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CONDANNA GIUDIZIARIA DI UNA TESI NO TAV

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da http://ilmanifesto.info/roberta-condannata-per-la-tesi-di-laurea/


Appello. «Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità»: uno studio che vale un procedimento giudiziario. Per aderire, si può andare sul sito effimera.org



Il 15 giugno 2016, il tribunale di Torino ha condannato Roberta, ex studentessa di antropologia di Ca’ Foscari, a 2 mesi di carcere con la condizionale per i contenuti della sua testi di laurea, conseguita nel 2014. Per scrivere la tesi «Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità», Roberta ha trascorso due mesi sul campo durante l’estate del 2013, ha partecipato a varie dimostrazioni in Valsusa, intervistando attivisti e cittadini. Coinvolta insieme a lei in questo procedimento giudiziario era Franca, dottoranda dell’Università della Calabria, che come Roberta era in Valle per ragioni di ricerca, che compare con Roberta nei video e nelle foto analizzati dalla procura ma che a differenza di Roberta è stata assolta da tutti i capi d’imputazione.
A differenza di Franca, Roberta è stata condannata a 2 mesi di reclusione con la condizionale. Nonostante le motivazioni della sentenza saranno rese pubbliche tra 30 giorni, la ragione della sua condanna è stata attribuita all’utilizzo, nella sua tesi di laurea, del «noi partecipativo» interpretato dall’accusa come «concorso morale» ai reati contestati. Di fatto, i video e le foto scattate durante le manifestazioni parlano chiaro: le due donne sono lì, presenti, anche se in disparte.
È stato dimostrato in tribunale che nessuna delle due imputate ha preso parte a momenti di tensione. Né bisogna dire che tutti i momenti di tensione contestati dall’accusa hanno trovato riscontro nel materiale video fotografico acquisito dalla procura. Durante l’azione dimostrativa tenutasi davanti alla ditta Itinera di Salbertrand che fornisce il cemento al cantiere di Chiomonte le due ragazze partecipano ma rimangono ai margini. Di sicuro il pm Antonio Rinaudo ha chiesto 9 mesi per entrambe, ma mentre Franca è stata assolta da tutti i capi d’imputazione, Roberta è stata condannata. Roberta, infatti, avrebbe dimostrato un «concorso morale» con le condotte contestate dall’accusa, non a caso in alcuni passaggi della sua tesi raccontò l’accaduto in prima persona plurale. Quello che per la difesa era un «espediente narrativo» – nella ricerca etnografica il posizionamento del ricercatore rispetto all’oggetto della ricerca è una scelta soggettiva che fa parte di ciò che si chiama storytelling – diventa, per l’accusa, la prova di collusione rispetto ai reati contestati.
Siamo indignati: che ci risulti, è la prima volta dal 25 aprile 1945 che una tesi di laurea viene considerata oggetto di reato e subisce una condanna. Ci domandiamo, increduli, quale perversione attraversi un paese che porta nelle aule di un tribunale le parole di una tesi di laurea. Ci sconvolge che tutte le tesi di laurea siano potenzialmente oggetto delle letture inquisitorie dei magistrati e che la Procura di Torino si senta legittimata a sanzionare penalmente l’uso di un pronome personale a tutti gli effetti fondante della grammatica italiana quando usato in riferimento a un tema politico ad essa non gradito. L’accusa di «concorso morale» in riferimento all’analisi situata di un problema politico va intesa come sintomo dell’accanimento contro chiunque osi raccontare quanto avviene in Val di Susa senza criminalizzare la determinazione di una comunità a lottare contro la devastazione del suolo, della salute dell’ambiente e del territorio. Ricordiamo che all’interno dello stesso procedimento altre 45 persone, tra cui 15 minorenni, sono state rinviate a giudizio. Questa storia va intesa inoltre per ciò che è: un inaccettabile atto intimidatorio contro la libertà di pensiero e la libertà di ricerca, ancor più grave in quanto portato avanti contro giovani studenti accusati di mettere troppa passione in ciò che fanno e minacciati di essere pesantemente sanzionati se prendono posizione, «partecipano» o osano fare politica.
Rivolgiamo questo appello in modo particolare al mondo universitario italiano per rompere il silenzio e denunciare la violazione della libertà di ricerca e di opinione. Nessuno dei classici difensori delle libertà democratiche si è fatto, fino a ora, sentire. Nessun esponente di rilievo del mondo accademico né del ministero dell’Università e della Ricerca ha ritenuto necessario dover rilasciare una dichiarazione. Vogliamo rivolgerci in particolare al mondo accademico per chiedere quanto a lungo intenda accettare esplicite intimidazioni e minacce di ritorsioni. Se il fine di questo processo è sigillare la colpevolezza di chi racconta le ragioni di chi lotta contro la violenza e i soprusi, siamo tutti colpevoli. «Per uno scrittore il reato di opinione è un onore» ha scritto Erri De Luca, il primo assolto per un crimine che non esiste ma che l’Italia odierna punta pericolosamente a restaurare: il reato d’opinione. Sentiamo l’esigenza di prendere parola in difesa della libertà di ricerca e di pensiero in Italia e chiediamo a tutti di moltiplicare le iniziative in questa direzione. Ribadiamo che nessuna intimidazione o minaccia di ritorsioni potrà distoglierci dalla nostra narrazione, dal nostro storytelling, dal nostro impegno di ricerca perché il nostro mestiere lo conosciamo e lo amiamo, nonostante tutto.
Per adesioni all’appello, pubblicato anche sul sito effimera.org, inviare una mail all’indirizzo: appelloricerca@gmail.com

MESSICO, LA STRAGE DEI MAESTRI

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da http://www.senzasoste.it/media-e-potere/messico-il-terrorismo-di-stato-contro-i-maestri-non-commuove-l-europa

oaxaca
La strage di maestri da parte della polizia federale messicana pare proprio non interessare i grandi media italiani e internazionali. Nessuna commozione per le vittime di una vera e propria carneficina. Neanche i sindacati della scuola della civilissima Europa hanno speso una parola per denunciare l’accaduto, o quantomeno per deplorare il sangue versato.
Eppure si tratta di un episodio gravissimo, una strage da addebitare direttamente al governo del liberista Pena Nieto e ai suoi apparati repressivi. Gli stessi coinvolti nella strage degli studenti ‘normalistas’ della scuola rurale di Ayotzinapa, quando nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 2014 decine di adolescenti che protestavano contro l’esecutivo locale e statale vennero rapiti e uccisi da esponenti delle forze di sicurezza in combutta con l’esercito e  alcune bande di narcos. A neanche due anni di distanza il terrorismo di stato si è scagliato di nuovo contro il mondo della scuola, ma questa volta prendendo di mira gli insegnanti.
All’inizio i media occidentali hanno preso per buona la confusa versione di comodo diffusa dalle fonti del governo di Città del Messico, dedicando alla vicenda poche e scarne righe: ‘sconosciuti’ avrebbero aperto il fuoco contro i maestri e i poliziotti che si fronteggiavano, causando alcuni morti e feriti.
Bastavano le immagini diffuse dai media indipendenti messicani per dimostrare che a sparare sui manifestanti sono stati cecchini e agenti e che alcuni reparti di polizia avevano a disposizione anche armi di grosso calibro, e che il bilancio della strage è assai più alto di quello ammesso inizialmente dalle autorità. In totale, finora, 12 morti, un centinaio di feriti di cui alcuni gravi, 25 desaparecidos e un centinaio di arrestati.
Si parla di dieci morti solo ad Asunciòn Nochixtlan, maestri e attivisti sociali che protestavano contro il governo nello stato messicano meridionale dell’Oaxaca. Sette sono stati uccisi dagli spari domenica mattina e un’altra persona è stata uccisa da un ordigno esplosivo, ha spiegato il capo della procura di Oaxaca, Joaquin Carrillo. A queste otto vittime occorre aggiungerne altre due uccise in un episodio distinto sempre ad Asuncion Nochixtlan, quando la polizia ha sostenuto di essere stata sorpresa da un’imboscata realizzata da un gruppo armato non meglio definito dopo che gli agenti avevano smantellato alcune barricate erette dai maestri che protestano contro la ‘riforma’ dell’istruzione. Al macabro conteggio la corrispondente di TeleSur in Messico ha aggiunto un’altra vittima ad Hacienda blanca ed un’altra ancora a Juchitàn, due altre località dell’Oaxaca.
Secondo Carrillo tra i morti non ci sarebbero insegnanti, ma i sindacati dei docenti in lotta dicono il contrario, che si tratta di loro colleghi o di studenti falciati dalle pallottole sparate dai poliziotti che hanno sparato deliberatamente sulla folla.
La Commissione per la sicurezza nazionale ha inizialmente addirittura negato che gli agenti fossero armati, sostenendo che le foto diffuse dai manifestanti che li raffiguravano armati di pistole fossero “false”.
Ma quando la prima versione ufficiale non ha retto più, la polizia e le autorità hanno ammesso che a sparare sono stati gli agenti della Polizia federale, ma solo perché “provocati” dai maestri che avrebbero sparato per primi, infiltrati oltretutto da “membri di gruppi radicali”, anche in questo caso non meglio identificati.
A subire la violenza dello stato sono stati in particolare i maestri della Coordinadora Nacional de los Trabajadores de la Educaciòn (Cnte) che da mesi stanno protestando, sostenuti dagli studenti e da lavoratori di altri settori, contro le politiche neoliberiste e autoritarie del presidente e del governo del Partido Revolucionario Institucional. La protesta ha di nuovo vissuto una vampata a partire dal 15 maggio, quando la Cnte ed altre organizzazioni hanno ricominciato a realizzare presidi, marce, scioperi, blocchi stradali e occupazioni di edifici pubblici, chiedendo il ritiro della contestatissima riforma del sistema educativo che attraverso la cosiddetta ‘valutazione meritocratica’ dei lavoratori mira ad espellere migliaia di maestri non in linea. e ad abbassare i salari. Naturalmente la mobilitazione interessa non solo l’Oaxaca ma tutto il territorio messicano e ha visto punte altissime di partecipazione agli scioperi da parte dei docenti e degli alunni, soprattutto in Chiapas, Michoacan e Guerrero.
Gli insegnanti dicono no alla privatizzazione del sistema educativo, chiedono più finanziamenti e aumenti salariali, e chiedono anche una profonda riforma politica dello stato e delle sue istituzioni.
Prima della strage di domenica notte il governo ha cercato in tutti i modi di criminalizzare e fermare la protesta: docenti licenziati, maestri arrestati, manifestazioni caricate violentemente e disperse.
Poi, lo scorso 12 giugno, la decisione di arrestare due leader del sindacato che organizza e catalizza la protesta, Rubén Núñez Ginés e Francisco Villalobos Ricardez, rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Hermosillo, nel nord del paese, con la infamante e falsa accusa di corruzione e appropriazione indebita. L’arresto dei due dirigenti sindacali non solo non ha fermato la protesta, ma anzi ha provocato una nuova esplosione delle mobilitazioni. Per bloccare l’arrivo della polizia federale e dei militari nelle città paralizzate dalla protesta i maestri, i lavoratori di altri comparti e numerosi studenti hanno eretto nei giorni scorsi numerose barricate attaccate con violenza dai reparti antisommossa. Poi, domenica mattina, la carneficina.

PER 15 EURO AL GIORNO...

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da http://ilmanifesto.info/dal-cara-ai-campi-per-15-euro-al-giorno/

Sicilia. Gli africani escono in bicicletta e si raggruppano agli angoli delle strade, aspettando che i produttori passino a prenderli



Ogni mattina alle 8, centinaia di richiedenti asilo africani escono dal Cara di Mineo, inforcano la bicicletta comprata per 25 euro all’interno dello stesso centro e si dirigono verso gli agrumeti nei quali sono impiegati al nero nella raccolta delle arance. Per la legge italiana non potrebbero lavorare perché il permesso di lavoro viene riconosciuto dopo sei mesi di permanenza in Italia, ma basta farsi un giro da quelle parti per capire quanto poco essa sia applicata e in che modo sia funzionale a creare l’ennesima situazione di sfruttamento del lavoro, al limite della schiavitù. Ai migranti dell’ex residenza destinata ai militari americani della vicina base di Sigonella che, con quattromila ospiti, è ormai uno dei centri per rifugiati più grandi d’Europa, è andata solo leggermente meglio che ai loro conterranei di Rosarno, pagati due centesimi per ogni chilogrammo di arance da succo raccolte e destinate. A loro sono andati mediamente sette centesimi, ma la cattiva stagione passata ha fatto sì che anche le arance rosse di Sicilia finissero nel circuito della trasformazione e non, pagate meglio, come agrume da tavola.
La Cgil denuncia come il fenomeno del lavoro nero dei rifugiati sia in corso almeno da un anno, ma nel 2016 ha assunto dimensioni massicce. Soprattutto, avviene alla luce del sole. Ogni mattina, dopo che la polizia ha aperto i cancelli del Residence degli aranci, come paradossalmente è stato chiamato il villaggio. Gli africani si fermano gruppetti, con le loro biciclette ammassate sui selciati, agli incroci delle strade, in attesa che qualche produttore locale venga a prenderli per portarli nei campi, e non è detto che ciò accada. I più esperti raggiungono direttamente i campi della raccolta. La particolarità è che, a differenza che nella Piana di Gioia Tauro o in altri luoghi dello sfruttamento dei braccianti in agricoltura, qui non ci sono caporali ma tutto avviene senza intermediari, in maniera diretta.
Un guineano sbarcato in Sicilia quattro mesi fa ha raccontato ai ricercatori di Filiera sporca che “non si sta male qui, però non abbiamo soldi, ci danno solo sigarette ma io non fumo, perciò sto andando a cercare lavoro». Un’altra testimonianza raccolta è quella di un venticinquenne proveniente dal Gambia: «Lavoriamo dalle 8 di mattina alle 4 del pomeriggio, ci danno da bere e qualcosa da mangiare durante il giorno e a fine giornata ci pagano 10, massimo 15 euro». Paghe da fame e condizioni di lavoro schiavistiche al soldo dei produttori italiani della zona, che poi rivendono gli agrumi alle multinazionali che li trasformano in succhi o alle grandi catene di supermercati, denuncia la Flai Cgil, per la quale «i produttori lamentano il prezzo eccessivamente basso del prodotto, ma in questo modo è l’intera economia locale a essere danneggiata, con un dumping che spinge sempre più giù le condizioni di lavoro e contribuisce a sua volta ad abbassare i prezzi». Una spirale al ribasso che scarica tutti i costi sull’ultima ruota del carro: i lavoratori. La frammentazione della filiera non aiuta: gli autori del dossier hanno interpellato cooperative di produttori, aziende di trasformazione e catene di supermercati, e lo scaricabarile è stato generale. Quello che emerge è solo la difficoltà di controllare realmente da chi siano state raccolte le arance, nonostante garanzie e rassicurazioni.
Eppure, il fenomeno è noto a tutti: ad aprile scorso i Carabinieri del Nucleo Ispettorato del lavoro di Catania hanno scoperto e deferito all’autorità giudiziaria tre imprenditori agricoli della provincia di Catania che avevano preso al nero come braccianti 45 lavoratori stranieri, di cui 14 richiedenti asilo politico ospiti del Cara di Mineo. Il responsabile commerciale di un’azienda di trasformazione ha confermato: «Lo sanno tutti coloro che abitano nei nostri territori che la raccolta delle arance è fatta sempre più da personale estero con una paga inferiore al prezzo di tariffa creando concorrenza alla manodopera locale e inficiando la regolare concorrenza tra aziende». Il prezzo basso è un indicatore che a monte c’è qualcosa che non va. Dunque, occhio al prezzo.

WEEK END MAGAZINE

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ESTATE



C’è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. E’ una luce che sa di mare.
Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.
Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un’erba che so
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.
Ascolti.
Le parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.
(Cesare Pavese)

BREXIT. DI COSA SI PARLA?

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Reputiamo che questi due articoli di Senza Soste sulla Brexit siano forse i più ragionati, e i meno mossi dallo spirito aprioristico di fazione, in cui, da una parte i sostenitori che ne vedono ingenuamente il grimaldello per il crollo del sistema finanziario targato UE, dall'altra i suoi nemici che immaginano altrettanto ingenuamente la trasformazione dell'Inghilterra in una sorta di lager per migranti, sono a nostro avviso un po' fuori dalla realtà e dalla concretezza della situazione, che invece in questi due articoli pensiamo di avere almeno in parte trovato.


da http://www.senzasoste.it/internazionale/brexit-chi-ha-paura-di-un-referendum-ecco-gli-scenari

Il referendum sullo status della Gran Bretagna nell’unione europea si è concluso. La vittoria della Brexit è ufficiale. Ma non tutti gli scenari sono come gli attori avrebbero voluto: i capitali finanziari e le borse volevano più libertà dai controlli UE ma non l'uscita, Cameron invece voleva una vittoria del Remain ma allo stesso tempo un referendum che mostrasse come anche lui era distante dall'UE, per tenere a distanza Farage che invece non è mai stato forte come ora.
brexit dislikePer quanto ci riguarda, non si tratta di niente di sorprendente. Piuttosto bisognerà saperne rappresentare gli effetti reali, a parte le tempeste valutarie, senza esagerare o minimizzare. La rinegoziazione, e la relativa tempistica, degli oltre cento patti bilaterali tra Ue e Gran Bretagna sarà il terreno reale sul quale si misurerà l’effetto del referendum. Il posizionamento della borsa di Londra, visto che il Pil inglese per metà è composto di servizi finanziari e asset di borsa, sarà decisivo per capire cosa sarà la Gran Bretagna, e con lei la Ue, nei prossimi anni. Di qui capiremo se la Gran Bretagna rimarrà inevitabilmente europea o si farà più asiatica.
Prima questione: i capitali asiatici e la forza della GB
Facciamo un esempio noto a chi si occupa di questi temi: la Gran Bretagna è il primo paese attrattore per gli investimenti cinesi in Europa, la prima piazza extra asiatica, quindi Usa compresi, per la trattazione dello yuan e Londra è stata la prima capitale, tra i centri decisionali del continente ad aderire alla Asian Infrastructure Investment Bank. Se questi capitali asiatici premono verso l’Ue, usando Londra come piattaforma, sarà difficile, per l’Europa continentale, tenere la faccia dura mostrata, in queste ultime settimane, da Schauble e Juncker. Allo stesso tempo gli accordi sull’unificazione tra borsa di Londra e Francoforte, che vedrebbero quest’ultima come specializzata nei servizi di clearing (la compensazione delle transazioni tra soggetti finanziari) su traffici generati a Londra, saranno un importante termometro della situzione. Anche perché la Capital Market Union, l’unione europea dei capitali per gli investimenti in infrastrutture e innovazione, progettata dall’Ue senza, o peggio con l’interdizione, di Londra non arriva a fare i primi passi. Nell’immediato sarà il momento delle oscillazioni, tra tempeste valutarie e dichiarazioni di rassicurazione e conforto, ma questo fa parte della dinamica delle novità.
"In borsa si vota tutti i giorni": elezioni, sondaggi e speculazione
Un punto però importante da rimarcare è che i referendum vengono bancati e prezzati dalle borse. Fino ad avere effetti globali. La vera postdemocrazia, nonostante il libro di Crouch che porta quel titolo sia davvero buono, è questa. Quella in cui sul voto l’esplicita pressione da parte della finanza e gli effetti sui mercati valutari fanno sentire il loro peso. Non tanto negli effetti sull’elezione in sé, buona parte dell’establishment della borsa londinese se si è espresso lo ha fatto a favore del Remain e ha perso, ma in quelli sul posizionamento globale del paese che vota. Per non parlare della moneta: il ribasso della sterlina, causato dalle oscillazioni di mercato, imporrà un intervento alla banca di Inghilterra che poi arriverà all’economia reale. C’è anche da dire che, a differenza dei luoghi comuni che spiegano le crisi, come quella sulla Brexit, con il classico “i mercati non amano le incertezze”, che il mondo reale è un po’ diverso. In un mondo di tassi bassi, e quindi margini di profitto sui bond ridotti all’osso, le incertezze, le crisi drammatizzate con le conseguenti oscillazioni dei valori di borsa sono una manna dal cielo, una vera occasione di strappare dei profitti veri. Certo qualcuno ci guadagna, qualcuno resta in mutande ma è la borsa non l’esercito della salvezza. E nei giorni scorsi, e nei prossimi che verranno, di movimenti speculativi attorno alla sterlina, e agli asset di marca britannica, ne vedremo. Intanto alcuni sondaggi sono stati occasione, infatti, per comprare da subito a basso prezzo asset destinati a rivalutarsi. Altri, come qualche fuga di notizie sul Bremain, sono stati l’occasione per vendere, e al rialzo, prima del prevedibile crollo azionario di alcuni titoli al momento della Brexit. Come è noto il più importante quotidiano di fantascienza italiano, Repubblica, ha abboccato sia agli uni che agli altri sondaggi prendendoli per veri e non cogliendo il contesto di borsa in cui venivano rilanciati. Ma il legame tra elezioni, sondaggi e speculazione è molto forte e rappresenta una parte sostanziale delle postdemocrazie contemporanee. Quella in cui la democrazia è ridotta ad essere un momento della necessaria creazione di volatilità per la speculazione finanziaria. Un rapporto tra democrazia e creazione di valore che non va affatto sottovalutato e che non è episodico ma, invece, fa parte della catena di creazione di valore dell’industria finanziaria.
Cameron, Farage e borsa: vincitori e vinti
Quanto al voto in sé è evidente che l’apprendista stregone Cameron si trova con i demoni, che aveva evocato, che sono fuggiti dal suo comando. Una autonomia più marcata dall’Europa era stata chiesta non solo dalla finanza, per sottrarre Londra dalle velleità di controllo Ue, ma anche dallo stesso partito conservatore. Per tenere a distanza la Ukip di Farage. Il risultato è che Farage, dopo la sconfitta alle politiche del 2015, non è mai stato cosi’ vincente come oggi. E che la stessa piazza finanziaria di Londra è insoddisfatta. Voleva autonoma dall’Ue, poi ribatezzata con un referendum pro Ue dopo la trattativa sullo status speciale della Gran Bretagna, non questo casino. Già perché la piazza finanziaria londinese non può entrare in grossa contraddizione col Lussemburgo. Ovvero con il paese che, dall’entrata in vigore dell’Ue, più di tutti è cresciuto in servizi finanziari (e specializzazione in evasione fiscale e prodotti finanziari offshore). E, guarda te il caso, esprime il commissario della Ue, Juncker, euroburocrate di lungo corso. Anche questi sono temi seri e, non ci sarà da stupirsi, Juncker smetterà di fare la faccia dura con l’Inghilterra al momento giusto. Lo ha fatto con un Renzi qualsiasi figuriamoci con un paese e una borsa strategici per il pianeta. Insomma, senza spaventarsi, gli effetti della Brexit non vanno nè minimizzati nè ingranditi. Ce n’è abbastanza come si vede, per chi vuol capire come cambia il mondo, sul terreno reale.
Le autoreti del Bremain, dei laburisti e di Schauble
Sulla sostanza del voto, il fronte Bremain di autoreti ne ha viste tante. Il partito laburista, ad esempio, marcia di sconfitta in sconfitta. Il simbolo è proprio Corbyn che nel 1975 si schierò, nel referendum precedente sull’Ue, contro l’unione e fu travolto. Oggi si è schierato per l’Unione, contro la Brexit, e ha subito una sconfitta storica. Tra l’altro il programma di stato sociale per il quale è stato eletto sarebbe improponibile in Ue, forse c’è qualche confusione seria nella sinistra istituzionale britannica (mentre alcuni sindacati di base hanno votato Leave). Forse l’autorete più grossa l’ha fatta però Schauble che è arrivato, con il consueto stile da dottor Stranamore, a minacciare conseguenze in caso di Brexit. In un referendum dove la componente dell’orgoglio nazionale britannico ha il suo peso, l’immagine della Germania che minaccia l’Inghilterra se si scommette sul Bremain non è una trovata da spin-doctor geniali.
Impoveriti e anziani hanno votato Brexit. Sotto effetto Trump
Sul voto in sé ha pesato l’Inghilterra profonda. Londra, la zona di Liverpool, Bristol e la Scozia, le zone che si ritengono più collegate o collegabili col continente, hanno pesato a favore del Remain. Il resto, tra cui molte zone dove la crisi del 2008 ha fatto sentire sul serio i suoi effetti ha prodotto un plebiscisto a favore della Brexit. Nella mappatura fatta dal Guardian si nota come a favore del Remain abbiano votato i soggetti delle zone a più alta educazione e maggior reddito. Mentre a favore della Brexit avrebbero votato gli elettori più anziani e quelli con peggiore qualifica professionale. Lasciare mezza Inghilterra a piedi, socialmente ed economicamente parlando, è stato fatale per i conservatori, il laburisti e l’Ue. E, guarda caso, si tratta del tipo di elettorato che in Usa si è avvicinato a Trump. Non ci vuole molto a capire che la miseria, senza soluzioni di sinistra, produce effetti nazionalistici. Ci arriverebbero, opportunamente lasciati liberi di esprimersi, anche Orfini, Giachetti e persino lo stesso Renzi.
Il pollaio italiano
Finiamo quindi con il pollaio di casa nostra. Lasciamo un attimo da parte Salvini, le possibili dichiarazioni di Renzi, quelle di Padoan, la fretta di Grillo (si parla a voti scrutinati, ora il M5S rischia di doversi rimangiare delle dichiarazioni facendo la parte del soggetto ondivago). Concentriamoci su uno degli artefici del disastro italiano per un quindicennio: Romano Prodi. Non contento di aver accompagnato la più spettacolare regressione del Pil dall’Italia unitaria ad oggi, come politico e come comissario Ue, non pago di aver varato una finanziaria utile per la contrazione economica alla vigilia di Lehman Brothers (che era ormai percepita come prossima), l’indimenticabile “professore” si è rifatto vivo. Dicendo che auspicava che la Gran Bretagna non solo rimanesse nell’Ue ma anche che entrasse nell’eurozona. Famoso per non azzeccarne una (disse che la crisi di borsa che si annunciava per l’Italia sarebbe stata compensata dalla crescita della Cina, infatti è accaduto il contrario) anche stavolta è stato smentito negli auspici, e in tempo reale, dal voto britannico. Ecco, di una cosa non abbiamo bisogno per i prossimi anni: che gli artefici di politiche demenziali, che ancora oggi vanno a dire in giro “io si che ho privatizzato davvero”, che hanno affossato il paese dopo la caduta del muro, restino politicamente a galla. Il resto è una pagina da scrivere con pericoli e opportunità. La storia, la politica e l’incertezza sono gemelle.
E se è vero che la politica usa categorie di origine teologica il suo campo di applicazione è differente. Tanto da far si che se non mette sotto la finanza, non ci sarà retorica del politico che tiene, programma politico credibile, democrazia in grado di essere davvero chiamata tale. Per questo il referendum britannico non deve far paura. Deve far riflettere. Ma forse per qualcuno questa è la paura più grande.

 p.s.
va fatta una utile nota, visto che in queste ore prevalgono approssimazione, paura e disinformazione. Abbiamo scritto " La rinegoziazione, e la relativa tempistica, degli oltre cento patti bilaterali tra Ue e Gran Bretagna sarà il terreno reale sul quale si misurerà l’effetto del referendum". Già abbastanza chiaro per capirsi sul fatto che non è che sta stamani la Gran Bretagna ha messo i ponti levatoi e buttato a mare gli indesiderati. Giova ricordare, viste diverse reazioni isteriche e improvvisate, che il voto è solo consultivo. Apre negoziazioni non altro. Perché diventi davvero efficace occorre infatti che il governo britannico chieda ufficialmente di uscire e che faccia scattare l'articolo 50 del Trattato di Lisbona. Per questo Cameron si è dimesso stamani ma annunciando che fino a ottobre non si dimette. Per governare il processo nel partito conservatore e in parlamento. In parlamento, sulla carta poi va visto l'effetto Brexit nel voto, quasi i tre quarti dei membri sono contro l'avvalersi dell'articolo 50. Se questo rifiuto si formalizzasse in parlamento dovrebbe esserci un secondo referendum stavolta vincolante.E' una fase molto delicata, per la politica britannica e per l'Europa, che pero' va presa per come e'.
redazione, 24 giugno 2016
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da http://www.senzasoste.it/nazionale/la-brexit-e-la-fantascienza-chi-soffia-davvero-sul-fuoco
sun leaveLa credibilità dei media italiani è, salvo lodevoli eccezioni, allo stesso livello del ceto politico che viene intervistato sulla stampa o in tv. Il referendum britannico è stata l’occasione per testare come il livello di qualità, a prescindere dalle posizioni, dei media nazionali sia molto basso. Quasi tutti i tg, dopo il risultato del referendum si sono strutturati come strumenti di propaganda dell’unione europea ripetendo mantra insensati. Le principali all news –a pagamento o su digitale terrestre- sembravano esser state commissariate direttamente a Bruxelles. In pochi, e comunque non italiani, si sono messi a raccontare quello che è accaduto. Ovvero che in un referendum consultivo, che deve essere dibattuto e ratificato in parlamento, una lieve maggioranza si è espressa per la Brexit. In caso di risposta negativa del parlamento, la cui maggioranza al momento è Bremain, allora si dovrebbe procedere ad un secondo referendum. In questo caso con potere abrogativo.
Certo, se le borse caricano di significato gli appuntamenti elettorali, per motivi oggettivi ma anche perchè un’elezione è una ottima fabbrica di volatilità finanziaria da saper sfruttare, i media si scatenano (e viceversa). Ma quando il favorito alla successione di Cameron, Boris Johnson (ex sindaco di Londra e organico alla City), dice apertamente che la Brexit non è così rapida e neanche così scontata, desta una certa curiosità il fatto che dalle nostre parti non se lo sia filato praticamente nessuno. A favore della rappresentazione, tra studi televisivi e copertine di giornali, di infografiche dove si racconta cosa cambia “da domani” con la Brexit. Dalla premier League ai soggiorni dei lavoratori, degli studenti, all’acquisto del tè, i voli low cost etc . Ma è tutta fantascienza, rappresentata con le armi dell’improvvisazione da redazioni che trovano audience maggiore rispetto alla media stagionale grazie al referendum.
Ovviamente “da domani” cioè da oggi non cambia assolutamente nulla. Da oggi l’attenzione è sulla procedura che deciderà di scegliere il parlamento britannico. Procedura che, tra mancata accoglienza del risultato del referendum consultivo in parlamento e nuova consultazione, potrebbe anche ribaltare il risultato. Fatto che veniva evidenziato dalla Handelsblatt, il Sole 24 ore tedesco, e in misura minore dall’Espresso, e che potrebbe portare ad una rinegoziazione della presenza britannica in Europa non ad una Brexit. Insomma, ad una ricomposizione del trauma. Qui ci sono però due problemi. Non piccoli e non di facile composizione. Non si pensi che in Gran Bretagna il voto sia solo quello “di pancia”, per usare una pessima espressione dei media italiani che si sforzano su tutto meno che a capire qualcosa.
Circolano, da tempo analisi, comunque serie, in Uk sul guadagno economico e geopolitico della Brexit. I capisaldi di questi ragionamenti sono due
1) la sterlina perderà valore ma, ad un certo punto, il calo strutturale della moneta britannica permetterà un rilancio economico del Regno Unito di serie proporzioni. Per non parlare della borsa finalmente libera da ogni ipotesi di ingerenza Ue (sulle banche il discorso è più complicato, ma lo si vede risolto).
2) Il continente Ue è demograficamente bollito, economicamente esangue, a rischio stagnazione secolare. La globalizzazione guarda altrove e, con lei, il nuovo asset del Regno Unito libero dai vincoli Ue. Politici prima di tutto.
Nigel Farage, sempre con la birra in mano, rappresenta la faccia del folklore di questo atteggiamento. Il resto altro che gente sperduta nelle Midland che non sa cosa fare, indecisa tra il pub e il seggio. Dietro l’indirizzo politico, economico e finanziario c’è. Non a caso Cameron è stato costretto ad ascoltarlo fino a concedere il referendum perdendolo assieme alla carica di primo ministro. Boris Johnson, almeno all’inizio, si mostra come elemento di mediazione tra questa tendenza, che guarda altrove, che è isolazionista solo nella propaganda del tg3 e quella del mantenimento di legami, rinegoziati, con l’Ue. E’ un piano sul quale, i precari che mangiano fish and chips maledicendo i migranti e impaurendo gli utenti dei social media delle sinistre continentali, non c’entrano ovviamente nulla. E’ il piano del comando, quello dei capitali globali che si affacciano su Londra. Una piazza, il London Stock Exchange dove si tratta, tra l’altro, finanza islamica secondo le leggi della sharia. Difficile dare dell’isolazionista, razzista a questa dimensione. Il capitale è apolide anche quando si presenta sulla spinta del voto sangue e suolo.
raggi spiegelChe c’è però qualcosa di ben diverso da quanto rappresentato dalla fantascienza dei media italiani (sul nostro impagabile Tirreno ieri la notizia era la vittoria del Remain e la sterlina che volava, ma qui si parla dei campioni della science-fiction in persona). E lo si capisce in Germania dove, oltre alla prospettiva fatta intravedere dalla Handesblatt ne esce un’altra. Dallo Spiegel che, oltre ad essere importante, è un settimanale ben attento alle esigenze della borsa di Francoforte per interposta persona del social-liberismo tedesco. Lo Spiegel nella edizione online monta una prima pagina con la foto della Raggi e con un articolo che comincia con accenti durissimi, che sfuggiranno (non è la prima volta, altre volte è accaduto su cose che si sono avverata) alla propaganda e alla fantascienza dei media italiani. Veloce traduzione: “Gli avversari della Ue festeggiano e sognano un’uscita in serie dall’Unione. Ma devono darsi, per la prima volta, una calmata osservando come sarà dolorosa la Brexit per i britannici”. Una vera dichiarazione di guerra finanziaria, o di accesa guerra fredda, per la Gran Bretagna. E anche un monito serio all’Italia, la foto della Raggi ha il suo peso simbolico, e al movimento di Grillo. Il quale parla, in queste ore, di rimanere nell’Unione Europea ma non nell’euro. Forse qualcuno non ha capito che una parte del grande capitale tedesco vuole per la Gran Bretagna, e per i “populismi” nazionali, un trattamento alla Tsipras. Per il movimento 5 stelle si tratterà di arrivare a capire che in Europa, dove si guarda con occhi commissariali come per Tsipras alla Raggi, non valgono le regole del non-statuto, delle comunarie e dello staff di Casaleggio. Il gioco si farà grosso e richiederà strumenti ben piu’ sofisticati di quelli messi in campo. Già, ma come e perchè questi toni e atteggiamenti?
Prima di tutto la governance multilivello Ue vede un rischio, non lontanissimo, di fare la fine del patto di Varsavia, che si dissolse poco più di due anni dopo la caduta del muro di Berlino. Per questo minacciare l’Italia, mettendo la Raggi sotto l’obiettivo, non è questione periferica. Per minacciare si deve però dare l’esempio: secondo quest’altra versione tedesca la Gran Bretagna deve essere umiliata. Come? Ma soffiando sul secessionismo dell’Ulster e della Scozia, chiudendo in modo commercialmente punitivo la partita Brexit. E la finanza? Juncker esprime il paese che più ha guadagnato in termini di servizi finanziari, legali come in nero e offshore, dall’apertura dell’Ue: il Lussemburgo. Questo paese, per quanto geograficamente minuscolo, è una sorta di Singapore, patria dei capitali senza freni e dei depositi bancari piu’ discreti, che non ha alcuna intenzione di perdere il suo status. E’ chiaro che in questa visione dei rapporti con la Gran Bretagna, uscita via Spiegel, si esprime una alleanza lussemburghese-tedesca-francese (molto recentemente il ministro dell’economia Sapin ha parlato di “nuovo ruolo della borsa di Parigi”) tesa a cannibalizzare quanto possibile il ruolo della piazza di Londra dopo la Brexit. Proprio per contrastare un ruolo forte, e vincente, di Londra dopo l’eventuale Brexit. Smantellando la Gran Bretagna, favorendo la secessione di Scozia e Ulster, impoverendola dando così un segnale forte a Francia, Italia e Spagna: del genere “chi esce di qui è un reietto destinato a vivere di veleni e miseria”. Ma chi vincerà a Berlino? La tendenza Handelsblatt o quella Spiegel, quella trattativista o quella della guerra finanziaria, guerra fredda di livello acceso?
State tranquilli, l’Italia di Renzi sarà comunque prona nei confronti della tendenza vincitrice a Berlino. Specie ora che la Raggi è sotto gli occhi di Berlino. Mentre la fantascienza mediale italiana è attenta ad altro. E ci sono rischi reali che il referendum di ottobre verrà giocato sotto scopa da parte dei mercati finanziari. Minacciando l’opinione pubblica italiana con l’ascesa degli spread. Fantascienza? Molto meno di quella venduta dalle redazioni dei giornali italiani.
Qui ci sono quindi due prospettive da far valere nelle prossime settimane a livello di analisi. La prima di una mediazione che, giocoforza, si impone. Come augurato dalla Handelsblatt. Una rinegoziazione che, magari, porta davvero ad una unificazione delle borse di Francoforte e Londra (l’una ha specializzazioni che richiede l’altra) oppure a un blocco dell’accordo in modo amichevole. Grazie ad una rinegoziazione della presenza britannica in Ue. La seconda è quella di una guerra finanziaria, giocata come elemento di sopravvivenza della governance Ue (e Bce) tesa a cannibalizzare la Gran Bretagna. Come elemento di guadagno, in una logica di guerra finanziaria ed economica, verso l’esterno. E di messa a terrore di ogni opposizione interna.
In ogni caso, la piccola e piccolissima classe media inglese che ha scelto la Brexit naturalmente verrà maledetta come razzista, fascista quando invece, e oggi non è poco, è solo di corte vedute. La Gran Bretagna come il paese isolazionista. Mentre la Ue il terreno della garanzia dei diritti e della democrazia. A sinistra abboccheranno in tanti, come è nella loro natura. In realtà siamo di fronte ad una prospettiva o di guerra o di compromesso. Di compromesso tra grandi capitali nell’ottica Londra-Francoforte, magari con Parigi e Lussemburgo che trovano un ruolo, e di guerra finanziaria, ed economica, tra Ue e Gran Bretagna. In mezzo, il nostro paese.
redazione, 25 giugno 2016

L'OCCASIONE DEI COMUNI. DI MARCO BERSANI.

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da http://www.senzasoste.it/politica/l-occasione-dei-comuni
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Il risultato delle recenti elezioni amministrative apre nuovi scenari nel nostro Paese: la pesante sconfitta del governo Renzi e del Pd si è espressa con una forte domanda di cambiamento, che da Napoli -con la riconferma di De Magistris- a Roma e Torino –con la netta vittoria di Virginia Raggi e Chiara Appendino, giovani sindache del M5S- attraversa l’intera penisola.
Non è un caso se questa ribellione si sia evidenziata nella scelta sulla guida dei comuni e delle città: nonostante il contributo degli enti locali al debito pubblico italiano sia risibile (intorno al 2,1%) è sugli stessi che in questi ultimi quindici anni sono state scaricate tutte le misure per farvi fronte.
Un dato per tutti: nel periodo 2008/2014, il contributo richiesto agli enti locali –fra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità interno- è passato da 1.650 a 16.665 miliardi (!). Facile immaginare cosa abbia voluto dire in termini di taglio dei servizi e delle prestazioni sociali, abbandono del territorio e delle periferie, dispersione e solitudine sociale.
Del resto, gli enti locali sono nel mirino per un ben preciso motivo: sono loro a “possedere” la gran parte della ricchezza sociale del paese –in termini di territorio, patrimonio pubblico e servizi pubblici locali. Una ricchezza quantificata dalla Deutsche Bank in ben 571 miliardi, e da tempo nel mirino dei grandi interessi speculativi e finanziari, alla ricerca di mercati sicuri e profittevoli.
I comuni sono dunque uno dei luoghi di precipitazione della crisi e uno dei terreni su cui si approfondiranno importanti conflittualità sociali.
Per questo è bene che, fuori da una astratta neutralità degli enti locali, i nuovi sindaci siano consapevoli di alcune fondamentali battaglie sulle quali sarà richiesto loro di prendere posizione.
Il primo terreno è quello del debito, utilizzato come ricatto per permettere la spoliazione delle comunità locali e la messa a valorizzazione finanziaria di tutti i beni comuni urbani. La radicale rimessa in discussione dell’ideologia del debito, attraverso l’avvio di audit pubblici e partecipati, potrebbe essere il primo passo per le comunità territoriali verso il diritto di riappropriarsi del proprio destino.
Un secondo terreno è quello della contestazione del patto di stabilità e del pareggio di bilancio, che in questi anni hanno prodotto solo instabilità sociale e aumento delle disuguaglianze. E’ un terreno decisivo per sindaci che vogliano abbandonare il ruolo di facilitatori della penetrazione dei grandi interessi finanziari sulla società, per riappropriarsi finalmente di quello di difensori delle comunità territoriali e degli uomini e le donne che le abitano. Da questo punto di vista, la messa in discussione dell’Anci, organismo da sempre subalterno ai diktat governativi, anche pensando ad una nuova aggregazione delle “municipalità ribelli”, diventa uno dei possibili tasselli del cambiamento.
Il terzo terreno è senz’altro quello della riappropriazione dei beni comuni urbani, sia per garantire diritti fondamentali alle comunità amministrate, sia per impostare sul riconoscimento degli stessi una nuova economia territoriale, ecologicamente e socialmente orientata.
Da questo punto di vista, il contrasto da parte dei Comuni del decreto Madia di privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali diviene dirimente, e dovrà vedere –in caso di sua approvazione- l’estendersi a macchia d’olio della disobbedienza territoriale.
Siamo dentro un tempo, in cui non si può più definirsi “sindaco di tutti” e occorre decidere se schierarsi con la città e gli abitanti che la vivono o con i poteri forti della speculazione immobiliare e finanziaria. Questione dirimente, che riguarda i sindaci, ma, naturalmente e soprattutto, le comunità territoriali, che devono riappropriarsi del futuro, iniziando dal presente.

5 STELLE, MERITI E DEMERITI.PER UNA CRITICA RAGIONATA

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Questo blog non è mai stato vicino, nemmeno contingentemente, al Movimento 5 Stelle e tuttora tiene una distanza incolmabile come concezione del rapporto tra le classi e della lotta fra di esse.
Tuttavia ci siamo sempre resi conto che una serie di elementi con cui questo fenomeno veniva liquidato erano presi e posti in modo abbastanza superficiale e schematico.
Pensiamo che questo piccolo trattato sia molto utile per ridefinire alcune questioni affrontate in modo facilone, e nel contempo sia interessante perchè mantiene forte l'unica critica di fondo davvero valida a questo partito, cioè la sua idea di fondo per cui il cambiamento sia possibile attraverso le procedure formali dello Stato e della politica, subordinando a questa il conflitto di classe, ovvero pensando che si possa dare trasformazione politica senza quella economica...in poche parola, la mancanza di un orizzonte ampio di lettura dell'economia politica.
Ci sono anche altri punti secondari che non condividiamo; tutto sommato pensiamo che questo lavoro sia utile per riflettere su alcuni elementi che sono stati, nelle vecchie analisi, risolti in modo troppo superficiale.
Data la mole del lavoro e delle note di approfondimento, pensiamo che sia necessario tenere il post anche domani per favorire la lettura e la riflessione.



da http://www.leparoleelecose.it/?p=23537

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di Marco Maurizi
[In passato LPLC ha pubblicato interventi molto critici nei confronti del Movimento Cinque Stelle. È probabile che lo faccia anche in futuro. Proprio per questo ci sembra interessante ospitare un punto di vista diverso e argomentato su un partito che rappresenta un fenomeno radicalmente nuovo nella vita politica italiana (gm)]
Oltre le reazioni epidermiche e le analisi generiche e consolatorie
La recente vittoria alle amministrative di Roma e Torino del M5S necessita di una riflessione attenta sulla natura del movimento creato da Grillo e ciò che esso rappresenta nel panorama politico italiano. Non si può liquidare con una scrollata di spalle un fenomeno che catalizza il 40% del voto operaio e raggiunge percentuali del 70% in quartieri popolari, raccogliendo l’adesione di una fetta importante di popolo della sinistra: da dirigenti FIOM ad attivisti No TAV. Purtroppo per anni, invece di tentare un’analisi seria, sine ira et studio, del movimento, militanti ed elettori hanno pensato di poter semplicemente catalogare il fenomeno in concetti preconfezionati, dedicandogli battutine sarcastiche ed altri esorcismi assortiti[1]. Al riparo della propria superiorità intellettuale e culturale, il “populismo” diventa la comoda categoria entro cui racchiudere tutto ciò che non viene compreso e che pertanto spaventa, sigillandolo là in attesa che tempi migliori siano propizi a scenari politici più graditi. E tuttavia elettori e classi sociali non aspettano i nostri tempi e se mai un tempo nostro ci sarà, potrà nascere solo dall’attiva preparazione con cui ne predisponiamo la maturazione.
Così, ad ogni tornata elettorale il voto per il M5S diventa un grosso problema di coscienza per chi a sinistra vorrebbe trovare una propria rappresentanza politica e se non trova (più) una forza adeguatamente rappresentativa delle proprie istanze, fa fatica a dare il proprio contributo all’affermarsi elettorale di un movimento “anti-sistema” che sente come ambiguo, forse “di destra”, se non addirittura “pericoloso” per la democrazia. Questo dubbio assale ovviamente non chi si colloca nell’area del PD, né tantomeno chi si accontenta dell’identificazione rituale e consolatoria con micro-formazioni politiche di estrema sinistra che raggiungono lo 0,1%. Quindi il testo che segue non riguarda costoro ma coloro che al di fuori del recinto del PD vorrebbero una trasformazione, magari una rottura in senso progressivo del sistema italiano e sono abbastanza lungimiranti da sapere che ciò può avvenire solo in progresso di tempo e con il concorso di aggregazioni di forze sociali e politiche diverse. Il presente contributo cerca di capire, in modo ragionato e senza banalizzazioni, cosa è, cosa non è, cosa può e cosa non può fare il M5S in una prospettiva di questo tipo. Cercherò prima di analizzare gli aspetti del movimento che solitamente vengono criticati e che, a mio parere, vengono criticati in modo superficiale, erroneo e contraddittorio per poi passare ad una disamina di quelli che mi sembrano essere invece i suoi reali limiti. Solo a partire da qui mi pare si possa trarne una visione generale adeguata di ciò che sta accadendo nella politica italiana, degli scenari che si aprono e delle possibilità efficaci di intervento.
Anzitutto occorre sgomberare il campo da equivoci e semplificazioni giornalistiche. Iniziando dalla fatidica questione che angoscia molti elettori e militanti di sinistra: il M5S è un movimento di “destra”? La domanda, come vedremo, è mal posta e tradisce in genere unamentalità idealistica e passiva che vede il processo elettorale e i meccanismi rappresentativi come unica o principale arena in cui si gioca lo scontro politico. Ma per il momento attestiamoci su un’analisi delle caratteristiche intrinseche del movimento per darne una collocazione, per quanto superficiale e parziale, nella geografia delle forze politiche attualmente in campo. È infatti abbastanza discutibile il tentativo di definire in generale cosa voglia dire un termine altrettanto generico come “destra” (a parte il fatto che ciò necessiterebbe di lunghe e complesse analisi storico-politiche che non è questo il luogo di intraprendere[2]). Possiamo tuttavia scegliere la strada breve, per quanto rozza, di prendere le posizioni che i partiti dichiaratamente di destra propongono e confrontarle con le posizioni del M5S. Apparirà così chiaro che nessuno dei tre ceppi della destra italiana (quelloliberale-liberista, quello cattolico e quello fascista) possono essere considerati matrice del M5S e accomunati ad esso nei metodi, nei linguaggi e nei contenuti. Per quanto spesso generico e privo di indicazioni operative, infatti, il programma del M5S sembra essere costruito appositamente per smentire questi apparentamenti: non ha una matrice liberista, non ha una matrice nazionalista, né cattolica. Questo significa che il M5S deve essere collocato, almeno in maniera provvisoria, nell’alveo della “sinistra”? Stesso errore di prima: domanda e categoria troppo generiche. Per capire la matrice di provenienza del M5S e soprattutto la funzione politica che potrebbe svolgere occorre fare prima una riflessione sulla natura del tutto peculiare della destra e della sinistra italiane e collocarne il sorgere dentro una prospettiva storica che fornisca gli elementi essenziali alla sua analisi teorico-politica.
Law & Order vs. antiberlusconismo
Destra è categoria troppo astratta, soprattutto in Italia. Non solo infatti i partiti della destra italiana (da Alfano a Casa Pound) non sono omogenei tra di loro ma non possiamo dimenticare la presenza dell’anomalia berlusconiana che ha reso la destra italiana sensibilmente diversa dalle destre “classiche” europee e non. Ciò ha significato anche, per esempio, che la lotta a quell’anomalia ha qualificato il linguaggio e le priorità di gran parte dell’opposizione antiberlusconiana, contribuendo quindi a distorcere in parte il campo della sinistra stessa: non è un caso che il M5S ricavi dal proprio viscerale antiberlusconismo sia (a) la propria provenienza storica dall’ambito dell’opposizione di sinistra quanto (b) alcuni dei tratti che lo qualificano come “destrorso”.
(a) Il movimento nasce infatti attorno al blog di Grillo come polo di opposizione al berlusconismo ma si trasforma progressivamente in antagonista del PD mano a mano che cresce la consapevolezza che la sinistra PDS-DS-PD non ha sempre contrastato in modo reale o sufficientemente duro il PDL (quando non è stato addirittura colluso con il suo presunto avversario); spesso si dimentica che Grillo ha provato a candidarsi alla carica di segretario del PD[3], una mossa che, seppure in parte studiata per mettere in imbarazzo il partito fondato da Veltroni, non può essere semplicemente derubricata a “provocazione” ma si è qualificato come tentativo di entrismo del suo allora embrionale movimento in un partito che si proponeva come democraticamente aperto alla “cittadinanza”; allo stesso tempo si dimentica che Grillo ha presentato i punti del suo programma al premier Prodi in un incontro ufficiale[4], cercando di trovare ascolto alle proprie istanze; infine, per un breve periodo ci fu un avvicinamento tra Nichi Vendola[5] e il blog di Grillo prima che gli accordi tra SEL e il PD e gli scandali che ne seguirono facessero crollare totalmente questa ipotesi di apparentamento. Grillo ha fondato il proprio movimento solo quando non è riuscito a trovare una sponda in nessuna delle opposizioni al berlusconismo di allora.
(b) E così, mentre realizzava la sciagurata profezia di Fassino (“faccia un partito e si faccia votare”) Grillo ha continuato a fare l’antiberlusconiano a oltranza portando in dote al movimento alcuni dei temi che paradossalmente lo fanno puzzare di destra: la difesa senza se e senza ma della “legalità”, con tutto il corollario di linguaggio “manettaro” (incluso il rifiuto delle amnistie ecc.) e di simpatia per le forze dell’ordine[6] ma anche qui senza dimenticare la battaglia del M5S per il “numero identificativo”[7]. Sono temi di destra? Sì e no. Lo sono, ma non per i motivi che solitamente additano quelli di sinistra spaventati dal M5S. La difesa della legalità non è affatto in sé un tema destrorso, né tanto meno “fascista”, tanto è vero che è stato il cavallo di battaglia del PCI nella quarantennale lotta all’affarismo della DC: “il regime della forchetta”, “l’onestà contro la corruzione” erano slogan coniati da chi vantava la propria diversità radicale (politica e morale) rispetto a chi amministrava la cosa pubblica come cosa sua[8]. E nel momento in cui, in prosecuzione ideale con la Tangentopoli degli anni ’90, si lotta contro il regime berlusconiano che ha impedito la transizione ad una Seconda Repubblica instaurando un ancor più antidemocratico intreccio di politica, affari e contiguità con le mafie, quelle parole di legalità assumono un senso specifico e non possono e non devono essere confuse con le destrorse tirate forcaiole piccolo-borghesi solitamente lanciatecontro la micro-criminalità. Se si confronta, ad es., il programma della Lega troviamo che il tema “legalità” è strettamente associato a quello dell’immigrazione nella classica deriva securitaria che trasforma la predazione dei ceti subalterni a opera delle classi dominanti in lotta tra poveri:
  1. Incremento della lotta per la legalità, per il contrasto ai fenomeni della immigrazione clandestina, della criminalità predatoria.[9]
Nel caso del M5S al contrario il tema della legalità è esplicitamente volto a contrastare lo strapotere delle élite e l’impunità dei colletti bianchi. Se si confonde il piano della legalità securitaria con quello della lotta alla corruzione si genera una confusione di piani che puntando sull’omonimia (“legalità” dice la Lega, “legalità” dice il M5S) non solo non rende giustizia alle posizioni critiche del M5S contro il Law & Order leghista[10] ma inevitabilmente fa mancare anche il vero punto di debolezza del discorso pentastellato.
Piuttosto, l’immaginario legalitario del M5S indica un forte limite del suo potenziale anti-sistema e un possibile scivolamento a destra nella misura in cui sopravvaluta il potere del diritto rispetto alle dinamiche economiche e finisce per considerare “neutri” apparati dello Stato (dalla magistratura alle forze dell’ordine) che invece lavorano all’interno di un sistema iniquo che concorrono a rinsaldare. Ma deve essere chiaro che questa lettura è al di fuori della portata anche di molti elettori di sinistra che accusano il M5S di essere di destra per motivi totalmente sbagliati o inesistenti, senza accorgersi di essere loro stessi “di destra” quando difendono gli ordinamenti dello Stato in un regime capitalistico di cui non comprendono l’occulta funzione politica di difesa dell’esistente.
Veniamo allora alle altre possibili idee “di destra” del M5S. Esse riguardano soprattutto: (a) il superamento dell’opposizione destra/sinistra (e il problema della pregiudiziale antifascista), (b) il tema dell’immigrazione, (c) quello dei diritti civili e (d) la struttura verticistica autoritariadel movimento. Anche in questo caso si tratta di argomenti inesistenti, contraddittori o mal posti.
I diversi sensi del post-ideologico
(a) Conosciamo la teoria: quando un movimento politico dice di non essere “né di destra, né di sinistra” di solito è di destra. Tendenzialmente vero, ma non assolutamente e, soprattutto, non in modo univoco. Senza scomodare aree dell’antagonismo anarchico che non si riconoscono nella distinzione Destra/Sinistra, basta pensare che di partiti “post-ideologici” la storia politica recente d’Italia è piena: dalla Lega e Forza Italia del ‘94, al PD veltroniano. Anche qui è il contesto storico-politico che dà il senso specifico al rifiuto del M5S di collocarsi all’interno di quella opposizione poiché è del tutto evidente che non è possibile dire che Lega, FI, PD e M5S siano post-ideologici nello stesso senso e con le stesse conseguenze politiche.
Inoltre, l’affermazione del M5S circa il “superamento” dell’opposizione D/S ha almeno due significati distinti: uno forte e uno debole che spesso si confondono o variano a seconda di come e da chi quell’affermazione viene ripetuta. Nel senso “forte” significa che in assolutoquell’opposizione ha perso di significato. Ora, il M5S è senz’altro vicino alla destra quando, seguendo questo senso forte del superamento dell’opposizione D/S, afferma che le ideologie del ‘900 sono morte[11]; ma non perché, come solitamente fanno i discorsi alla Costanzo Preve, vorrebbe far confluire movimenti fascisti debitamente “ripuliti” nell’alveo dell’antimperialismo: il M5S, infatti, non si colloca ideologicamente agli estremi dello spettro politico bensì vorrebbe trovare una collocazione post-ideologica al di là dell’opposizione tra socialismo e liberismo. Purtroppo però l’ideologia liberista, lungi dall’essere morta, è più viva che mai e influenza costantemente le nostre vite anche quando non ce ne accorgiamo: dunque dichiarare morta essa e la sua controparte socialista significa, in reltà, privarsi degli strumenti necessari per comprendere come realmente funziona il capitale globale e le strategie necessarie a combatterlo (su questo torneremo alla fine del presente intervento).
C’è però da dire che il significato che più spesso viene dato al superamento dell’opposizione D/S è quello “debole”: ovvero che in Italia quella distinzione è servita solo a permettere l’alternanza di élite politiche che in modo più o meno mascherato hanno gestito il potere in modo congiunto. Si tratta quindi di rifiutare tatticamente e strategicamente ogni apparentamento e commistione con quei partiti o quelle aree politiche che hanno partecipato in modo diretto e indiretto a quella spartizione di potere. Intesa in questo senso, la posizione del M5S non solo è molto furba ed elettoralmente redditizia[12], ma è anche ragionevolmente comprensibile. Non bisogna cedere al meccanismo ideologico messo in campo dal PD, ovvero un uso del termine “sinistra” secondo una declinazione liberal (difesa dei diritti civili) che finisce per oscurare posizioni economicamente distruttive degli spazi di libertà e dei diritti dei lavoratori. Da questo punto di vista, infatti, il PD si trova in un campo molto più omogeneo a quello della Lega o di FI che non a quello del M5S.
Un fascismo 2.0?
L’uso reiterato del termine “fascismo” a partire dagli anni ‘70 per etichettare fenomeni totalmente diversi tra loro per composizione sociale e obiettivi economico-politici ha finito per logorare l’espressione facendole perdere il portato critico che dovrebbe contraddistinguerla. Diciamo che oggi in sostanza si usa il termine ondeggiando tra (1) tutto ciò che si richiama esplicitamente al fascismo storico, (2) ne ricalca implicitamente il modello, oppure (3) in senso vago, pasoliniano/reichiano, come una sorta di modalità antropologica, una specie di “malattia” identitaria dell’anima. Prescindendo da quest’ultimo senso, il peggiore perché si presta ad ogni abuso (ivi incluso definire “fascismo rosso” i movimenti di sinistra quando serve a screditarne la radicalità), rimangono i primi due casi.
Ora è chiaro che né Grillo, né il M5S hanno nulla a che fare col fascismo storico. Perché così fosse, dovrebbero poter essere ricondotti alle caratteristiche tipiche di quel fenomeno: il ribellismo antiparlamentare della classe media, la violenza anti-socialista in chiave nazionalista e l’appoggio interessato del padronato; nessuna di queste tre caratteristiche può essere attribuita ad un movimento il cui ribellismo inneggia alla democrazia partecipata e al parlamentarismo, in cui l’attacco (non-violento) ai partiti come il PD, che da tempo hanno abdicato alla vocazione “socialista”, viene condotta proprio a causa del loro tradimento degli interessi dei lavoratori e che, infine, viene visto con forte sospetto da Confindustria & soci[13].
Qualcuno ha poi voluto vedere nella struttura “fluida” del movimento un modo per asservire una massa di cittadini inermi al leader carismatico in una forma di totalitarismo 2.0 e nelle polemiche via web dei “grillini” una nuova forma di “squadrismo” telematico. Si tratta, occorre riconoscerlo, di colossali sciocchezze. Il presunto “modello” fascista di nuovo conio che il M5S dovrebbe rappresentare viene costruito secondo criteri scelti a caso e quasi sempre legati a mere percezioni soggettive (soprattutto costruite sulla base di impressioni ricevute tramite i social network). Anche la famigerata “mistica” del capo è un tratto assolutamente da ridimensionare. A prescindere dal narcisismo e dalle tendenze autoritarie cui difficilmente si sfugge quando si assume un ruolo decisionale così importante, la leadership viene praticata da Grillo in modo ironico e auto-ironico, spiazzando quella meccanica degli affetti che sta al cuore di ogni identificazione regressiva col capo tipica del fascismo; per convincersene, basta vedere i risultati delle consultazioni interne al movimento in cui la maggioranza degli iscritti ha scelto di togliere il riferimento al suo nome dal simbolo e chiede al comico genovese di farsi da parte.
Rimane, certo, quel linguaggio dell’onestà che infarcisce la comunicazione interna/esterna del M5S a qualificarlo in senso piccolo-borghese e identitario e, dunque, potenzialmente fascistoide: laddove, infatti, viene predicata una “purezza” del “noi” contro un “loro”, identificato come capro espiatorio, “corrotto”, si entra dentro una logica sacrificale e intrinsecamente violenta. Se questo è vero, si dimenticano però le due caratteristiche fondamentali del M5S che fungono da antidoto a questa deriva: 1) il movimento è costruito strutturalmente per abolire quella opposizione perché il “loro” non costituisce un soggetto identificabile una volta per sempre ma è semplicemente l’effetto sclerotizzante di un rapporto di potere in cui alcuni cittadini divengono politici di professione in contiguità con centri di potere economico; 2) di conseguenza, il “loro” non costituisce un soggetto oppresso e discriminato ma oppressore e discriminante! Chi si adonta perché Grillo dice che il M5S costringerà i suoi oppositori a diventare delle “brave persone”[14], dovrebbe comprendere che non si sta parlando di progettare una società totalitaria in cui tutti si comportano allo stesso modo, ma molto banalmente dal fatto che un’elite politico-economica abituata a vivere di privilegi sulle spalle degli altri verrà costretta a non farlo più.
Discorso a parte merita la questione della pregiudiziale antifascista. Video e foto più o meno taroccate sono servite negli anni a creare il mito del Grillo fascista, amico dell’estrema destra ecc.[15] Tutti i casi eclatanti di contiguità tra M5S e fascismo che hanno riempito le pagine dei giornali sono riconducibili a due fattori: (a) l’analfabetismo politico del leader e degli eletti; (b) gli errori di comunicazione della prima fase “estemporanea” e improvvisativa del movimento. Gettandosi nell’agone politico senza alcuna preparazione e cautela Grillo e i suoi hanno toccato nei loro discorsi con colpevole leggerezza l’argomento “fascismo” prestando il fianco alle ovvie schermaglie degli oppositori politici e alle campagne strumentalizzanti che la grande stampa padronale e filogovernativa ha ovviamente imbastito con facilità. Grillo non ha mai suggerito apparentamenti o vicinanze di alcun tipo con una minoranza di violenti e xenofobi[16], né la Lombardi ha mai preteso “riabilitare” il regime mussoliniano (peraltro all’interno di un discorso che voleva essere un goffo tentativo di presa di distanze da Casa Pound![17]). Sarebbe sciocco oltre che suicida se l’avessero mai fatto. Non solo Grillo[18] ma altri esponenti[19] e gruppi locali[20] del movimento hanno più volte affermato di essere personalmente antifascisti con profondo rammarico dei fascisti stessi, pronti a iscriverli d’ufficio nell’albo degli appartenenti al complotto giudiaco-massonico[21]. Non è un caso che più nessuno “scivolone” di questo tipo è stato registrato in tempi recenti, in cui la comunicazione del movimento ha affinato le sue armi, e che addirittura Virginia Raggi abbia potuto incalzare la Meloni sul suo “passato fascista” durante un dibattito televiso[22].
(b) Questo ci porta direttamente al tema dell’immigrazione che tanti sospetti ha suscitato negli ambienti di sinistra. Ovviamente l’adesione ad un eurogruppo comune con l’orrendo Ukip di Nigel Farage non è stato d’aiuto. A nulla è servito ribadire che si trattava di un’alleanza tecnica necessaria a formare un gruppo al Parlamento europeo per poter contare qualcosa nelle commissioni e che in tema di nazionalismo e liberismo il M5S avrebbe sempre avuto le mani libere per votare in modo difforme[23]. Il pragmatismo di Grillo in questo frangente ha fatto storcere il naso a non pochi simpatizzanti, seppure è vero che l’alleanza con i Verdi, caldeggiata da molti, rappresentava un’opzione non meno scomoda, tante sono le divergenze con un gruppo politico ormai fortemente compromesso con le tecnocrazie europee. Anche se Grillo ha fortemente sottovalutato il potenziale xenofobo dell’Ukip e di Farage è vero che le stesse posizioni ufficiali del M5S sul tema immigrazione possono risultare ambigue: si vedano, ad es., le proposte presentate dal M5S al Senato per affrontare “l’emergenza migranti” e in particolar modo il punto 4 e il punto 7 che non possono non suonare come campanelli d’allarme a chi sia abituato a sentire i discorsi standard della destra razzista:
  1. Istituzione di punti di richiesta d’asilo, finanziati dall’Unione Europea, anche al di fuori del territorio europeo
  1. Concessione di beni e servizi per le famiglie italiane in difficoltà per evitare tensioni tra italiani e migranti.
La prima, se non suona come una versione riveduta e corretta del famigerato “aiutiamoli a casa loro”, malcela un atteggiamento che seppure interessato al destino dei migranti finisce per considerarli un “problema” che andrebbe affrontato e risolto al di fuori dei nostri confini; la seconda sembra pericolosamente vicina alle parole d’ordine della destra fascistoide: “prima gli italiani”. Se il punto 4 è una maldestra concessione alle più ingenue rappresentazioni dell’uomo della strada (secondo cui sarebbe possibile istituire comodi centri di richiesta d’asilo in zone di guerra e direzionare comodamente da casa gli imponenti flussi migratori generati dalla crisi in Medio Oriente), il secondo sembra avere una funzione strategica consapevole che non è agevole derubricare a puro e semplice razzismo (almeno non nelle intenzioni, anche se negli effetti lo è). Basta vedere come, in contrasto con l’atteggiamento troppo aperto del blog di Grillo su Orban, il gruppo europeo pentastellato abbia preso una posizione netta contro il razzismo e la costruzione di muri in Ungheria e in Austria[24].
Grillo e Casaleggio hanno infatti esplicitamente sostenuto l’inconciliabilità tra il M5S e i movimenti xeonofobi, la capacità del M5S di intercettare una domanda di cambiamento che potrebbe far crescere il consenso dell’estrema destra per convogliarla verso una proposta di cambiamento democratica, solidale e partecipata:
Beppe Grillo: Con la crisi le ideologie son pronte per tornare. Anche il nazismo e il fascismo non scompaiono mai. Io ne sento l’odore da lontano ed è questo il momento del loro grande ritorno. Quando ci sono pesanti crisi economiche e politiche, la gente rispolvera le parole d’ordine più facili e comprensibili, è sempre stato così. Oggi se uno dice “basta con gli immigrati” ha un seguito immediato. In Francia c’è Le Pen, la destra razzista avanza in Finlandia e non parliamo dell’Ungheria, dove al governo c’è la destra conservatrice e la destra estrema alle ultime elezioni è diventata il terzo partito proponendo leggi contro gli ebrei. Stanno nascendo in Europa delle destre violentissime che fanno leva sui sentimenti e sui luoghi comuni più irrazionali: l’immigrato che arriva e ti ruba il posto di lavoro oppore “il pane è nostro e ce lo dividiamo tra noi”. La gente esasperata pensa così.
Gianroberto Casaleggio: In Grecia c’è Albadorata, che opera un doppio registro, uno è quello aggressivo che si appoggia a una retorica nazista e antiparlamentare, l’altro invece è di tipo patriottico, sociale,demagogico.
Beppe Grillo: Si sono le solite leve. Questo è un momento pericoloso, andiamo verso il disordine sociale, non perchè saremo tutti più poveri o perchè dovremo diminuire in consumi e cambiare stile di vita ma perchè in questo cambiamento si inseriranno forze antidemocratiche e liberticide. Non bisogna lasciare possibili spiragli a queste forze. Molti nostri avversari non capiscono che il Movimento 5 Stelle è un argine democratico contro questi gruppi, se non ci fossimo noi avrebbero senz’altro più spazio[25].
Il fatto che alle elezioni politiche del 2013 il M5S sia riuscito in effetti ad intercettare quell’elettorato è un fatto[26], così come è un fatto che il declino dei suoi consensi nei primi mesi del governo Letta abbia coinciso con l’ascesa di Salvini, mettendo purtroppo l’anomalia italiana di una destra xenofoba marginale e non in crescita in linea con il resto d’Europa[27]. L’elettore xeonofobo non trova infatti conforto nel discorso conciliante del M5S, che si ammanta di solidarietà e tenta di disinnescare l’odio verso il diverso con misure che si vogliono indirizzate a rendere possibile una “ragionevole” convivenza. Per quanto questo “calcolo” possa infastidire e se ne possano criticare le ingiuste conseguenze, identificarlo tout court con il discorso leghista significa, di nuovo, mescolare le carte e offrire una sponda alla sinistra istituzionale, avvallandone la narrazione ideologica e interessata. Si veda, a conferma di ciò, anche la recente polemica del sito Il Primato Nazionale contro la Raggi e il suo programma sull’immigrazione e i campi rom a Roma considerato troppo moderato e indistinguibile dal discorso standard dei partiti della sinistra tradizionale[28]. Ritorneremo su questa contraddizione più avanti parlando delle possibile “derive” destrorse del M5S.
Pragmatismo o omofobia?
E veniamo all’altro nodo della discordia: (c) quanto pesa l’elettorato di destra sulle scelte della dirigenza M5S in tema di diritti civili, unioni gay ecc.? Perché non c’è una posizione chiara in proposito? La risposta standard a questa domanda è facile facile: “il M5S non vuole scontentare nessun elettore”. Ma è sbagliata. Anzitutto perché, in effetti, degli elettori vengono di fatto scontentati e non si capisce perché il M5S dovrebbe puntare alla conquista di voti “omofobi” a scapito dei voti della parte maggioritaria dell’elettorato che, come noto, è a favore delle unioni civili. I critici del M5S non comprendono, infatti, che la posizione interlocutoria del movimento su questi temi è dovuta a due fattori uno strutturaleinterno, l’altro contingenteesterno.
Il primo è legato al fatto che non gli elettori ma parte della stessa base degli attivisti e deglieletti del M5S non ha idee definite e univoche in termini di tematiche lgbtq (come è d’altronde lecito quando si tratta di questioni a sfondo etico, per loro natura politicamente trasversali). Quando il gruppo consiliare di Roma votò per l’adesione del M5S al Gay Pride[29], ad es., la decisione fu da alcuni contestata come divisiva rispetto alla base del movimento in quanto le posizioni ufficiali di Grillo[30] e degli iscritti al M5S[31] a favore delle unioni civili differivano dalla piattaforma rappresentata dal Gay Pride in tema di maternità surrogata adozione[32]temi su cui, come noto, non c’è alcuna unanimità nemmeno nella sinistra moderata e radicale.
Questo contrasto interno, strutturale, si scontra con un problema esterno e contingente che riguarda l’attuale fase politica: ovvero la gestione autoritaria del parlamento da parte della composita maggioranza a guida PD. Il M5S, come noto, ha dato la propria iniziale disponibilità ad un percorso parlamentare che portasse all’approvazione della legge sulle unioni civili ma non è stato disposto a condividere un iter che soffocasse il dibattito sulla medesima tramite l’espediente del “canguro”. I gruppi lgbtq hanno accusato i M5S di miopia per non aver votato quella legge ma è pur vero che, al netto dei tatticismi per mettere in difficoltà il governo, il rispetto del ruolo e della funzione del parlamento rappresenta uno dei principi cui il M5S non ha mai derogato. Da allora la comunità lgbtq ha spesso polemizzato con il M5S accusandolo di scarsa attenzione al tema dell’omofobia. La questione è reale ma le animose polemiche che sono seguite (ad es. nel caso delle elezioni amministrative romane) lasciano il tempo che trovano: parte di quel mondo che ora contesta il M5S (le Luxuria e le Concia), è del tutto organico al ceto politico elitario e parassitario con cui il M5S non vuole, e giustamente, avere nulla a che fare. Inoltre, anche qui giustizia vuole che si marchi sempre la differenza tra un movimento che lascia libertà di coscienza ai suoi membri e la destra macista e orgogliosamente omofoba.
Uno vale uno…ma con juicio: dai meet-up al Direttorio
Ma ciò che probabilmente lascia più dubbiosi e infastiditi gli elettori di sinistra è (d) l’aspetto verticistico di un movimento che si vorrebbe radicalmente democratico e che invece vive ancora e sempre sotto l’egida del suo ideatore e fondatore. In particolar modo, l’accusa agli eletti del movimento di essere “eterodiretti” si sposa spesso con l’accusa di incoerenza anche nelle scelte quotidiane, con frequenti cambi di direzione che non sembrano spiegarsi se non a seguito di capricciose direttive “calate dall’alto” (caso emblematico proprio il dietrofront sulla legge Cirinnà). Ma anche in questo caso la ricostruzione non restituisce in modo adeguato la complessità della situazione. Prima di affrontare questo tema specifico per collocarlo nella giusta angolatura occorre, però, spendere due parole sulla reale struttura del movimento al di là della semplificazione che lo vuole una semplice appendice della volontà del suo creatore.
            L’immagine di un movimento di “burattini” scelti e gestiti dall’alto è priva di fondamento perché irrealistica e smentita dai fatti[33]. Chi ha avuto modo di seguire la genesi e l’affermazione del movimento di Grillo è rimasto senz’altro colpito dalla quasi totale incapacità di gran parte della sinistra tradizionale di comprenderne i punti di forza e, al tempo stesso, di concentrarsi su punti di debolezza marginali quando non addirittura immaginari. Ne abbiamo già parlato e ci torneremo. È però importante sottolineare che l’aspetto che più di ogni altro sembra sfuggire all’analisi della sinistra italiana è che il M5S non è nato in un giorno e non è nato dal cilindro di Grillo. Chi non ne conosce la storia difficilmente ne valuta correttamente il significato politico.
Il blog di Grillo si afferma nei primi anni del nuovo millennio come centro di aggregazione di idee che hanno come assi portanti (a) l’ecologismo, (b) la democrazia digitale e (c) la lotta alla corruzione/berlusconismo. Grillo non è ovviamente l’ideatore di nessuna delle idee che trovano spazio sul suo blog, né tantomeno dell’uso che sta facendo del suo stesso blog (fa anzi autocritica rispetto alla posizione reazionaria nei confronti dell’informatica da lui difesa durante i suoi spettacoli degli anni ‘90); si limita a farsi portavoce di esperienze che ritiene a torto o a ragione “innovative” e che delineano scenari possibili di uso delle risorse energetiche, di esperienze di buona amministrazione che partono dal territorio, talvolta denunciando abusi e ingiustizie. Dal mondo virtuale il blog inizia a farsi veicolo di incontri reali in cui si vengono sempre più definendo i tratti di una posizione politica sui generis che approfondisce e sistematizza quei tre punti di ispirazione ed elabora proposte di cambiamento legislativo: in particolare, rispetto al punto (c) l’ipotesi che si fa strada è quella di rendere tecnicamente impossibile la costituzione di un’élite politico-affaristica scollata dall’elettorato (no condannati in parlamento, limite di due legislature, vincolo di mandato ecc.). Qui nasce il primo significato dello slogan “uno vale uno”: nessun cittadino deve più sottostare al volere eteronomo di una “casta” di politici di professione.
L’opposizione cittadini/politici da sempre oggetto di critica da parte degli altri partiti nasce in realtà dall’esigenza di contrastare il potere di tali élite e di impedirne la ricostituzione. Si può certo criticare l’idea massimalista di cancellare ogni corpo intermedio tra governo e cittadini, ma non certo banalizzandola come una sorta di “mitologia” del cittadino buono: il punto non è che i cittadini sono “meglio” dei politici, il punto è che se la burocratizzazione eautonomizzazione del ceto politico peggiora la gestione della macchina statale e amministrativa facilitando corruzione e sprechi e distorcendo fatalmente il rapporto tra elettori ed eletti in senso clientelare o comunque passivizzante, si dovrebbe cercare di impedire tali fenomeni di degenerazione alla radice. Ora ciò che rende questa prospettiva problematica non è il suo aspetto “tecnico” (l’esperienza della democrazia partecipata e sottoposta a vincolo di mandato della Comune parigina poggiava anche, necessariamente, su meccanismi di controllo) bensì il fatto che tale aspetto tecnico non si unisca ad un’adeguata trasformazione socio-economica in senso egualitario della società: i meccanismi di controllo non possono fermare i fenomeni corruttivi e degenerativi della democrazia formale se ad essa non si associa una parallela trasformazione sociale che introduca la democrazia materiale, economica, cosa che travalica le intenzioni del M5S proprio a causa della sua impostazione post-ideologica (anche su questo torneremo nell’ultima parte di questo intervento).
Il secondo significato dello slogan “uno vale uno” è altrettanto problematico poiché dovrebbe descrivere la natura intimamente democratica del movimento stesso che nasce come una specie di versione italiana del Partito dei Pirati e poi si trasforma presto in qualcos’altro. Vediamo come nasce questa idea e quali sono i suoi limiti. Parallelamente ai tentativi di “dialogo” con l’opposizione antiberlusconiana (principalmente Italia dei Valori, ma, come abbiamo visto, anche il PD e SEL) iniziano a costituirsi i primi nuclei locali di una struttura che lentamente ma inesorabilmente si attiva sul territorio: prima gli “amici di Beppe Grillo” e le liste civiche “certificate”, i meetup e infine, dopo l’esperienza dei V-Day e dei relativi referendum popolari, la costituzione del M5S. Viene elaborato un non-statuto e un programma del movimento. La democrazia digitale, questa la differenza centrale con il Partito dei Pirati (che la praticano con ben altro rigore…), si sposa con la partecipazione dei cittadini in forme abbastanza tradizionali, tanto che, paradossalmente, il M5S sembra oggi l’unico soggetto politico in grado di ricalcare forme aggregative tipiche dei partiti di massa novecenteschi ormai estinti. Vincere 19 ballottaggi su 20 non è un caso. È un fatto che il M5S continua a presentarsi alle elezioni solo là dove si crea sul territorio una rappresentanza reale del suo programma e dunque solo là dove è possibile che le dinamiche aggregative impediscano o rendano meno frequente la possibilità di infiltrazioni da parte del vecchio ceto politico.
Se questo è vero, se cioè c’è stato un grande fermento di base che ha sancito l’escalation politica del M5S, è anche vero che mano a mano che il movimento entra nelle istituzioni (prima locali, poi nazionali) il rapporto con gli attivisti si fa sempre più complicato e sembra sempre più risentire dell’influsso spersonalizzante del rapporto elettore/eletto. A ciò si aggiungano le critiche della base alla “tutela” del movimento da parte di Grillo e Casaleggio che non mancano e non possono essere minimizzate: dall’intromissione nelle scelte degli eletti, all’uso poco trasparente e funzionale della piattaforma web su cui gli iscritti votano le decisioni, al modo non sempre lineare con cui viene dato seguito alle decisioni prese. Tuttavia, una serie di considerazioni si impongono.
1) Il successo politico del 2013 fu, confessa Grillo, del tutto inaspettato e colse impreparato il M5S[34]: ci si immaginava un ingresso in parlamento da opposizione per farsi le ossa e ci si trovò in poco tempo a dover decidere se contribuire o no alla formazione di un governo. I primi convulsi mesi del movimento come realtà parlamentare furono caratterizzati da approssimazione, improvvisazione e gaffe di ogni tipo; assieme al rigore, forse eccessivo, con cui il M5S affrontò il tema delle alleanze, dei rimborsi spese, delle presenze televisive, delle numerose espulsioni che seguirono queste prime fasi della legislatura, l’inesperienza della compagine parlamentare del M5S produsse il tracollo di elettori che si registrò alle europee successive. Uno dei primi motivi che portò il M5S a ridurre di molto la pretesa di far valere “l’uno vale uno” sta anche qui. Mandati allo sbaraglio, senza formazione, senza direttive, senza una strategia comunicativa e parlamentare, i parlamentari del M5S semplicemente davano l’impressione di essere ciò che erano: un gruppo di persone scelte in modo più o meno casuale che doveva affrontare la “fossa dei leoni” parlamentare e televisiva senza avere imparato ad identificare i pericoli e ad evitarli e senza avere ancora imparato come trasformare in proposte di legge le generiche affermazioni contenute nel proprio programma elettorale. Serrare le righe, uniformare la comunicazione, cercare i volti più presentabili e le personalità più spendibili comunicativamente divenne una necessità di sopravvivenza. Tutto ciò ha reso il M5S progressivamente più credibile a livello comunicativo di massa, ha permesso di combattere il caos informativo e “bucare” la cortina di ostilità dei media calibrando una strategia che battesse fortemente (quasi ossessivamente) su alcune parole d’ordine ma ha prodotto due risultati negativi: (a) la stereotipizzazione eomogeneizzazione del linguaggio e dei temi trattati (della serie: meglio ripetere ad nauseamche non si prendono rimborsi elettorali che dover smentire i deliri del fricchettone di turno sulle scie chimiche), (b) l’emergere di uno strato di attivisti ed eletti maggiormente credibile per un pubblico televisivo medio, il che tende a mettere in secondo piano figure sociali “deboli”, speso sguaiate e incontrollabili (dall’operaio al cassaintegrato allo studente) in favore di altre figure emergenti più borghesi e “rassicuranti” (avvocati, piccoli imprenditori ecc.).
2) Alcune personalità più “telegeniche” (Di Maio, Di Battista ecc.) andarono a formare il cosiddetto “Direttorio”, cioè un gruppo di parlamentari che avrebbe dovuto sostituire Grillo e Casaleggio nella direzione del movimento. Come noto a questa decisione si arrivò dopo la batosta elettorale delle europee che consacrò Renzi Presidente del Consiglio e sancì uno stop improvviso all’ascesa elettorale del M5S. Il leader, sempre più criticato, decise di farsi da parte dalla scena mediatica dopo aver lasciato a un gruppo di parlamentari il compito di “guidare” il movimento. Se ciò venne salutato come un passo avanti nella storia del M5S, da più parti si sottolineò il paradosso di un movimento che si vuole radicalmente democratico e che ha però bisogno di una continua tutela sui propri iscritti. Ma potrebbe essere altrimenti? Sarebbe davvero possibile, come sostengono alcuni, emancipare totalmente il M5S dalla tutela di cui è oggetto per consegnarlo interamente ai cittadini e alle loro libere decisioni come predica il suo statuto? La risposta, per quanto dura a sentirsi, non può che essere: no. Senza una figura di “garanzia” o, se si vuole, un supervisore di ciò che accade ai vari livelli dell’organizzazione del M5S sarebbe facilissimo da parte di agenti politici ed economici esterni infiltrarlo, scombinarlo, dividerlo e alla fine distruggerlo. Proprio in quanto, come si è visto, non ci sono pregiudiziali politiche all’adesione al movimento, se Grillo o il Direttorio non si preoccupassero di fare da filtro e raccordo tra l’adesione dei cittadini sul territorio, le scelte degli eletti ai vari livelli e la politica nazionale, regnerebbe presto il caos e le spinte centrifughe più o meno eterodirette. Chi non riconosce questo, semplicemente sottovaluta la posta in gioco, l’entità e la virulenza delle forze in campo e la notevole complessità di gestione di un apparato liquido quanto si vuole ma sempre più partecipato e strutturato.
Il mito della “competenza”
L’imporsi a livello mediatico nazionale di tanti illustri sconosciuti è stato uno dei tratti più criticati del M5S, l’aspetto dove più velenosa si è impuntata un’ironia saccente e piuttosto scontata. Eppure quello della “competenza” è a sua volta un mito che andrebbe rivisto criticamente. La Taverna non è certo la cuoca di Lenin, ma l’apprendistato che il M5S ha iniziato a fare nelle istituzioni riprende un’idea che un tempo non era così estranea alla storia della sinistra:
Non siamo degli utopisti. Sappiamo che una cuoca o un manovale qualunque non sono in grado di partecipare subito all’amministrazione dello Stato. In questo siamo d’accordo con i cadetti, con la Bresckovskaia, con Tsereteli. Ma ci differenziamo da questi cittadini in quanto esigiamo la rottura immediata con il pregiudizio che solo dei funzionari ricchi o provenienti da famiglia ricca possano governare lo Stato, adempiere il lavoro corrente, giornaliero di amministrazione. Noi esigiamo che gli operai e i soldati coscienti facciano il tirocinio nell’amministrazione dello Stato e che questo studio sia iniziato subito o, in altre parole, che si cominci subito a far partecipare tutti i lavoratori, tutti i poveri a tale tirocinio […] Certo, ai primi passi di questo nuovo apparato, gli errori saranno inevitabili. Forse che i contadini, passando dalla servitù della gleba alla libertà, cominciando a gestire i loro affari da soli, non commisero degli errori? Vi è forse altra via all’infuori della pratica, all’infuori di un’immediata autoamministrazione del popolo, per insegnare al popolo ad amministrarsi da sé e ad evitare gli errori? L’essenziale è oggi di rompere completamente con il pregiudizio degli intellettuali borghesi per cui lo Stato non può essere amministrato se non da funzionari speciali i quali, per la loro posizione sociale, siano interamente dipendenti dal capitale[35].
Perché Lenin scriveva queste parole? Ma perché, contrariamente a quanto ritiene la sinistra borghese, non esiste tecnica “neutrale” di amministrazione della cosa pubblica. Ogni tecnica è declinazione di un interesse particolare, ogni modalità di gestione dello Stato è piegata a obiettivi determinati e serve la realizzazione di certi scopi. Se ciò è vero, la competenza di cui il ceto politico mena vanto è in realtà solo il segno della sua cooptazione permanente nelle logiche di potere all’ombra del capitale.
Chiunque entra nella macchina amministrativa senza essere stato prima addestrato ai suoi meccanismi corporativi ha il gigantesco problema di dover imparare a gestirla. Ora qui il problema è che i cosiddetti “professionisti” della politica sono persone che conoscono benissimo questa macchina, tanto bene che ne fanno un uso geloso ed esclusivo, escludente cioè le classi subalterne, rese oggetto inerte della loro azione. E ogni volta che si realizza un cambiamento politico radicale, chi lascia quella macchina ride sotto i baffi perché sa che i nuovi arrivati dovranno affrontare difficoltà enormi e che questo garantisce loro quell’aura di “rispettabilità” e “competenza” che i nuovi arrivati non hanno. Ma è il serpente che si mangia la coda. Non esiste passaggio di consegne indolore se la rottura nella continuità del ceto politico è radicale. La mancanza di conoscenza dell’apparato burocratico è una triste necessità, inevitabile conseguenza del desiderio attivo delle classi dirigenti di tenere fuori dalla porta gli amministrati.
A ciò si aggiunga che la tanto sbandierata cultura e competenza dell’attuale ceto politico è roba da far ridere i polli. I “professionisti” della politica sono in genere, e quasi senza eccezione, ad un livello culturale penoso. Non solo. Essi solitamente non amministrano direttamente i dicasteri e gli assessorati ma delegano a loro volta persone scelte solitamente secondo criteri tutt’altro che meritocratici e di competenza. Il personale politico è “competente” se mette al lavoro persone competenti nei diversi settori dell’amministrazione, dunque ponendo la conoscenza tecnica specifica al servizio di un progetto politico determinato. E sicuramente un punto a favore del M5S è che può operare queste scelte del personale tecnico senza vincoli politici e affaristici che sono stata la causa principale della malagestione della cosa pubblica finora.
Ciò non significa che il M5S non soffra di un difetto congenito di incompetenza che tuttavia non è incompetenza amministrativa ma politica. Ciò di cui la gran parte degli attivisti e degli eletti del M5S è a digiuno è una solida cultura politica di base che permetta loro di comprendere la natura dei conflitti sociali: mancando ad essi la preparazione in grado di fornire le chiavi interpretative di tali conflitti e il modo della loro gestione politica (non amministrativa), essi sono costretti ad improvvisare il senso e la prospettiva del percorso che stanno facendo attraverso le istituzioni, e non sempre ci riescono in modo soddisfacente.
Va tuttavia anche notato – di nuovo a suo merito – che il M5S ha reintrodotto la dimensionecollettiva anonima nell’agire politico dopo anni di personalismo esasperato. Proprio a ragione della limitazione preventiva del loro mandato, infatti, gli eletti del M5S non possono costituirsi come ceto burocratico staccato dal resto della cittadinanza e non posso quindi per definizione, nonostante la notorietà che può arridere loro nell’immediato, aspirare ad un ruolo privilegiato all’interno del movimento. Per questo i nomi che balzano alla ribalta dei media hanno talvolta le sembianze e la consistenza di uno spot per il movimento, figure concretissime e quotidiane, ma anche diafane e impermanenti che prestano la propria faccia ad una collegialità che da tempo non sembra più avere spazio nella politica italiana. Ragione per cui discettare sulla competenza del candidato X o del candidato Y è operazione che lascia il tempo che trova. Così come criticare gli illegalissimi “contratti” che Grillo fa firmare ai propri eletti e che altro non sono se non tentativi più o meno simbolici di riaffermare attraverso il vincolo di mandato la centralità del movimento sulle scelte dei singoli membri.Uno vale uno solo se vale nessuno in quanto uno.
Una spinta propulsiva (populista)
Nonostante le criticità che abbiamo sottolineato finora e altre che aggiungeremo nella conclusione, il M5S rappresenta per molti, soprattutto per chi non si è lasciato ingannare da analisi sommarie, un elemento innovatore e, almeno in parte, progressivo nella politica italiana. Perché? Perché costituisce un fattore di destabilizzazione dell’attuale sistema politico-economico lungo due direttrici fondamentali: (1) dal punto di vista formale della rappresentanza e (2) da quello materiale delle politiche sociali.
(1) Il programma del M5S, lungi dall’essere una generica “mitologia” del cittadino, svolge una funzione progressiva nell’attuale dinamica di gerarchizzazione selvaggia delle democrazie occidentali: il suo attacco diretto all’autonomizzazione della sfera politica mira a disarticolare il potere dei ceti dirigenti attraverso la fuidificazione e il ricambio organico tra elettori ed eletti; mira ad attaccare i conflitti di interesse e i fenomeni corruttivi ad essi legati; a rendere più snello e trasparente il rapporto tra i cittadini e le comunità locali e le istituzioni. È la conditio sine qua non di un cambiamento degli assetti di potere ma non è e non può rappresentare come tale questo cambiamento.
(2) Un simile cambiamento necessita infatti di una parallela trasformazione economica. Nel programma del M5S la natura in parte velleitaria, in parte limitata di tale trasformazione non deve però far sottovalutare ciò che indica una reale volontà di rottura con le politiche liberiste, l’accaparramento e la distruzione dei beni pubblici, l’impunità delle aristocrazie finanziarie e manageriali, la precarizzazione del mercato del lavoro. Non è un caso che laddove il M5S riesce a radicarsi sul territorio interfacci necessariamente i movimenti diopposizione sociale e che questi lo vedano come un interlocutore, se non ideale, sicuramente maggiormente capace di garantire un dialogo aperto alle loro istanze.
Chi nega questo dato di fatto semplicemente non è (più) in grado di leggere la realtà, i rapporti di potere in cui siamo presi, le dinamiche di lungo periodo che hanno costretto all’angolo le istanze di cambiamento sociale. È del tutto ovvio che il M5S non rappresenti l’optimum della rappresentanza politica di tali istanze. Ma è altrettanto miope non vedere che esso offre loro molto più di una generica rappresentanza: attacca direttamente strutture di potere che soffocano quelle istanze e dunque contribuisce, almeno indirettamente, alla liberazione del loro potenziale trasformativo.
È il caso di chiarire che il M5S svolge questa funzione non nonostante ma grazie al suo “populismo”: perché apre uno spazio che si immagina di poter riempire di contenuti. Il ricorso al termine “populismo” ha riempito le bocche di giornalisti e analisti ma a sproposito. Esso indica tanto un metodo quanto degli obiettivi. Populista è una relazione tra leader e massa in cui il primo ha la capacità di catalizzare il malcontento della seconda veicolandolo verso una critica che appare però vaga nei contenuti. Il M5S è senz’altro populista in questo senso, seppure occorre sottolineare che la vaghezza dei suoi obiettivi riguarda non l’oggetto della sua critica distruttiva – che è invece ben determinato – quanto la modalità della sua sostituzione. In altre parole, il M5S è abilissimo nel catalizzare l’insoddisfazione dei suoi iscritti ed elettori nei confronti delle politiche dei governi precedenti, identificando anche le fattispecie legislative che intende abolire (nel programma del 2013, ad. es., la legge Biagi o la legge Gelmini); è rimasto però spesso debitore di un adeguato programma di atti legislativi che dovrebbero sostituirle, anche se questo aspetto tende a diventare meno vero man mano che gli eletti al parlamento prendono confidenza con le procedure legislative.
Dalla rappresentanza alla lotta
Di fronte al vuoto di rappresentanza delle istanze sociali più radicali, molti a sinistra negano che il M5S possa costituire una sponda politica utile, talvolta la vedono come un pericolo. Si tratta di uno, anzi di due errori oggettivi di valutazione politica.
Il primo riguarda la considerazione secondo cui appoggiando il M5S si “blocca” la nascita di soggetti politici più radicali e adeguatamente rappresentativi della lotta al capitalismo. La considerazione sarebbe corretta se esistesse un progetto realmente condiviso, partecipato e organizzato sul territorio delle classi subalterne (sul modello originario di Syriza o Podemos). Ma non esiste nulla di tutto questo, solo l’eterno riciclo di classi dirigenti trombate e la diaspora dei micro-partiti settari; in tale circostanza, mentre la lotta di classe delle elite al potere morde senza pietà e inanella in pochi mesi più vittorie di quanto sia riuscita a fare in ventanni di berlusconismo (vedi abolizione dell’art. 18) non deve scandalizzare se il M5S ovviamente profitta di tale vuoto di rappresentanza facendosi in parte espressione di quelle esigenze (ad es., con la sua opposizione frontale al jobs act). I processi rappresentativi delle dinamiche di classe non sono arrestabili e trovano sempre modo di esprimersi, se non al meglio, certo al meno peggio. Lasciar perpetrare indisturbate le politiche classiste del governo perché il M5S non ostenta un pedigree di sinistra “autentica” è un atto politicamente suicida. Inoltre, volendo prendere per buone le premesse del ragionamento, è semmai vero il contrario: con un M5S stabilmente al 25% all’opposizione è molto più difficile che si realizzi qualcosa alla sua sinistra.
Il secondo errore riguarda poi la deriva passivizzante che caratterizza questo tipo di atteggiamenti. Laddove si sceglie il non-voto o il voto irrilevante perché non ci si fida del M5S al governo (della città o del paese) si tradisce una visione meramente elettoralistica dei processi sociali. L’astensione potrebbe infatti avere un senso nella misura in cui si stesse realizzando una dinamica di trasformazione sociale in altri luoghi che non la cabina elettorale, in cui lo scontro fosse canalizzato da un soggetto o da più soggetti sul territorio, nei luoghi di lavoro, in forme materiali, attive che si spingono al di là della rappresentanza parlamentare. A prescindere dalla praticabilità o meno di questo tipo di opzioni (fenomeni come Occupy Wall Street e Indignados non sembrano precedenti promettenti), si tratterebbe di scenari che potrebbero, al limite giustificare il disinteresse per l’alternativa PD o M5S al governo. Non solo, tuttavia, non si dà nulla di tutto questo, ma anche in tal caso si tratterebbe di scegliere l’interlocutore migliore o, se si vuole, il nemico migliore contro cui organizzare l’opposizione sociale. Le lotte sociali non iniziano e non finiscono nella cabina elettorale ma qui si decidono gli assetti di potere, il quadro generale in cui esse dovranno articolarsi. Chi rifiuta il M5S perché non lo “rappresenta”, immagina che la politica si esaurisca nel trovare qualcuno che pensi e parli per lui all’interno delle istituzioni. E da questa posizione idealistica e passiva discende la conseguenza funesta per cui si lascia che siano le classi dominanti a decidere e organizzare il quadro in cui le lotte dovranno organizzarsi.
A riveder le stelle (rosse)
Con questo non si intendono ovviamente sottovalutare i limiti che anche il M5S ha e necessariamente mostrerà nel momento in cui si dovrà decidere realmente dell’esito di quelle lotte. Seguendo la falsariga della distinzione sopra abbozzata tra l’aspetto formale emateriale della sua spinta al cambiamento, potremmo individuare i limiti strutturali del M5S come segue.
            In primo luogo, la sua struttura precaria, il “caos organizzato” che lo caratterizza, tenuto insieme dalla partecipazione dal basso e dalla governance di Grillo e del Direttorio non sembra destinata a reggere a lungo. È probabile che mano a mano che il M5S si avvicina alla gestione del potere tenderà ad irrigidirsi in una struttura-partito tradizionale e rischierà di implodere o di scindersi: cosa faranno, ad es., i suoi leader attuali nel momento in cui esauriranno, come da programma, il mandato che li vuole eleggibili solo per due legislature? È questo il motivo per cui la tutela di Grillo sul movimento rappresenta, paradossalmente, una garanzia che il M5S non perda l’originaria spinta anarcoide e destabilizzante. Per chi vede il M5S non come rappresentanza “piena” ed esauriente delle lotte sociali ma come ariete di una possibile rottura del circolo vizioso tra partiti di governo e gruppi finanziari, l’attuale carattere di “scheggia impazzita” del M5S è molto più promettente, la sua natura intimamente contraddittoria è molto più utile in prospettiva che non la sua trasformazione nell’ennesimo partito stile IDV al 10-15%.
            In secondo luogo, gli evidenti limiti del M5S nelle sue analisi economico-politiche non potranno che accelerarne la trasformazione, seppure in una direzione che non è possibile prevedere ora. Abbiamo già detto come il M5S inquadri la sua “rivoluzione” all’interno degli assetti giuridici ed economici attuali; la decrescita e il reddito di cittadinanza non rappresentano una rottura del capitalismo ma si pongono come opzioni al suo interno. Esse esprimono sì una contraddizione ma una contraddizione interna alla prospettiva del movimento, contraddizione che non potrà che esplodere nella misura in cui il M5S dovesse trovarsi a gestire un’economia capitalistica nella gabbia di ferro delle leggi del mercato globale e delle istituzioni europee che di essa si fanno garanti. La fissazione reazionaria per il sostegno alla piccola impresa, alla produzione locale che affiancano le richieste del M5S a difesa del lavoro non potrà che acuire le contraddizioni del programma di governo. Solo a quel punto l’attacco del M5S alle involuzioni burocratiche e consociative dei sindacati potrà assumere un significato chiaro e univoco. Si dovrà infatti fare una chiara scelta di campo tra capitale e lavoro, perché inevitabilmente si avrà o il sostegno di una mobilitazione generale dei lavoratori o ci si troverà a doverne reprimere il dissenso in piazza. Che esso non possa però trasformarsi in una forza così apertamente reazionaria senza scindersi od implodere perdendo dunque parte della sua base militante ed elettorale è dovuto al fatto che almeno un terzo di tale base si riconosce nell’area della sinistra e non sarebbe evidentemente disposta ad accettare tale trasformazione. Contrariamente a quanto paventato da chi non comprende la natura del M5S, se esso scivolasse inequivocabilmente a destra perderebbe una cospicua fetta di votanti e militanti sul territorio: un’emorragia che lo condannerebbe in breve tempo all’irrilevanza.
Sia in un caso che nell’altro saranno i conflitti endemici dell’economia a dirimere le ambiguità del programma del M5S. Chi pretende di sapere già ora in che direzione e come tali ambiguità verranno sciolte non ha capito nulla della struttura composita del movimento e sottovaluta la dialettica che sottende i rapporti tra movimenti che esprimono il conflitto sociale e i corpi aggregativi più o meno estemporanei che veicolano la rappresentanza politica.



[1] Uno dei tipici tic della sinistra presa di sorpresa dal M5S è quello di definire i suoi aderenti e leader alternativamente “idioti” e “astuti”, e la “bestia” grillina al tempo stesso un’ameba incapace di ragione e un felino abile e manipolatore. Una circostanza su cui riflettere.
[2] Analisi, si spera, possibilmente più serie ad es. della nota pubblicata da Wu Ming in riferimento alle elezioni politiche del 2013 dall’accattivante, quanto fuorviante, titolo Consigli per riconoscere la destra sotto qualunque maschera e che rappresenta proprio il tipo di commento generico e auto-rassicurante dietro cui si trincera la sinistra intellettuale incapace di leggere i cambiamenti sociali e politici in corso: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=11977 Più recentemente il PCdL ha tentato un’analisi forse ancora più impietosa e che, a fronte di alcune osservazioni critiche che condividiamo e che qui riproporremo, si presenta nel complesso sfocata e fuori misura. Cfr. Il Movimento 5 Stelle: un movimento reazionario di massahttp://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=NEWS&oid=5064
[3] Repubblica, Pd, Grillo annuncia: “Prendo la tessera”. Ma il Pd dice no: “Non ha i requisiti”13 luglio 2009
[4] Grillo da Prodi: «È il nostro dipendente», Corriere della sera, 08 giugno 2006,http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2006/06_Giugno/08/grillo.html
[5] L’acqua pubblica di Nichi Vendola, intervista a N. Vendola sul blog di B. Grillo, gennaio 2010: http://www.beppegrillo.it/2010/01/lacqua_pubblica_di_nichi_vendola.html
[6] La Polizia sei tu, sul Blog di Grillo, 14 Set 2014:
[7] Subito il numero identificativo per le Forze dell’Ordine!, sul Blog di Grillo, 07.01.14:
[8] Attorno al tema della legalità della giunta De Magistris ad es. si è realizzato l’unico esperimento riuscito di aggregazione di partiti e movimenti a sinistra del PD.
[9] Programma della Lega Nord per le elezioni politiche del 2013:http://www.prov-como.leganord.org/news/63-programma-lega-nord-elezioni-politiche-2013
[10] DDL Criminalità, M5S: “Proposta pericolosa e incostituzionale. Cosí la Liguria diventa il far west”, in Liguria 24, 07 giugno 2016: http://www.liguria24.it/2016/06/07/ddl-criminalita-m5s-proposta-pericolosa-e-incostituzionale-cosi-la-liguria-diventa-il-far-west/7978/
[11]B. Grillo, Il M5S non è nè di destra nè di sinistra,11 Gennaio 2013
[12] Almeno finora, seppure la posizione intransigente del movimento su questo punto ha significato subito dopo le elezioni del 2013 un’emorragia di voti che è ancora lungi dall’essere rientrata
[13]Squinzi (Confindustria): «Ricette economiche Grillo ridurrebbero l’Italia a paese agreste e bucolico», Tempi.it, 6 marzo 2013, http://www.tempi.it/squinzi-confindustria-ricette-economiche-grillo-ridurrebbero-litalia-a-paese-agreste-e-bucolico#.V2qVSI9OLIU
[14] Beppe Grillo dopo i ballottaggi: siamo pronti a governare, Sky Tg 24, 20 giugno 2016:
[15] L’ultimo stratagemma in ordine di tempo è tentare di spacciare le dichiarazioni di Salvini o di Meloni sulle indicazioni di voto per il M5S in un possibile ballottaggio con il PD per degli apparentamenti reali o delle vicinanze politiche. Si tratta in realtà di scaltri, quanto patetici, tentativi da parte di chi intende intascarsi a costo zero una sconfitta del PD. E il subitaneo voltafaccia della Meloni, che descrive successivamente il balottaggio PD-M5S a Roma, come un ballottaggio “tra due sinistre” dovrebbe chiarire abbastanza quanta confusione regna quando si usano in modo superficiale e interessato le etichette “destra” e “sinistra”.
[16] Basta vedere il video integrale della famigerata chiacchierata davanti al Viminale con dei furbetti di Casa Pound per capire il maldestro discorso di Grillo: alla domanda interessata “quelli di Casa Pound vogliono sapere se sei antifascista” Grillo risponde che è una domanda “senza senso”, perché “è come chiedere ‘sei razzista o antirazzista? sei pro o contro la guerra?”. La verità su Grillo e casa pound al Viminalehttps://www.youtube.com/watch?v=96sYnHtcWUQ
[17] M5S: La nuova capogruppo Lombardi rivalutava il fascismo “buono”, Il Fatto quotidiano, 4/3/2013: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/03/04/m5s-ecco-chi-sono-capigruppo-alla-camera-e-al-senato/519774/
[18] Grillo: “Vengo da una famiglia socialista, sono antifascista, di cosa stiamo parlando?”, Il Fatto quotidiano, 29/01/2013. In che senso dunque Grillo potè dichiarare a cuor leggero la mostruosità che l’antifascismo “non lo riguarda” e che non avrebbe impedito a esponenti di Casa Pound di unirsi al movimento? Vediamo il senso del ragionamento e l’eventuale pericolosità di questa posizione. La logica, per quanto ingenua, è chiara: da un lato, il M5S accoglie i cittadini, tutti, in un orizzonte post-politico in cui ciò che conta non sono le appartenenze (vissute come meccanismi sistemici di “irretimento” dei cittadini e degli elettori al gioco dell’alternanza tra opzioni fasulle) bensì i contenuti e i programmi. Dunque non esiste alcuna pregiudiziale per iscriversi al movimento perché tutti sono cittadini a prescindere dalla provenienza politica; allo stesso tempo, però, e questo è il punto dirimente, non si può essere parte del movimento se non se ne sottoscrivono i metodi e gli obiettivi (art. 5 del non-statuto del M5S: “L’adesione al MoVimento non prevede formalità maggiori rispetto alla registrazione ad un normale sito Internet. Il MoVimento è aperto ai cittadini italiani maggiorenni che non facciano parte, all’atto della richiesta di adesione, di partiti politici o di associazioni aventi oggetto o finalità in contrasto con quelli sopra descritti”, c.vo mio). Ed è chiaro che un progetto di democrazia partecipata, di azione non-violenta, di difesa della Costituzione nata dalla Resistenza, di fatto esclude che i fascisti possano far parte come “fascisti”, cioè violenti e intolleranti, del movimento. In sostanza, il M5S ritiene di avere al proprio interno, nel proprio statuto e nelle proprie pratiche, l’argine contro qualsiasi possibile contaminazione col fascismo.
[22] Confronto Sky, 31 maggio 2016: https://www.youtube.com/watch?v=e4d2c21cIZU
[23] P. Becchi, In Europa per contare qualcosa, Beppegrillo.it, 1 Giugno 2014:http://www.beppegrillo.it/2014/06/in_europa_per_contare_qualcosa.html
[24] L’Ungheria alza il muro anti-immigrati, Beppe Grillo.it, 7/7/2015:
L’italia non è il campo profughi d’Europa, Beppe Grillo.it, 26/04/16:
[25] D. Fo – B. Grillo – G. Casaleggio, Il grillo canta sempre al tramonto, Chiarelettere, 2013, p. 151.
[26] Cfr. ad es. N. Maggini, Il bacino elettorale del M5s: caratteristiche socio-politiche e atteggiamenti tra continuità e mutamento: “si dichiara di ‘sinistra’ (valori da 0 a 4 in una scala 0-10) il 36,7% degli elettori del M5s contro il 19,1% della componente di ‘destra’ (valori da 6 a 10)”.
[27] E. Gualmini, Il voto di protesta lascia Grillo, La Stampa, 12/11/2014:
[28] D. Di Stefano, Ma lo avete letto il programma della Raggi sull’immigrazione?, 8 giugno 2016
[29] Il M5S Roma aderisce al Gay Pride, Beppe Grillo.it, 14 giugno 2015:http://www.beppegrillo.it/listeciviche/liste/roma/2015/06/il-m5s-aderisce-al-gay-pride.html
[30] B. Grillo, Nozze gay, Beppe Grillo.it, 15 Lug 2012:http://www.beppegrillo.it/2012/07/nozze_gay.html
[31] Consultazione online M5S:
[32] Roma Pride 2015: documento politico
[33] Consutando, ad es., lo storico delle votazioni del M5S in parlamento (http://parlamento17.openpolis.it/) è possibile constatare come i parlamentari pentastellati, senza eccezione, abbiano spesso votato in modo difforme dal proprio gruppo, esattamente come gli altri partiti.
[34] M5S, Grillo: “Nel 2013 non eravamo pronti, abbiamo imbarcato chiunque”, Il Fatto Quotidiano, 31 agosto 2015: http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/08/31/m5s-grillo-nel-2013-non-eravamo-pronti-abbiamo-imbarcato-chiunque/1996790/
[35] Lenin, Riusciranno i bolscevichi a mantenere il potere statale?,http://www.nuovopci.it/classic/lenin/riusbols.html

IL CALIFFO E IL SULTANO

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da  http://ilmanifesto.info/il-califfo-e-il-sultano/





Ancora una volta un attentato e una strage di civili in una città del mondo come Istanbul, piena di turisti in arrivo e in partenza dall’aeroporto internazionale. Stavolta però, se possibile, l’attacco terroristico non è eguale agli altri che si sono ripetuti in Turchia da otto mesi a questa parte. Ci troviamo di fronte infatti alla resa dei conti tra lo jihadismo dell’Isis impegnato nella destabilizzazione non riuscita della Siria e il Sultano protettore dell’impresa mancata, Recep Erdogan. Che ha avviato nel 2012 l’«autostrada della Jihad», sostenendo in armi e addestramento tutti i combattenti foreign fighters, in tanti arrivati anche dall’Europa nelle città turche dell’area al confine siriano, per addestrarli e istradarli al combattimento in Siria. Un comportamento da «santuario» dei jihadisti – che intanto occupavano metà Iraq e si insediavano in Libia – eguale a quello sostenuto dal Pakistan per i talebani in Afghanistan. Così smaccato e impunito che alla fine, il Sultano ha dovuto reprimere la stampa turca, in particolare quella indipendente, che ha avuto il coraggio di documentare e denunciare i legami profondi, economici, di traffici di petrolio e armi, da e con la Turchia, che soli hanno sostenuto in questi anni milizie e «Stato» del Califfo.
È in corso una resa dei conti, perché ora Erdogan, dopo avere destituito il «morbido» ed ex fedele premier Davutoglu, si è reso conto che in Siria l’operazione è fallita, e deve almeno ricotsruire le alleanze precedenti al conflitto. Con la Russia – dopo la crisi dell’abbattimento del Suchoi – e con Israele. Con Putin perché l’intervento militare russo ha cambiato le carte in tavola, con Netanyahu per tessere nuovamente una diplomazia insieme anti-araba e anti-Iran.
Ma nessuno vuole fare i conti con una verità estrema: le guerre innescate proprio quando sembrano finite e si annunciano trionfali vittorie e cogenti sconfitte, in realtà suggeriscono l’inizio di nuovi, più vasti conflitti armati.
E questo non solo perché il Califfato, vedendo il proprio arretramento sul campo in Iraq e Siria, colpisce per reazione subito, e per la prima volta, nell’area oltre i confini, sanguinosamente in Libano e Giordania come in questi giorni. E nemmeno perché, a ben vedere, queste ritirate non scalfiscono la «statualità da predicazione» propria dello Stato islamico che si vede proiettato sempre sull’area strategica-messianica che va dalla siriana Aleppo all’irachena Diyala e ora punta ad allargare la guerra a mezzo attentati fino a portarla anche dentro la Turchia. Ma soprattutto perché non sono risolti i problemi sollevati dalle guerre precedenti, quelle a responsabilità occidentale, che in Iraq, Libia e Siria, hanno distrutto tre Stati decisivi per la stabilità e gli equilibri politici e religiosi dell’intero Medio Oriente.
La guerra tra sunniti e sciiti infatti non accenna a spegnersi e vede uno stillicidio di attentati in Iraq che non fa più notizia; così come riprende il conflitto per il controllo delle fonti energetiche in Libia e Iraq. Resta cancellata la questione palestinese. E la questione kurda è esplosiva, con la lotta di liberazione dei kurdi turchi – invisa a quelli dell’Iraq che puntano alla secessione da Baghdad – che ogni giorno conta vittime e stragi di cui Erdogan porta la macchia indelebile: con i combattenti kurdi del Rojava bersagliati finora più e meglio dell’Isis, e le città kurde bombardate dai jet di Ankara con i sopravvissuti tra le macerie. Ecco le immagini che lo sguardo occidentale si ostina a non voler vedere. Mentre il parlamento turco in questi giorni – come da insegnamento per le guerre occidentali – ha approvato l’immunità per i suoi soldati impegnati nella lotta al Pkk.
Un’altra domanda è inevitabile. Ma c’entra la Brexit? La Brexit è un momento di profonda instabilità europea di cui il Califfo può certo rallegrarsi. Ma non è questo il punto. C’entra nel disastro mediorientale l’Unione europea, perché ogni Paese d’Europa insieme agli Stati uniti ha fatto parte della coalizione degli «Amici della Siria» che da quattro anni ha provato a destabilizzare la Siria, pensando di fare come aveva fatto, ma a guida francese, anche in Libia. Una responsabilità politica e militare quella europea con tanto di delega alla Turchia di Erdogan, perché ha il doppio ruolo autorevole e la doppia caratteristica di essere islamico e insieme atlantico in quanto baluardo sud della Nato. È stato quello della Turchia un lavoro sporco nell’organizzare le forze «ribelli». Tutte, senza distinzione, tanto che finanziamenti e armi occidentali sono arrivate indistintamente a combattenti qaedisti, a jihadisti e a moderati, come alla fine ha dovuto ammettere anche l’intelligence statunitense.
Ora la Turchia appare sola, nel fuoco della vendetta contro il suo voltafaccia all’Isis. Proprio mentre l’abbiamo coinvolta ad autodefinirsi «posto sicuro» per l’esternalizzazione dell’accoglienza dei migranti, quegli esseri umani che noi rifiutiamo. La desolazione e il disastro della Turchia corrispondono davvero alla desolazione e al disastro dell’Unione europea.

WEEK END MAGAZINE

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I PRIMI DI LUGLIO



Siamo ai primi di luglio e già il pensiero
è entrato in moratoria.
Drammi non se ne vedono,
se mai disfunzioni.
Che il ritmo della mente si dislenti,
questo inspiegabilmente crea serie preoccupazioni.
Meglio si affronta il tempo quando è folto,
mezza giornata basta a sbaraccarlo.
Ma ora ai primi di luglio ogni secondo sgoccia
e l’idraulico è in ferie.

(Eugenio Montale)

LA GUERRA ASIMMETRICA

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da  http://www.senzasoste.it/internazionale/dacca-strage-di-italiani-per-dichiarare-guerra-al-governo-renzi

dacca terrorista
Non ingannino le apparenze visto che tutto, nello spettacolare globale degli attentati, pare somigliarsi. La strage di italiani a Dacca non è simile e ad altre, dove sono rimasti coinvolti, e uccisi, altri nostri connazionali. Come accaduto in Egitto e in Tunisia, dove turisti italiani sono rimasti coinvolti in attentati che avevano come obiettivo di fermare i flussi turistici per penalizzare i governi di quei paesi. Stavolta gli italiani sono manifestamente parte dell'obiettivo principale. Visto che l'obiettivo della strage è stato un complesso di bar e ristoranti notoriamente frequentato da italiani, stando a fonti non sensazionalistiche, collocato molto vicino all'ambasciata del nostro paese in Bangladesh. Ma, si dirà, con il governo Renzi che ha rifiutato l'avventura coloniale in Libia, chi può lanciare un simile atto di guerra all'esecutivo, con una strage che non vedeva coinvolti un numero di italiani così alto dai tempi dell'attentato al treno del natale 1984?
Beh, la risposta è semplice. E sta in Iraq e in Siria. Dove truppe italiane sono parte integrante del conflitto, che riguarda l'Isis e altre forze dell'islamismo radicale, mentre il parlamento non ne parla e le forze politiche discutono dell'Italicum. Basta scorrere un pò di siti di intelligence per scoprire l'acqua calda: con l’arrivo a Erbil (Iraq) del reparto della Brigata Friuli per le operazioni di Personnell Recovery (secondo Analisi Difesa, 130 militari con 4 elicotteri NH-90 e 4 elicotteri da attacco A-129D Mangusta) e delle prime aliquote del contingente, sulla base del 6° reggimento bersaglieri, destinato a schierarsi presso la Diga di Mosul (a 10 km dall'Isis), il comando delle forze italiane impegnate contro lo Stato Islamico (Operazione “Inherent Resolve”, per l’Italia “Prima Parthica”) è stato elevato al rango di generale di brigata. Questo per capire un paio di cose: la prima è che l'Italia è sul fronte Isis in Iraq, la seconda che l'operazione si fa così complessa da dover richiedere un rango più alto di comando sul campo. Su siti di intelligence si trovano poi informazioni sul fatto che l'identità dei militari in azione in Iraq è oscurata, assieme a qualsiasi foto che li riguardino, per motivi di sicurezza (e di informazione sui media, aggiungiamo). Niente però impedisce all'Isis, o a chi vuol mandare messaggi a Renzi, di uccidere italiani, ad esempio, in Bangladesh. Sono le regole del conflitto asimmetrico, applicate da più di un ventennio ormai.
Non è finita qui, la stessa Analisi Difesa, fonte di destra ma preziosa per capire guerre anche dimenticate come l'Afghanistan (dove l'Italia continua ad esserci grazie anche al voto della allora sinistra superpacifista), ricorda che nel caldo fronte di guerra della Siria ci sono batterie di missili italiane con 135 artiglieri. Ufficialmente posizionati in Turchia ma con il compito di monitorare il fronte siriano. Non c'è da stupirsi, in presenza di un impegno militare italiano in Siria ed in Iraq che dei nostri connazionali vengano uccisi da islamisti radicali in Bangladesh. Una strage mirata, tipica della guerra asimmetrica: non ti colpisco sul fronte dove ti sei blindato, ma in uno delle tante retrovie dove sei sensibile, nella superficie globale. Il governo Renzi mostra così di essere in guerra, a bassa intensità e nascosta appena possibile, dove con la Brexit ha fatto vedere di essere dentro una guerra finanziaria, con il tracollo delle banche (del quale si prova a rimediare trattando con l'Ue e la Bce).
Certo, il governo Renzi fa il suo mestiere: diluire gli eventi, decontestualizzarli, nel governo dei media. Fare in modo che l'impatto, sull'opinione pubblica, della guerra sul campo e di quella finanziaria sia minimo. Il modo da attribuire i disastri in corso ad altre cause mai contestualizzate tra loro. Desta invece stupore che le opposizioni, a vario titolo, non riescano ad andare più in là delle polemiche sulla legge elettorale appena entrata in vigore. Da gennaio a giugno la capitalizzazione delle banche si è dimezzata, poi l'attacco finanziario agli istituti bancari nazionali dopo la Brexit: minimo doveva esserci il parlamento mobilitato, od occupato, dalle opposizioni che dovevano proporre misure serie ed efficaci. Per non parlare di questo atto di guerra, asimmetrica, in risposta all'impegno militare italiano certificato sul campo.
Al di là delle posizioni di rito, e di cordoglio, le opposizioni hanno risposto con l'encefalogramma piatto. Se il colmo di un governo, come quello Renzi, è comandare i media e rischiare di andare a casa lo stesso, quello delle opposizioni è farsi trascinare in una doppia guerra, finanziaria e sul campo, senza accorgersene. Ora i fatti continueranno il loro corso, senza la politica italiana, evidentemente. Restano i morti sul campo, con storie di esternalizzazione del tessile italiano in Bangladesh, e il paese in cui si è svolto l'attentato. Quasi 170 milioni di abitanti, uno dei paesi con la più alta densità di abitanti per km quadrato al mondo, e le contraddizioni acute tipiche della nazione "in via di sviluppo", quelle che piacciono tanto al neoliberismo standard. E con l'islamismo radicale, feroce, cieco che svolge anche funzioni di reazione al liberismo, altrettanto feroce.Questo il mondo in cui siamo. Ed ora via ad un altro bel dibattito sulla legge elettorale.

I COSTI DELLE MISSIONI MILITARI

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da  http://popoffquotidiano.it/2016/07/01/non-solo-maro-la-rapina-delle-missioni-militari-allestero/

1,2 miliardi per la proroga delle missioni internazionali decisa al Senato. Il decreto dovrà essere esaminato dalla Camera. Uno spezzettamenti di missioni e di contabilità che impedisce di valutare l’entità reale della spesa militare

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1,2 miliardi per la proroga delle missioni internazionali al Senato. Il decreto, scadenza il 15 luglio, dovrà ora essere esaminato dalla Camera. Modifica rispetto al passato, la missione italiana a protezione della diga di Mosul, con altri 17,5 milioni per l’invio di 400 uomini. Bloccata la cessione gratuita di pezzi di ricambio per F-16 all’Egitto, nostri fondi di magazzino, per il caso Regeni.
Ma in soldi veri vanno altrove
La partecipazione alla missioni Eunavfor Med, con la marina da guerra pensata per dare la caccia agli scafisti ridotta di fatto al nobile compito di soccorso in mare dei migranti, costa 70.305.952 milioni. La missione in Afghanistan 179.030.323 milioni. La coalizione internazionale anti-Daesh, ben 253.875.400 milioni compresa la protezione della diga di Mosul. La missione Onu in Libano costerà 155 mila milioni. Poi gli ‘spiccioli’ per missioni semi clandestine o quasi dimenticate e alcune certamente inutili.
Tutto sicuramente vincolato da accordi internazionali precedenti, e tutto regolarmente approvato dal Parlamento del tempo, ma le stranezze non mancano, anche se mascherate spesso da incomprensibili titoli in inglese: quasi «Mission Impossible» venirne a capo.
Nei soli Balcani, dedalo di sigle e competenze
Multinational specialized unit (Msu), European union rule of law mission in Kosovo (Eulex Kosovo), Security force training plan in Kosovo, Joint enterprise Balcani con 78 milioni di costo nel 2016.
Credi aver finito e invece scopri, 1.366.850 milioni di euro per la Polizia di Stato in Kosovo, nella missione Ue, la European union rule of law mission in Kosovo’. Stesso lavoro, stesso territorio, ma targa Onu, 63.720mila euro per la missione Unmik, ‘United nations mission in Kosovo’. Sempre a Pristina, 114.027mila euro pagano gli extra per due magistrati sempre Eulex Kosovo.
Soldi più veri, quasi 6 milioni per programmi di cooperazione delle Forze di polizia in Albania e dintorni, e 276 mila spiccioli per Althea dell’Ue in Bosnia-Erzegovina, forse qualche poliziotto nella ‘Integrated police unit’.
Il ‘Diversamente utile’
Tutto legittimo e tutto, in qualche modo, ‘diversamente utile’. Ma non convincente. Un sistema di elencazione nel dettaglio che pare più utile a nascondere che a far capire.
Guardi meglio a scopri che le spese per uno stesso intervento territoriale finiscono in molti conti diversi.
Ad esempio, personale militare negli Emirati Arabi Uniti, in Bahrein, in Qatar e a Tampa per le missioni in Asia e in Medio oriente. Quindi Afghanistan e dintorni, quindi Libano e altro già citato. O l’impiego di volontari della Croce Rossa italiana a supporto sanitario delle stesse missioni.
Oppure i 120 milioni di euro a sostegno delle forze di sicurezza e di polizia afghane.
Le troppe tasche degli stessi pantaloni
Sempre per la voce ‘spese accessorie’, ben 76 milioni di euro per assicurazione e trasporto e prime infrastrutture, dicono. O i 5 milioni di euro per il mantenimento del dispositivo info-operativo dell”Aise, insomma le spie che proteggono i soldati in campo. 2,1 milioni per ‘esigenze di prima necessità della popolazione locale dei territori in cui si svolgono missioni internazionali’: tradotto, mance, aiuti e aiutino per la tradizione di ‘italiani brava gente’.
Deve risultare abbastanza chiaro quindi che non c’è risposta veritiera alla domanda, quanto costa quella missione internazionale all’Italia.
L’Italia prezzemolo un po’ ovunque
Unficyp, United nations peacekeeping force in Cyprus;
Unifil Maritime task force in United nations interim force in Lebanon;
Tiph2, Temporary international presence in Hebron;
Rafah Eubam Rafah, european union border assistance mission in Rafah;
Eupol Copps, European union police mission for the palestinian territories;
Regional maritime capacity building nel Corno d’Africa e Oceano indiano occidentale;
Mali Minusma, United nations multidimensional integrated stabilization mission in Mali;
Uganda police force, eccetera eccetera.
Sicurezza in casa e nel mondo
90 milioni per il dispositivo aeronavale di sorveglianza e di sicurezza nel Mediterraneo centrale anti terrorismo.
Poi c’è la Nato con Active Fence a difesa dei confini sud-orientali.
Sempre Nato la sorveglianza dello spazio aereo dei Paesi membri dell’Europa orientale e dell’area sud-orientale dell’Alleanza.
Non vengono quantificaste le spese per altre 1500 unità dal 1° luglio fino al 31 dicembre 2016 in aggiunta ai 4.800 già impegnati per la sicurezza del Giubileo e alcune specifiche aree del territorio nazionale non indicate.
L’usato sicuro
In Afghanistan -pozzo senza fine e senza utilità italiana- mezzi e attrezzature per la gestione dell”aeroporto di Herat;
alla Somalia apparecchiature mediche e di quattro gommoni;
a Gibuti di quattro veicoli blindati leggeri Puma e munizioni;
alla Tunisia, ambulanza, motori fuoribordo, gruppi elettrogeni;
all’Iraq di vestiario invernale assieme ad armamento leggero per i peshmerga curdi;.
al Montenegro, due motovedette delle Capitanerie di porto.
Poi i regali a perdere di materiale militare fuori uso: all’Uganda 3 elicotteri dichiarati fuori servizio, o materiale ferroviario obsoleto all”Eritrea.
Bloccati come detto all’inizio i ricambi all’Egitto per i cacciabombardieri F-16, a causa della crisi con Il Cairo per il caso Regeni.

LA STRAGE DEL LAVORO

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da http://www.senzasoste.it/lavoro-capitale/report-morti-sul-lavoro-nei-primi-sei-mesi-del-2016

mortilavoro

Sono 300 i morti sui luoghi di lavoro nei primi sei mesi del 2016. Lo stesso numero di morti che avevamo sui LUOGHI DI LAVORO, il 30 giugno il 30 giugno del 2014. Lo stesso giorno del 2015 erano 302, un calo favoloso dello 0.7%. Questo mese c’è stata un’autentica carneficina di agricoltori schiacciati dal trattore. Sono stati 30, due anche nell’ultimo giorno del mese. La strage c’è stata anche tra i lavoratori dell’edilizia, ben 4 negli ultimi tre giorni. I morti sui LUOGHI DI LAVORO in queste due categorie sono stati il 56% sul totale. Teniamo presente che stiamo parlando solo dei morti sul posto di lavoro, se a questi aggiungiamo i morti sulle strade e in itinere le vittime sul lavoro in totale più che raddoppiano. Si alza sempre di più l’età di chi muore per infortuni sul lavoro a causa della legge Fornero e di chi l’ha votata. Obbligare a far svolgere lavori pericolosi per se e per gli altri, si può dire che è stata una legge indecente per non dire di peggio? Che è stato criminale non tenere per nulla conto della vita di chi lavora, e neppure della Sicurezza dei cittadini e degli automobilisti, se a lavorare in tarda età è un guidatore di un Tir? Se qualcuno vuole mi denunci pure, chi come me monitora i morti sul lavoro e registra queste tragedie da ormai 10 anni rimane allibito per la leggerezza con cui è stata fatta e approvata questa legge vergognosa e a favore dei più forti, che non si è fermata neppure davanti alla vita e alla sofferenza di lavoratori costretti a svolgere lavori pericolosi, stressanti e faticosi quasi fino a settant’anni. E questo riguarda anche tantissimi artigiani che muoiono numerosissimi in tarda età. Li vedi con le mani gonfie, con la schiena dolorante, con riflessi poco pronti. Insomma come definire questo autentico calvario a cui sono sottoposti questi lavoratori? E poi con la tecnologia che c’è ora com’è possibile che si assiste a giugno alla morte di un agricoltore al giorno, schiacciato dal trattore senza che nessuno in Parlamento alzi la voce per questa carneficina. Sono 66 dall’inizio dell’anno e 352 da quando si è insediato il Governo Renzi. Nessuno della minoranza PD e dell’opposizione ha niente da dire e questo solo perché il Ministro Martina delle Politiche Agricole appartiene a questa minoranza? E’ solo “ammoina” quella a cui assistiamo ogni giorno in Parlamento per problematiche che ai cittadini e lavoratori non gliene può fregare di meno? Povero nostro Paese come sei ridotto con questa classe dirigente. Un autentico e importante calo delle morti c’è stato nella Regione Lombardia nei primi sei mesi di quest’anno, nessuno è più lontano di me dalla Lega, contro il razzismo di noi meridionali ci ho anche scritto anche un libro vent’anni fa “Maruchein” (terrone) abitavo in Via del Carroccio. Ma non sono cieco e prevenuto su queste tragedie. Se il risultato che sta ottenendo la Lombardia non è frutto della casualità, come è capitato per altre importanti regioni, ma di un lavoro fatto sul territorio, tanto di capello a chi questa regione la dirige nelle varie articolazioni. Occorre capire che le morti sul lavoro sono da “conteggiare” non con assurdità come “l’indice occupazionale” e altre amenità del genere, ma sul numero complessivo della popolazione, visto che a morire sono tantissimi lavoratori non assicurati all’INAIL, o che lavorano in nero. La Lombardia ha il doppio degli abitanti delle regioni più popolose del nostro Paese, e rispetto alle altre ha da quando monitoro questo fenomeno un andamento migliore.
***
Carlo Soricelli curatore dell’Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro
SONO 300 I MORTI PER INFORTUNI
sui LUOGHI DI LAVORO dall’inizio dell’anno.
Oltre 630 se si aggiungono i morti sulle strade e in itinere.
Morti per infortuni sui luoghi di lavoro nel 2016 per regione e provincia in ordine decrescente. I morti sulle autostrade e all’estero non sono conteggiate nelle province. Quando guardate l’andamento delle regioni e delle province pensate che ci sono almeno altrettanti morti per infortuni sulle strade e in itinere.
Campania 33 Napoli (13 di questi 3 in mare), Avellino (4), Benevento (1), Caserta (6), Salerno (9). Emilia-Romagna 31 Bologna (5). Forlì-Cesena (6), Ferrara (3), Modena (4), Parma (2), Piacenza (2), Ravenna (2), Reggio Emilia (6), Rimini (1). Veneto 26 Venezia (2), Belluno (3), Padova‎ (6), Rovigo (1), Treviso (3), Verona (3), Vicenza (8). Toscana 24 Firenze (1), Arezzo (4), Grosseto (1), Livorno (4), Lucca (3), Massa Carrara (6), Pisa‎ (2), Pistoia (1) , Siena (2) Prato (1).  Lazio 22 Roma (7), Viterbo (5) Frosinone (3) Latina (6) Rieti (1). Sicilia 20 Palermo (1), Agrigento (3), Caltanissetta (3), Catania (5), Enna (1), Messina (3), Ragusa (1), Siracusa (), Trapani‎ (1). Piemonte 19 Torino (3), Alessandria (1), Asti (5), Biella (), Cuneo (9), Novara (), Verbano-Cusio-Ossola () Vercelli (1).  Lombardia 19 Milano (1), Bergamo (3), Brescia (9), Como (2), Cremona (1), Lecco (1), Lodi (), Mantova (), Monza Brianza (), Pavia (2), Sondrio (), Varese. Puglia 14 Bari (), BAT (2), Brindisi (1), Foggia (2), Lecce (2), Taranto (7)Trentino-Alto Adige 10 Trento (6), Bolzano (4). Marche 10 Ancona (2), Macerata (4), Fermo (), Pesaro-Urbino 1(), Ascoli Piceno (2). Abruzzo 10 L’Aquila (1), Chieti (5), Pescara (2) Teramo (2). Sardegna 9 Cagliari (4), Carbonia-Iglesias (), Medio Campisano (), Nuoro (1), Ogliastra (), Olbia-Tempio (), Oristano (1), Sassari (3).  Calabria 8Catanzaro (3), Cosenza (2), Crotone (1), Reggio Calabria (1) , Vibo Valentia (1). Umbria 4 Perugia (1) Terni (3). Liguria 4 Genova (2), Imperia (1), La Spezia (), Savona (1). Molise 4 Campobasso (4), Isernia (). Friuli-Venezia Giulia 3 Trieste, Gorizia (1), Pordenone (1), Udine (1).  Basilicata1 Potenza (1) Matera () Valle D’Aosta () I lavoratori morti sulle autostrade, all’estero e in mare non sono segnalati a carico delle province-
Consigliamo a tutti quelli che si occupano di queste tragedie di separare chi muore per infortuni sui luoghi di lavoro, da chi muore sulle strade e in itinere con un mezzo di trasporto. I lavoratori che muoiono sulle strade e in itinere sono a tutti gli effetti morti per infortunio sul lavoro, ma richiedono interventi completamente diversi dai lavoratori morti sui luoghi di lavoro. E su questo aspetto che si fa una gran confusione. Ci sono categorie come i metalmeccanici che sui luoghi di lavoro hanno pochissime vittime per infortuni, poi, nelle statistiche ufficiali, non separando chiaramente le morti causate dall’itinere, dalle morti sui luoghi di lavoro, risultano morire in tantissimi in questa categoria che è numerosissima e ha una forte mobilità per recarsi o tornare dai luoghi di lavoro. Anche quest’anno una strage di agricoltori schiacciati dal trattore, sono già 66 dall’inizio dell’anno, Tutti gli anni sui LUOGHI DI LAVORO il 20% di tutte le morti per infortuni sono provocate da questo mezzo. 132 sono i morti schiacciati dal trattore nel 2015 e 152 nel 2014. Contiamo molto della sensibilità dei media e dei cittadini che a centinaia ogni giorno visitano il sito. In questi nove anni di monitoraggio le percentuali delle morti nelle diverse categorie sono sempre le stesse: l’agricoltura sempre la categoria con più vittime, seguono l’edilizia, i servizi, i metalmeccanici e l’autotrasporto.
Morti sul lavoro nel 2015
Le morti sulle autostrade e all’estero non sono segnalate nelle province
SONO STATI 678 I MORTI PER INFORTUNI SUI LUOGHI DI LAVORO nel 2015
CONTRO I 661 del 2014 +2,6%. ERANO 637 nel 2008 +6,1%
L’INAIL nel 2014 ha riconosciuto complessivamente 662 morti sul lavoro, di questi il 52% sono decessi in itinere e sulle strade ma le denunce per infortuni mortali sono state 1107. Crediamo che anche per il 2015 ci siano più o meno le stesse percentuali. Nel 2015 tra gli assicurati INAIL c’è stata un’inversione di tendenza, per la prima volta dopo tantissimi anni questo Istituto vede aumentare le denunce per infortuni mortali. Ma le denunce non comportano necessariamente un riconoscimento dell’infortunio mortale. Sta a noi che svolgiamo un lavoro volontario, senza interesse di nessun tipo, far conoscere anche questo aspetto ai cittadini italiani.

SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE

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da  http://www.senzasoste.it/politica/venti-domande-e-venti-risposte-sulla-riforma-costituzionale



Cosa prevede la riforma della Costituzione targata Renzi-Boschi? Domande e risposte utili per comprendere contenuto e significato delle modifiche già approvate dal Parlamento e che a ottobre saranno sottoposte al voto referendario.
Alessandro Pace, Andrea Aurelio Di Todaro - tratto da http://www.dinamopress.it
1. Il contenuto della riforma costituzionale Boschi è coerente ed omogeneo?
No. La riforma Boschi ha un contenuto disomogeneo, in quanto modifica in più parti, diverse tra loro, la Costituzione vigente. Non può pertanto essere considerata una “legge di revisione” come previsto dall’art. 138 della Costituzione, secondo il quale il quesito sottoposto all’elettore dovrebbe essere unico ed omogeneo. Avendo la riforma Boschi un contenuto disomogeneo, essa coercirà la libertà di voto degli elettori che hanno a loro disposizione solo un Sì e solo un No.
2. Quali sono i fattori di criticità della riforma derivanti dal suo iter parlamentare?
La riforma Boschi è stata approvata dalla Camera e dal Senato nonostante la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2014, avesse dichiarato incostituzionale la legge elettorale c.d. Porcellum, sulla cui base la XVII legislatura era stata eletta. Per di più, la riforma consegue da un’iniziativa governativa e non da un’iniziativa parlamentare – come avrebbe dovuto essere – con il rischio, puntualmente avveratosi, di condizionarne l’approvazione alle scelte di indirizzo politico del Governo.
3. Ci sono altri profili di contrasto tra la riforma e la sentenza n. 1 del 2014 della Corte?
La riforma Boschi, nell’attribuire ai consigli regionali, e non ai cittadini, il diritto di eleggere il Senato, viola la sovranità popolare, di cui «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto (…) costituisce il principale strumento di manifestazione», come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014.
4. Perché l’elezione del Senato dovrebbe essere diretta?
Come scrisse proprio nel 1948, Carlo Esposito, uno dei massimi costituzionalisti italiani dello scorso secolo: «Il contenuto della democrazia non è che il popolo costituisca la fonte storica o ideale del potere, ma che abbia il potere; non già che esso abbia solo il potere costituente, ma che a lui spettino i poteri costituiti; e che non abbia la nuda sovranità (che praticamente non è niente) ma l’esercizio della sovranità (che praticamente è tutto)».
5. Ma dai sostenitori della Riforma si sostiene che si tratterebbe di una elezione “indiretta”. Non hanno ragione?
No. I sostenitori di questa tesi sbagliano platealmente. Leopoldo Elia, autorevolissimo costituzionalista spesso ricordato dallo stesso ex Presidente Napolitano, precisò, in maniera definitiva, che si ha elezione indiretta “in senso proprio” solo quando siano previsti a tal fine dei “grandi elettori”, come appunto accade in Francia dove il popolo elegge 150 mila “grandi elettori” che a loro volta eleggeranno 349 senatori. Affermare che il popolo italiano eleggerebbe indirettamente il Senato perché i consigli regionali, eletti dal popolo, eleggerebbero a loro volta i senatori, è quindi una vera baggianata. È come dire che il popolo italiano elegge il Presidente della Repubblica perché il Presidente viene eletto da Camera e Senato, che sono eletti dal popolo. Si tratta di una analogia superficiale e, come tale, giuridicamente improponibile.
6. La riforma abolisce il Senato?
La riforma non abolisce affatto il Senato ed anzi ne ribadisce la funzione legislativa e quella di revisione costituzionale, ancorché, non essendo stato eletto direttamente dal popolo, il Senato sarebbe privo della legittimazione democratica.
7. Quali perplessità suscita la riforma, a proposito del ruolo dei membri del “nuovo” Senato?
La riforma prevede che i senatori esercitino contemporaneamente anche le funzioni di consigliere regionale o di sindaco, senza considerare che l’importanza e l’onerosità delle funzioni senatoriali (funzione legislativa ordinaria e costituzionale; raccordo tra lo Stato, le Regioni e i comuni, con l’Unione Europea; valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni; verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione Europea sui territori ecc. ecc.) ne renderebbero aprioristicamente impossibile il puntuale espletamento.
8. Perché criticare la riforma se, come sostenuto da alcuni suoi fautori, essa non fa altro che seguire l’esempio del Senato statunitense?
Non lo ripropone affatto. È vero che negli Stati Uniti il Senato è composto da 100 senatori, esattamente come nel “futuro” Senato della Repubblica. Tuttavia, negli Stati Uniti ciascun senatore lavora a tempo pieno e gode per giunta della collaborazione di uno staff di circa 34 persone, tra consulenti e impiegati. Per contro, i senatori italiani, dovendo svolgere anche le funzioni di consigliere regionale o sindaco, non avrebbero a disposizione non solo uno staff di quella importanza, il che è giustificabile, ma nemmeno il tempo necessario per assolvere a tutte le funzioni connesse alle loro cariche.
9. È vero che i futuri senatori non percepiranno alcun emolumento e non saranno più dei “privilegiati” rispetto al resto dei cittadini?
I futuri 100 senatori, in quanto sindaci o consiglieri regionali, non saranno compensati per le loro funzioni di senatore, ma avranno soltanto un “rimborso-spese”. Godranno dell’insindacabilità giudiziaria per i fatti posti in essere nell’esercizio delle proprie funzioni - il che è condivisibile - e, ancorché senatori solo part time, godrebbero anche dell’immunità “personale” dagli arresti, dalle perquisizioni personali e domiciliari, e dai sequestri della corrispondenza, col rischio - connesso all’abnorme numero dei consiglieri regionali attualmente indagati o addirittura rinviati a giudizio - di trasformare il Senato in un refugium peccatorum.
10. La riforma attribuisce poteri legislativi all’Esecutivo, cioè al Governo?
La riforma amplia il potere d’iniziativa legislativa del Governo mediante la previsione di disegni di legge «attuativi del programma di governo», da approvare, da parte della Camera dei deputati, entro 70 giorni dalla deliberazione d’urgenza dell’assemblea. Il che rischia di restringere ulteriormente gli spazi per l’iniziativa legislativa parlamentare - attualmente ridotti al solo 20 per cento - grazie a possibili capziose interpretazioni estensive sia del concetto di “programma di governo”, sia del concetto di “attuazione del programma”.
11. È un merito o un demerito che la riforma preveda la riduzione del numero dei senatori da 315 a 100?
Nelle attuali condizioni, e tenuto conto del contenuto complessivo della riforma, è un demerito. La riforma, infatti, sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato (100 senatori) rispetto alla composizione della Camera dei deputati (630 deputati) e rende praticamente irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune.
12. Ma la riforma snellisce il procedimento legislativo. O no?
Il disegno di legge Boschi si era posto l’obiettivo di semplificare il procedimento di formazione delle leggi, ma tale dichiarazione di intenti non è stata seguita dai fatti. La riforma prevede almeno otto distinti iter di approvazione legislativa, col rischio di non infrequenti conflitti procedurali, che potrebbero addirittura configurare vizi di legittimità costituzionale di natura procedimentale, di competenza della Corte costituzionale.
13. Qual è la posizione della riforma rispetto alle opposizioni parlamentari?
La riforma Boschi, pur senza abolire il Senato, ne ha svuotato il ruolo di contro-potere politico esterno alla Camera dei deputati, senza compensare tale svuotamento con il rafforzamento del sindacato ispettivo tra cui l’introduzione del potere d’inchiesta da parte di un quarto dei componenti delle assemblee, come previsto in Germania sin dal 1919, e con successo.
Il “nuovo” art. 64 si limita infatti a rinviare ai regolamenti delle due Camere il compito di garantire i «diritti delle minoranze parlamentari» e al regolamento della sola Camera dei deputati di disciplinare «lo statuto delle opposizioni». Poiché però i regolamenti parlamentari devono comunque essere approvati dalla maggioranza dei componenti dell’assemblea, è di tutta evidenza che, grazie all’Italicum, sarà il partito di maggioranza a condizionare il destino dei diritti delle minoranze e delle opposizioni.
14. Quale impatto ha la riforma sul rapporto Stato-Regioni?
Micidiale. La riforma Boschi mentre attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato oltre 50 materie affastellate sotto 21 numeri, dalla a) alla z), attribuisce alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni soltanto 15 materie di contenuto prevalentemente organizzativo.
La riforma Boschi attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato le politiche sociali, la tutela della salute, il governo del territorio, l’ambiente e il turismo che costituiscono il cuore dell’autonomia legislativa regionale.
A conferma della svolta centralistica, la riforma Boschi introduce una “clausola di supremazia statale” - soprannominata “clausola-vampiro”- grazie alla quale la Camera dei deputati, con una legge, e il Governo, con un decreto legge, potrebbero, senza alcun limite, intervenire in qualsiasi materia di competenza legislativa esclusiva delle Regioni «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale».
15. E nelle materie di competenza legislativa dello Stato?
La riforma Boschi attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato il compito di dettare le “disposizioni generali e comuni” in tutta una serie di materie importanti quali la tutela della salute, le politiche sociali, l’istruzione anche universitaria, l’ordinamento scolastico, le attività culturali e sul turismo e molte altre, senza però prevedere, in favore delle Regioni, la necessaria potestà legislativa di attuazione.
Dimentica altresì di attribuire (a chi? allo Stato o alle Regioni?) la competenza legislativa esclusiva in materia importanti quali la circolazione stradale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura, l’artigianato, l’attività mineraria, le cave, la caccia e la pesca. Con la conseguenza, in entrambi i casi, di non risolvere il problema dell’eccessivo contenzioso costituzionale lamentato dallo stesso Governo.
16. Quale sarebbe la posizione costituzionale del Premier grazie alla riforma Boschi e all’Italicum?
Il nostro ordinamento si orienterebbe di fatto verso un “premierato assoluto”, grazie all’Italicum e alla riforma Boschi: l’Italicum trasformerebbe il voto al partito del leader in un’investitura quasi-diretta del Premier e la legge Boschi eliminerebbe il Senato come potenziale contro-potere esterno della Camera senza prevedere efficaci contro-poteri interni. Col duplice rischio, connesso all’”uomo solo al comando”, di produrre eccessivi squilibri di rappresentanza e di condizionare addirittura i poteri del Presidente della Repubblica.
17. Come cambia la composizione della Corte costituzionale con la riforma?
La riforma attribuisce al Senato, composto da 100 senatori, il potere di eleggere due giudici costituzionali ed attribuisce alla Camera dei deputati, composta invece da 630 deputati, il potere di eleggerne tre. Il che, in primo luogo, urta contro il principio di proporzionalità e, in secondo luogo, rischia di introdurre nella Corte costituzionale una pericolosa logica corporativa, che potrebbe fortemente irrigidire i rapporti interni tra i suoi membri.
18. E sui senatori a vita, la riforma cambia qualcosa?
La riforma prevede la nomina a senatore, da parte del Presidente della Repubblica, di cinque illustri personalità che abbiano «illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Il che è doppiamente stravagante. In primo luogo, essi sono nominati dal Presidente della Repubblica per sette anni, e cioè per un tempo perfettamente coincidente con la durata in carica dello stesso Capo dello Stato. Sicché non è affatto capzioso immaginare che i senatori a vita possano subirne l’influenza. In secondo luogo, è comunque paradossale che cinque illustri personalità di caratura internazionale, che abbiano le caratteristiche di eccellenza appena ricordate, vadano ad esercitare il loro alto magistero culturale in un organo - il Senato - che, formalmente, la riforma dice di volere dedicare interamente alla sola rappresentanza delle istituzioni territoriali (Regioni, Comuni e Città metropolitane).
19. Ma il Senato rappresenterebbe davvero le istituzioni territoriali?
No. Il Senato continuerebbe ad esercitare le funzioni di organo dello Stato, non solo nell’esercizio della potestà legislativa ordinaria e di quella di revisione costituzionale, ma anche nelle funzioni di raccordo tra Stato, enti costitutivi della Repubblica e Unione Europea, nella verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione Europea, nel concorso all’espressione di pareri sulle nomine di competenza del Governo e in tutte le altre funzioni previste dal quarto comma del “nuovo” art. 55.
D’altra parte, non essendo configurabile una rappresentanza territoriale delle Regioni perché le Regioni avrebbero un numero diverso di seggi a seconda della popolazione e perché anche ai senatori è garantito il divieto del mandato imperativo, la natura della rappresentanza del Senato continuerebbe ad essere quella squisitamente politica-partitica, praticamente duplicando le contrapposizioni politiche della Camera dei deputati.
20. Un’ultima domanda. Il Presidente del Consiglio cita spesso il pensiero di Giorgio La Pira, autorevole componente dell’Assemblea costituente, che in tale veste affermò che la Costituzione fosse la “casa comune” degli italiani. Ritiene che la riforma Boschi persegua lo stesso obiettivo di fare della Costituzione la “casa comune” degli italiani?
Neanche per sogno. Il fatto che il risultato della sesta e ultima votazione della legge Boschi abbia registrato, su 630 deputati, 361 voti favorevoli, 7 contrari e 2 astenuti, conferma la natura “divisiva” e non “inclusiva” (la casa comune!) della riforma Boschi, che costituisce la conseguenza di quanto osservato al quesito n. 2, e cioè l’aver voluto a tutti i costi, il Presidente del Consiglio, che le modifiche costituzionali rispondessero alle scelte di indirizzo politico del Governo.

PER ORA SALTA IL TTIP

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da http://www.senzasoste.it/economia/salta-il-ttip-ma-non-e-il-caso-di-tirare-il-fiato

2014-06-23_eci_ttip

Il Ttip salta, per ora. Ed è la prima volta che i ministri del commercio di alcuni paesi europei lo dicono apertamente. Il cumulo dei punti di vista contrastanti è tale da non potere essere sciolto in tempi brevi, comunque non entro la scadenza della presidenza Obama e in piena incertezza su quali saranno le priorità del prossimo inquilino della Casa Bianca. Nè la Clinton, né tantomeno Trump, hanno detto una sola parola chiara sull’argomento.
Naturalmente, vista l’assoluta segretezza con cui sono state fin qui condotte le trattative, nulla vien detto su quali siano i punti di frizione, ma è comunque noto da tempo che su produzione alimentare (gli Stati Uniti chiedono di aprire il mercato alle loro carni agli ormoni e ai prodotti ogm, mentre si rifiutano di assicurare una qualsaisi tutela dei prodotti Doc )e soprattutto sulle corti arbitrali che dovrebbero decidere in caso di contrasto legale tra una multinazionale e un paese sono stati registrati contrasti fin qui irrisolvibili.
Da lunedì prossimo dovrebbe in ogni caso partire il 14esimo round del negoziato, anche se lo spazio per fare passi avanti appare chiuso. Il vice ministro francese per il Commercio estero, Matthias Fekl, è stato particolarmente chiaro: “Stiamo aspettando così tante serie offerte da parte degli Usa che non esiste assolutamente alcuna possibilità che si arrivi a un accordo entro la fine dell’amministrazione Obama. Penso che ormai lo sappiano tutti, anche quelli che sostengono il contrario.”.
E la conferma arriva, con ambiguità tutta italiana, anche dal ministro italiano dello sviluppo economico, Carlo Calenda: “Il Ttip secondo me salta perché siamo arrivati troppo lunghi sulla negoziazione”. Solo una questione di lentezza dei lavori, insomma, anche se è proprio lui a dare il contesto che determina questo fallimento: “ rischia di saltare anche l’accordo con il Canada perché c’è una mancanza di fiducia verso tutto quello che è internazionalizzazione e una mancanza di delega a una governance europea certa”
Nessuna fiducia reciproca, dunque, tra i due lati dell’Atlantico, specie per quanto riguarda la possibilità di arrivare a definire regole comuni che non comportino danni serissimi per uno dei due contraenti (e l’Europa è certamente il lato debole); e assoluta incertezza – specie ora che Londra sembra aver smarrito il ruolo storico di cerniera transatlantica, votando la Brexit – su come vada a finire nell’Unione Europea. “Gli americani stanno perdendo uno dei paesi più favorevoli all’accordo”, spiega Chad Bown, ex economista della Banca mondiale. E le priorità europee sono rapidamente cambiate: prima di negoziare con gli americani, serve trattate con gli inglese affinché l’uscita dalla Ue sia il meno disordinata possibile”. Ed è impossibile condurre contemporaneamente due negoziati sulle stesse materie, con gli stessi paesi, ma improntati a logiche opposte: con il Nord America di stava trattando per unire i rispettivi mercati, con Londra bisognerà discutere su come separarli con il minor danno possibile.
“Non è chiara la governance” significa dunque che non si sa bene chi comanda e con quale approccio. L’accumularsi di tensioni antiunitarie (euroscetticismo e populismo sono solo parole) mette in discussione ulteriori passi avanti nell’integrazione continentale. E il riemergere prepotente dell’”approccio intergovernativo”, addirittura nella logica del “chi ci sta, ci sta, gli altri verranno”, consiglierebbe chiunque di rinviare qualsiasi contratto duraturo con “i 27”. Figuriamoci un trattato che dovrebbe definire un mercato comune alla viglia di un anno elettorale – il 2017 – che potrebbe disegnare governi del tutto diversi da quelli che hanno fin qui tessuto la tela del negoziato.
Ed è il paese con il governo meno popolare d’Europa, la Francia, a mettere la parola fine sul Ttip: “Non c’è nulla di peggio che iniziare una trattativa dicendo di voler concludere a qualunque costo. Noi – ha detto ancora il viceministro Fekl – avremmo preferito una buona intesa per l’occupazione in Francia e per i lavoratori”. Ancora più esplicito era stato il premier Manuel Valls: “Non ci può essere un accordo sul trattato transatlantico, non siamo sulla buona strada”. L’accordo “sarebbe imporre un punto di vista che non solo potrebbe essere terreno fertile per il populismo, ma anche un male per la nostra economia”.
La retorica delle conferenze stampa falsa molto la realtà: dei lavoratori, al governo francese, non importa nulla, vista la ribellione totale alla loi travail che, come il jobs act, cancella sette decenni di conquiste sindacali incardinate nel “patto tra produttori” che definisce la costituziona materiale di Parigi. Il problema intollerabile è che la materia del Ttip mette evidentemente a rischio l’ossatura della struttura industriale francese, oltre che la qualità dello champagne, dei vini e dei formaggi d’Oltralpe. In questo senso, dunque, diventa vera anche la preoccupazione per il possibile l’esplodere della disoccupazione una volta andati a regime gli accordi Ttip.
Dal punto di vista dei lavoratori di entrambe le sponde delll’Atlantico è un’ottima notizia, perché quanto meno rinvia l’ennesimo drastico peggioramento delle condizioni di vita e delle normative contrattuali. Ma ci appare chiaro che il mancato accordo, nel medio periodo, comporterà un aumento della “competizione” economica tra Europa e Nord America, con ovvie conseguenze sui rispettivi mercati del lavoro.
Diciamo dunque che l’arresto del negoziato Ttip può aprire una “finestra di opportunità”. Che soltanto un ritrovato protagonismo conflittuale dei movimenti dei lavoratori – al momento assolutamente divisi ed estranei tra loro, chiusi come sono nei recinti locali disegnati dai capitali multinazionali (gli unici che possano praticare con profitto un certo tipo di “internazionalismo”) – trasformare in un processo di superamento della crisi sistemica del capitalismo.
6 luglio 2016

WEEK END MAGAZINE

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ER TERNO



Ecco er fatto. Lo prese drent'al letto,
dove stava in campagna in un casino;
je sigillò la bocca còr cuscino,
e j'ammollò 'na cortellata in petto.

Dunque, ferita all'undici; ce metto
uno, er giorno; quarantatré, assassino:
vado giù da Venanzio er botteghino
ar Popolo e ce butto un pavoletto.

A l'estrazione, sabeto passato,
ce viè l'ambo; ma invece de ferita
m'esce settantadue: morto ammazzato.

Ma guarda tante vorte er Pedreterno
come dà la fortuna ne la vita!
Si l'ammazzava ce pijavo er terno.

(Cesare Pascarella)

                       

LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO MA NIENTE REINTEGRO

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da http://www.senzasoste.it/livorno/lavoratrice-licenziata-dalla-coop-provvedimento-illegittimo-ma-niente-reintegro

 
La Giudice del Lavoro di Livorno si è espressa. Il licenziamento di Sara Catola (la delegata sindacale Usb dell'Ipercoop di Livorno licenziata lo scorso novembre) era illegittimo, tuttavia Sara non riavrà il suo posto di lavoro ma solo una indennità pari a 20 mensilità del suo stipendio. 
Una sentenza che (se sarà confermata anche nei successivi gradi di giudizio) suona come una amarissima beffa, perché ci dice che Sara non meritava il licenziamento ma che nonostante questo, purtroppo, non avrà il reintegro nel suo posto di lavoro.
Dai fatti "non deriva l'esistenza di una giusta causa di licenziamento" (punto 17 della pronuncia della giudice). E dopo: "ritiene il Tribunale che il comportamento in parola non abbia assunto connotati di gravità tali da costituire una giusta causa di licenziamento".
Al punto 18 della sentenza la giudice precisa ulteriormente. "Assumono al riguardo rilevanza due fattori: da un lato, la particolare situazione della famiglia della Catola, atteso che lo svolgimento da parte della ricorrente di attività lavorativa presso il bar ristorante gestito dal marito, consentiva allo stesso tempo di aumentare le entrate economiche complessive della famiglia e di consentire ai tre bimbi della coppia di trascorrere del tempo al mare, insieme ad entrambi i genitori separati; di talché la scelta della Catola, pur non risolvendosi in un’accudienza diretta del figlio minore, risulta volta alla tutela della famiglia e del benessere dei figli. Dall’altro, assume rilevanza la circostanza che la Catola non ha svolto attività in concorrenza con il proprio datore di lavoro, ma un’attività diversa."
E poi al punto 19: "Pertanto, ritiene il Tribunale che nella fattispecie in esame la sanzione del licenziamento non fosse proporzionata alla gravità della violazione disciplinare commessa dalla lavoratrice e che il recesso datoriale sia da ritenersi illegittimo."
Parole chiare: il licenziamento era sproporzionato, ingiusto, illegittimo. Ma l'assurdità della legge italiana arriva con il punto 20 e con quelli successivi, in cui leggiamo che "affermata così l’illegittimità del licenziamento intimato alla ricorrente, ritiene il Tribunale che la domanda di reintegra non possa essere accolta". Un ossimoro: il tuo licenziamento era illegittimo, ma il posto di lavoro non lo riavrai. Il motivo? Sta nella legge 92 del 2012 (la legge Fornero).
"Ritenuto che - scrive la giudice - l’art. 18 comma quarto l. 300/70 così come novellato dalla l. 92/2012 debba trovare applicazione nelle sole ipotesi in cui il fatto contestato non sussiste ovvero sia espressamente punito dal CCNL con una sanzione disciplinare conservativa, atteso che una diversa interpretazione si risolverebbe in una tacita abrogazione dell’art. 18 comma quinto l. 300/770, in contrasto con la ratio legis della novella rappresentata dalla l. 92/2012, non sussistono gli estremi per fare applicazione della tutela reintegratoria domandata dalla parte ricorrente in via principale."

In altre parole: il licenziamento era sproporzionato e illegittimo ma il fatto sussiste, quindi prendi solo un risarcimento economico e non il reintegro
. Praticamente se il fatto fosse successo qualche anno fa, oggi Sara avrebbe ancora il suo posto di lavoro. La chiusura della sentenza è ancora più chiara: "accertata l’illegittimità del licenziamento intimato alla ricorrente con lettera del 5 novembre 2015, dichiara risolto il rapporto di lavoro di Catola Sara dalla data del licenziamento e condanna la società Unicoop Tirreno soc. coop. in persona del legale rappresentante p.t. al pagamento in favore di Catola Sara della indennità risarcitoria di cui all’art. 18 comma quinto l. 300/70 nella misura di venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto". Rileggiamo: accertata l'illegittimità del licenziamento, dichiara risolto il rapporto di lavoro. La beffa sta tutta qua.
Questo era solo il primo tempo. La battaglia di Sara per riavere ciò che le spetta, continua. E nel frattempo sarebbe interessante sapere cosa pensa la Coop di questa definizione ("illegittimo") data dalla giudice al licenziamento di Sara. Reintegrarla sarebbe ciò che una azienda onesta dovrebbe a questo punto fare per rimediare ad una sua illegittima decisione.
Unione Sindacale di Base 
8 luglio 2016

GLI APOCALITTICI DEL SI

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da  http://ilmanifesto.info/gli-apocalittici-del-si/


Referendum costituzionale. Se vince il No nessun diluvio: il Quirinale cercherà un nuovo governo. E le camere una nuova legge elettorale



Un tempo c’erano i gufi, gli oppositori prevenuti di ogni cambiamento. Costoro – secondo quanto veniva propagandato dai costruttori del nuovo – utilizzavano toni apocalittici, inaccettabili. Perché strillare se tutto veniva svolto entro il solido recinto della nostra democrazia? Ora il vento è cambiato e l’apocalisse appare nei discorsi dei promotori della riforma. Le conseguenze di una mancata approvazione della riforma sarebbero drammatiche. Non solo cade il governo, ma non se ne potrebbe fare nessun altro; non solo l’attuale – peraltro risicata e ondivaga – maggioranza parlamentare verrebbe sconfessata, ma l’intero parlamento verrebbe delegittimato; non solo si esprimerebbe la contrarietà a questa riforma della Costituzione, ma ci si precluderebbe la possibilità di ogni cambiamento futuro.
Forse è il caso di tornare a ragionare con misurata serenità. Qualora dovesse vincere il No al referendum non avverrebbe nulla di drammatico.
Se il governo dovesse ritenere concluso il suo mandato e rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente Mattarella, questi – come sempre avviene – svolgerà le sue consultazioni per individuare un successore che possa ottenere una nuova maggioranza parlamentare. Un governo pienamente politico ovvero un governo con profilo più segnatamente istituzionale. Sarà possibile perseguire la prima ipotesi qualora una nuova maggioranza parlamentare possa formarsi sulla base di un programma di governo innovativo.
In fondo è già avvenuto in questa legislatura con il governo Renzi che ha sostituito quello Letta, nella precedente con la successione di Monti a Berlusconi. Nessuna ragione d’ordine costituzionale può ostacolare una simile soluzione anche in questo caso. Vero è che potrebbero non esservi le condizioni “politiche”: a questo si attaccano gli apocalittici di oggi. Come in ogni scenario drammatizzato si vuol far credere che non vi siano alternative, ma è questa una previsione priva di fondamento. Chi può onestamente dire quali saranno le concrete condizioni politiche che si verranno a creare dopo il referendum? Al più si può prevedere un sobbalzo, l’apertura di una dinamica che porterà a mutamenti radicali, poco prevedibili. Altro che stasi.
È, allora, possibile ma non scontato che dopo il referendum non si riesca a trovare una maggioranza politica alternativa all’attuale. In tal caso, il capo dello stato, cui spetta salvaguardare l’assetto costituzionale complessivo dei poteri, potrà (dovrà?) verificare le condizioni perché si possa varare un “governo istituzionale”. Con molte possibilità di successo. Sarebbe in effetti difficile per delle forze politiche responsabili negare il sostegno ad un governo che si proponesse di modificare la legge elettorale divenuta – a seguito del referendum – irrazionale e che predisponesse la legge finanziaria in scadenza. Un governo di scopo diretto dalla seconda carica dello Stato o dal ministro dell’Economia, per poi giungere alle elezioni in una situazione di normale dialettica democratica.
Si scongiurerebbe così anche la seconda drammatizzazione. Che il nostro parlamento stia vivendo una fase di crisi della propria legittimazione non può essere negato. Ciò che appare sfrontato è l’individuare la causa nel rifiuto del corpo elettorale di una modifica della costituzione che ha tra i suoi caratteri quello di ridurre il ruolo autonomo del parlamento. Non voglio neppure qui ripetere le ragioni che fanno ritenere esattamente l’opposto: la delegittimazione del parlamento ha origine proprio nell’utilizzazione forzata delle regole parlamentari e nell’incapacità di rappresentanza politica autonoma dell’organo che le vicende della riforma costituzionale hanno messo in drammatico rilievo. Il fallimento della riforma costituzionale può ben essere letta come un tentativo di ridare dignità ad un parlamento offeso.
Certo, una nuova legge elettorale dopo il referendum fallito s’imporrebbe. Ed è proprio da lì che può iniziare una risalita, una ri-legittimazione della rappresentanza politica, altro che drammatizzare la crisi.
Che dire poi della “minaccia” di non poter più cambiare. Dopo questa riforma si chiuderebbe per sempre ogni possibilità di trasformazione. Condannati ad un futuro di declino e impotenza. Una serie veramente cospicua di argomenti valgono a confutare questa torva prospettiva. C’è da chiedersi anzitutto se il rischio di non riuscire più a cambiare possa comunque giustificare un peggioramento. È la logica del cambiamento per il cambiamento che non può essere condivisa.
Perché tanti fautori dell’attuale riforma si opposero allo stravolgimento della costituzione nel 2005? Solo perché a proporla erano le forze del centrodestra? Ovvero perché era una riforma anch’essa fortemente innovativa, e però di segno regressivo? Se – come dev’essere – è il senso del cambiamento che deve essere valutato e non certo la mera capacità di cambiare (in peggio) è chiaro che l’argomento di non riuscire più a modificare l’assetto costituzionale perde molta della sua forza. Ma poi è questa una previsione priva di riscontro storico. Se ci volgiamo al passato non può dirsi che dopo i fallimenti delle “grandi” revisioni del testo costituzionale si sia arrestata la capacità dei parlamenti di modificare il testo costituzionale. Dalla riscrittura del Titolo V all’introduzione del pareggio di bilancio, non è mai mancata la spinta al cambiamento del testo costituzionale. E non sempre è stato in meglio.
Infine, c’è scarso senso della storia in questa presunzione di far terminare la stagione delle riforme con quest’ultima revisione. È la logica dell’ultima spiaggia che appare una visione miope, non in grado di guardare oltre al proprio orizzonte. Ed è proprio per trovare nuovi lidi che è necessario opporsi a questo mesto tramonto che ci viene proposto in nome del nuovo.

LE COLPE DI UNA STRAGE

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da http://www.senzasoste.it/politica/strage-ferroviaria-in-puglia-tra-investimenti-mancati-e-tagli-alla-sanita

strage corato

Una strage. Come altre che le Ferrovie dello Stato ormai quasi completamente privatizzate non smettono di produrre.
Un numero al momento imprecisato di morti – almeno 20 – e feriti (siamo già oltre i 35), tra gli olivi della Puglia, in un tratto a binario unico tra Andria e Corato, al confine tra la provincia di Bari e quella di Bat (Barletta-Andria-Trani, un’invenzione dei tempi che avere un provincia portava prestigio e poltrone).
Uno scontro frontale tra due treni locali, poco dopo le undici di stamattina, appartenenti alle Ferrovie Nord Barese (il risultato di una recente prvatizzazione), su uno dei tanti tratti in “cantierizzazione” per arrivare ad avere il doppio binario. Un treno per pendolari e studenti universitari, fortunatamente senza gli studenti liceali, perché l’anno scolastico è terminato da poco.
Lo scontro, ripetiamo, è avvenuto in aperta campagna ed è giustificabile soltanto con la mancata accensione del segnale di blocco in una delle due stazioni da cui provenivano i treni. Le prime ricostruzioni “aziendali” parlano – come sempre di “errore umano”, tacendo vergognosamente delle ragioni per cui un errore umano puà prodursi in determinate condizioni. Parliamo infatti di un sistema di trasporto su rotaia, dunque con percorso obbligato, su cui possono essere installate tecnologie e sensori a costi ormai bassissimi. Ma non lo si fa, per “risparmiare” sui costi.
Al contrario, da oltre venti anni Fs (già sotto la gestione “privatizzante” di Mauro Moretti, ex segretario della Filt Cgil traslocato quasi in una notte da quella carica a quella di amministratore delegato della Rete Ferroviaria Italiana, poi asceso alla carica di amministratore delegato di Fs e ora nello stesso ruolo in Finmeccanica-Leonardo) l’azienda ha imposto il ritorno all’”agente unico”, ovvero a un solo macchinista per treno, con il solo ausilio dell’”uomo morto”, un vecchio meccanismo a pedale che costringe il macchinista a distribuire la sua concentrazione tra la guida del treno e il pedale da premere ogni tot secondi. In queste condizioni di lavoro “l’errore” diventa statisticamente inevitabile. Basta moltiplicare le ore di guida di “macchinisti soli”, contrattualmente fissate ma con straordinario obbligato, per il numero di tratte a binario altrettanto unico. Ci si aggiunga una giornata torrida, a oltre 40 gradi all’ombra, è si vedrà che queste probabilità crescono esponenzialmente. Quando basterebbero pochi sensori per bloccare automaticamente la marcia dei treni molto prima di ogni possibile impatto.
Ma la stessa logica è stata applicata alla sanità, quindi al sistema dei pronto soccorso e dei dervizi di autoambulanza, quasi completamente privatizzato. Qui la politica dei tagli alla spesa pubblica ha rarefatto i punti di assistenza sanitaria, il personale disponibile per i soccorsi e contemporaneamente allungato i percorsi che le autoambulanze – in numero minore – debbono coprire.
Come segnala la rivista dei ferrovieri “Ancora in Marcia!”:
Non sappiamo al momento quali sistemi di circolazione e distanziamento dei treni siano in uso su questa linea, sulla quale il controllo e la vigilanza è svolto direttamente dal Ministero dei trasporti, come per altre linee ferroviarie ‘secondarie’ definite correntemente “ex concesse”.
12 luglio 2016

LA FRANCAFRIQUE INFINITA

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da http://www.lastampa.it/2016/07/07/esteri/uranio-petrolio-e-sviluppo-la-nuova-corsa-di-parigi-alla-conquista-dellafrica-klLe86OEAw8C7KsV8uL0oJ/pagina.html




INVIATO A N’DJAMENA (CIAD)

Il Francese sedeva sulla balconata dell’albergo nel centro di N’Djamena, in pantaloncini corti, le ginocchia rosa e senza peli contro la ringhiera di ferro. Era venerdì e il muezzin chiamava da tutte le moschee alla preghiera con lo stesso messaggio registrato. 

Attorno alla piscina le ragazze nere con indosso costumi succinti si dedicavano alla interminabile impresa di stirarsi i capelli. Il colorito pallido e la mancanza di interesse per le ragazze indicavano che il Francese era appena arrivato in Ciad. Sotto gli alberi del giardino sfilavano gli espatriati e qualche «évoluée», in costume da bagno e con le mogli in abiti sgargianti senza suscitare in lui alcuna attenzione.  

Era una di quelle persone di cui non ci si ricorda mai. Anche adesso non saprei descriverlo, era corpulento e aveva una risata esagerata. Diceva di chiamarsi Victor. Ci sono uomini il cui cognome non è mai pronunciato.  

Revival colonialista  
La prima volta che l’avevo incontrato mi aveva detto di essere in Ciad «per affari». «Import export. Sono un rappresentante di commercio, diciamo, un po’ esotico», aveva aggiunto con un sorriso malizioso. Poi un’ora dopo notai che gli ufficiali del contingente francese arrivati in albergo dalla vicina base per una festa con i colleghi ciadiani scattavano sull’attenti: davanti a lui, in bermuda, che li trattava con distratta degnazione. C’era uno strano cameratismo nei movimenti di quegli uomini, come se fossero resi tutti eguali dal fatto che erano impegnati in un compito che avevano già eseguito insieme in tempi immemorabili. Un dignitario dell’Administration in trasferta o uomo dei Servizi o, ancor più probabile, un «barbouze» come se ne trovano tanti confortevolmente insabbiati nei vecchi territori dell’impero. 

Ah, il perenne revival colonialista della «Francafrique!». Non c’è inquilino dell’Eliseo che non ne abbia proclamato la definitiva tumulazione; semplicemente si aggiorna, si africanizza di facciata, ma non si sbullona mai. 
Il Francese diceva sull’Africa cose non banali, e provava un piacere evidente a sorprendere l’interlocutore con paradossi. 

«L’Africa ormai è il tam tam e il telefono satellitare, la capanna di paglia e il grattacielo, il capotribù sanguinario e il presidente democratico. Bisogna tener conto di tutto e del suo contrario, il mondo si è complicato e si deve essere cauti. Altrimenti arrivano i semplificatori radicali come i jihadisti. Noi abbiano una certa esperienza quaggiù ma alla fine quello che conta sono due cose e questo gli islamisti lo hanno capito benissimo: chi ha la forza e chi ha il denaro. Noi francesi non abbiamo più il denaro, ma siamo stati prudenti: abbiamo conservato la forza, almeno qui».  

Eppure i cinesi sembrano impegnati con successo a soppiantarvi. Vedo nascere nei suoi occhi una lunga catena di pensieri: «La Cinafrique, già, quante esagerazioni! Sì, sì comprano petrolio e legname, costruiscono autostrade che si sfasciano alla prima stagione delle piogge ma gli africani son contenti perché pensano di aver fatto comunque un dispetto ai vecchi colonizzatori. Poverini. E poi riempiono di pentole i mercati dei pezzenti. I minerali e i governi, quelli, li abbiamo sempre in mano noi francesi. Perché al contrario dei cinesi abbiamo la forza. Ha costeggiato la base militare qui nella capitale? Una città nella città, impressionante vero? Ecco i cinesi non hanno la Legione. Qui in Africa vuol dire ancora molto, anzi è il fattore decisivo. E dunque: allons enfants». 

I capi di Stato in disgrazia  
Mi viene in mente, ascoltandolo, la triste fine di alcuni capi di Stato africani che hanno tentato di giocare la carta dei cinesi contro i francesi per far alzare un po’ i prezzi, per monetizzare il loro valore di alleati. Laurent Gbagbo cacicco della Costa d’Avorio, il Paese del cacao, arruffapopolo pittoresco, ex socio delle redditizie immondizie della Francafrique, sta intristito davanti al tribunale internazionale per crimini di guerra, lui che aveva sillabato il socialismo ai tavolini della Rive Gauche e inventato la formula «l’Africa è il 1789 in presenza di Amnesty international. Nientemeno!» 

E François Bozizé, ex presidente del Centrafrica, che triste fine. Eppure l’aveva ben servita la République fucina di idee generose ma, ahimè, anche di interessi sudici. Si fidava, Bozizé, pensava bastasse l’obbedienza al padrone. Lo hanno lasciato cadere sotto i colpi dei suoi nemici come un frutto marcio. 

E Mamadou Tanja, un fedelissimo dai modi grifagni? Chi lo ricorda? Aveva disturbato le certezze di Areva che estrae l’uranio del suo Niger in accomodato monopolio.  

La dominazione francese è come un iceberg, ne affiora appena la punta ovvero la retorica: la Francia miglior amica dell’Africa, la francofonia, la patria dei diritti umani. Il resto è sommerso ed è la Mafiafrique, tutta una questione di reti di controllo: c’è quella di Total che veglia sul petrolio e l’energia, quella di Bolloré che si occupa di comunicazioni e trasporti, e poi Bouygues, servizi pubblici e drenaggio degli aiuti allo sviluppo. E le logge massoniche, di cui molti capi di Stato africani sono componenti. 

Visto da qui, il neocolonialismo in salsa gauchiste appare più vispo che mai, anzi impegnato nell’ennesimo aggiornamento e trasformazione. Che riguarda anche noi europei. Certo. Il copione sarà sempre quello: despoti locali che fanno finta di governare, dedicandosi con passione alle bustarelle. Per il resto Parigi continuerà a decidere con la potenza del pugno sinistro o con la potenza della mano destra. Nell’epoca delle telluriche guerre sante e delle migrazioni occorre un maquillage. Per questo Parigi si interessa così direttamente della Libia: è la miccia che può incendiare tutto il cortile africano di casa. 

Le elezioni truccate  
E poi saranno i telefonini o Internet (si provvede comunque a limitarne il pestifero effetto lasciando la maggior parte delle ex colonie senza elettricità), ma le plebi si son fatte impazienti. Le elezioni truccate e scenografiche non bastano più, bisogna regalare un po’ di sviluppo. Come fare senza soldi in cassa? L’unico modo è far pagare la fattura all’Unione europea. Insomma il colonialismo senza le spese. L’Africa saheliana e francese, grande produttrice di migranti, sarà la destinataria del piano «aiutare gli africani in Africa, perché non partano più». Gli europei donatori di buona volontà e miopi rovesceranno denaro «per lo sviluppo», si intende: questo finirà in gran parte nei conti in banca dei soliti proconsoli di Parigi specializzati in finte elezioni e autentici dispotismi, che ne trarranno nuovi motivi di affezione all’Exagone, le imprese francesi continueranno a sfruttare i minerali, le truppe veglieranno sull’ordine e contro il terrorismo. 

Ahmadou Kourouma è un intellettuale mauritano. Sulla strada che porta al mare c’erano sedie e tavolini e le cucinette portatili ardevano e friggevano, ma il quartiere in cui vive è un’altra città dove al calar del sole il lavoro invece di finire sembra cominci. Ho trovato la sua casa con difficoltà, attraverso strani mucchi di rottami accumulati: quasi figure di Picasso. Anche la scala interna era fiancheggiata da rottami e scarti che un giorno o l’altro sarebbero potuti tornare utili. Ahmadou è infuriato con la Francia: «Perché dovrei amarla? Nel mio Paese esiste ancora la schiavitù, i francesi lo sanno ma fanno finta di nulla. Lei ricorda Fanon: “Il negro e l’altro… i dannati della terra…?” Anni 60, la decolonizzazione, parole magnifiche, sembravano trombe di guerra: “La decolonizzazione è semplicemente la sostituzione di una specie di uomini con un’altra specie di uomini. Si propone di mutare l’ordine universale. È un programma di disordine assoluto”. Che ridicole illusioni, imbecilli! Oggi Fanon dovrebbe riconoscere che il suo libro è carta straccia, il nostro è un destino irremissibile, altro che uomini nuovi». 

Razze nemiche  
Dal fumo e dall’aria viziata di un locale di Bamako spunta una ballerina. Danza con una specie di rabbia che viene vinta dal torpore, si riprende, ricade. Questa parte dell’Africa è ancora viva? Da mesi, da anni non la sento più respirare. Razze nemiche, jihadisti algerini, libici, Boko Haram, ciadiani si uccidono su un cadavere. Ed ecco questa ragazza meravigliosa che danza per noi che amiamo questa terra dura e crudele e la lasciamo morire. Danza. Danza. Ho appena letto su un giornale che a poca distanza di qui un kamikaze ha fatto strage in un mercato, trenta corpi già allineati. Questa ragazza meravigliosa danza su un carnaio. Chi ha pietà dell’Africa?  

NEL PAESE DEL JOBS ACT IL 57% DEI GIOVANI E' PRECARIO

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da  http://www.senzasoste.it/lavoro-capitale/nel-paese-del-jobs-act-il-57-dei-giovani-e-precario

Ocse. I salari calano, l’occupazione non cresce, aumenta la disoccupazione di lunga durata. Il consiglio a Renzi: "Continuate le riforme del mercato del lavoro: bisogna consentire di «derogare dal contratto nazionale in caso di difficoltà economica dell'impresa». Per la cronaca è l'articolo 2 della Loi Travail francese: quello che ha fatto esplodere la rivolta di un paese
Il 57% dei giovani italiani under 25 italiani è precario. Secondo l’Employment Outlook dell’Ocse, presentato ieri a Parigi, la loro percentuale è aumentata tra il 2014 e il 2015 dal 56% al 57,1%. Cresce anche la permanenza per meno di un anno sullo stesso posto di lavoro precario: dal 37,9% del 2014 al 43% del 2015. Peggio dell’Italia fanno solo Spagna e Grecia. Sono i giovani i più colpiti dalla crisi: il loro tasso di disoccupazione era al 40,3% a fine 2015, sotto il picco del 42,7% del 2014, ma doppio rispetto al 2007, il terzo peggiore dell’Ocse dopo Grecia e Spagna. In dieci anni il tasso di occupazione giovanile è crollato: nel 2015 era al 17,3% (dal 17,2% nel 2014) contro il 24,5% del 2007 e il 27,8% del 2000. Siamo penultimi, dopo la Grecia (13%).
Questo dato sull’entrata nel mercato del lavoro italiano è confermato da quello registrato sull’altra sponda anagrafica della forza-lavoro: i disoccupati di lunga durata – persone alla ricerca di un impiego da più di un anno: sono il 58,7%, il terzo peggior dato dell’Ocse (la media è del 33,8%), inferiore di 3,5 punti rispetto al picco raggiunto nel 2014. Solo Grecia (73%) e Repubblica Slovacca fanno peggio (62,3%). Per gli over-55 la disoccupazione di lungo termine è la condizione del 65% dei senza lavoro. Nel mezzo ci sono i cosiddetti «Neet» che sono aumentati del 44% durante la crisi. Per chi, invece, ha un’occupazione i salari diminuiscono. Come già dimostrato dall’Eurostat. Nel rapporto l’Ocse registra un calo dello 0,2% dei salari nel periodo 2007-2015 contro +0,5% nel 2000-2007: 34 mila dollari contro la media Ocse di 41 mila. Il costo unitario del lavoro nel 2007-15 risulta per altro di +0,4% dopo +0,6% nei sette anni precedenti. La crescita della produttività è piatta da 15 anni. Oggi si può dire che il valore perduto dei salari dal 2007 non sarà mai recuperato. Dall’Ocse sperano in una «crescita vigorosa» che non ci sarà, visto che siamo in una crescita «anemica» che non produce «occupazione fissa».
Capitolo a parte le considerazioni sul Jobs Act di Renzi. L’Ocse ne è uno degli ispiratori, quindi è di parte e mostra un atteggiamento poco istituzionale. Il Jobs Act «ha incentivato l’uso di contratti a tutele crescenti al posto di contratti temporanei con creazione netta di occupazione». Non si dice quanti sono i vecchi contratti convertiti in quelli nuovi, ad esempio. Si afferma che non sono aumentati i licenziamenti. E come potevano, visto che il rapporto arriva a registrare i dati dei primi 9 mesi di vita del Jobs Act (marzo-dicembre 2015) con gli incentivi alle imprese al massimo. Si vedrà dopo il 2018. Dai dati il Jobs Act non produce occupazione tra i giovani, né tra i lavoratori più maturi. Né aumenta i salari. Ultima indicazione dell’Ocse: la riforma continui e bisogna consentire di «derogare dal contratto nazionale in caso di difficoltà economica dell’impresa». Per la cronaca è l’articolo 2 della Loi Travail francese: quello che ha fatto esplodere la rivolta di un paese contro il governo socialista che applica questa regole made in Ocse.
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