un reparto confino. Ogni tanto arrivavano le “cassette”, pezzi fuori misura per passare sulla linea di montaggio, che noi dovevamo sistemare in una sorta di scaffale a rotelle da affiancare alla catena per eliminare i tempi morti, sveltire il lavoro». Doveva essere un grandissimo polo, così aveva giurato la Fiat, ma è durato pochi mesi. Poi per Antonio e altri 315 deportati da Pomigliano è stata solo la fabbrica della disperazione, tutti in cassa integrazione dal 2008, mai o quasi mai richiamati al lavoro.
L’hangar sta a Nola, si chiama World Class Logistic (WCL).  Il tribunale di Nola non ci ha trovato nulla di discriminatorio ma, solo nel 2014, nel giro di pochi mesi, si sono suicidati tre lavoratori e altrettanti hanno tentato di farlo. «Non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti», scriveva nel 2011, dopo i primi suicidi, Maria Baratto, operaia che tre anni dopo si è tolta la vita nella sua casa di Acerra. Era la fine di maggio. Quaranta giorni prima s’era ucciso Peppe De Crescenzo, suo compagno di lotte, da 7 anni licenziato arbitrariamente ed ancora in attesa della causa rimandata alle calende greche dai giudici del lavoro di Nola. Lo stesso tribunale che ha dato ragione alla Fiat quando ha licenziato Antonio e altri quattro per aver manifestato tutto lo sdegno e il dolore per quei suicidi. Era il giugno del 2014. Una manifestazione satirica ai cancelli del Wcl: il manichino di un improbabile Marchionne pentito che s’impicca pentito per il male derivato ai lavoratori dalle sue scelte. [segue su Left, numero 39]
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