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CREMASCHI SUL TTIP

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da http://www.senzasoste.it/politica/ttip-il-partito-della-nazione-in-vendita

calenda-renzi-675
di Giorgio Cremaschi 
Carlo Calenda rappresenta al meglio la casta renziana. Esperienze manageriali sin dalla prima elementare e un’abilità, superiore a quella di Tarzan sulle liane, nel saltare tra le cordate di potere e da un incarico all’altro. Cosi il nostro è balzato agilmente da Montezemolo a Monti e poi da quest’ultimo a Renzi. Che lo ha nominato all’inizio dell’anno nella Commissione Europea, salvo poi ripensarci dopo pochi mesi e collocarlo al vertice del Ministero dello Sviluppo Economico.
Il nuovo salto di Calenda c’é stato il 10 maggio e già il 13, intervenendo da neo ministro a Bruxelles, il nostro ha subito schierato l’Italia tra gli ultras del TTIP. Mentre il governo francese e tedesco cominciavano ad esprimere dubbi sul micidiale trattato che concederebbe licenza di far tutto alle multinazionali, il nostro si è lamentato del fatto che le opinioni pubbliche ed i parlamenti nazionali abbiano rallentato il negoziato. I popoli a volte contano ancora qualcosa rispetto al mercato, che scandalosa arretratezza!
Ora il ministro chiarisce in una intervista sul Corriere della Sera la sua posizione, che evidentemente è anche quella del governo.
L’Italia, sostiene il ministro, è il paese che più avrebbe da guadagnare dalla piena attuazione del TTIP. Non solo non avremmo più il formaggio Asiago prodotto nel Minnesota, ma le nostre piccole imprese avrebbero la possibilità di sconfiggere la prepotenza e i privilegi delle multinazionali e quella di invadere i mercati del mondo, compresi quelli degli USA. E le preoccupazioni per gli OGM, i diritti sociali e del lavoro, le legislazioni ambientali non avrebbero alcuna ragione d’essere, in quanto queste materie non farebbero parte del negoziato.
Neppure l’addetto stampa di una multinazionale del petrolio oggi sarebbe capace di affermare seriamente un tale concentrato di sciocchezze. Per altro clamorosamente messe alla berlina dalle rivelazioni di GreenPeace sulle clausole segrete dei negoziati. Rivelazioni che, accanto alla crescente mobilitazione della opinione pubblica, hanno convinto diversi governi europei a mettere un freno ai negoziati.
Per altro le affermazioni del ministro risultano ancora più ridicole di fronte a ciò che si è sempre saputo essere il cuore del TTIP, cioè quella clausola di arbitrato che sottrarrebbe gli investimenti esteri alle legislazioni nazionali. Per il ministro Calenda tali clausole sarebbero utilizzabili meglio e con più risultati dalle Formaggerie Prealpine, piuttosto che dalla Monsanto. Neppure quando hanno istituito l’Euro, vantandone tutti i magnifici guadagni che ne avrebbe ricevuto l’Italia, i suoi sostenitori si erano spinti a tanto.
Ma ora c’è il rischio che tutto questo sia messo in discussione, lancia l’allarme Calenda, anche perché negli Stati Uniti le amministrazioni pubbliche intendono continuare a privilegiare le aziende del posto in tutti gli appalti. Ma guarda che strano….
Non comprendiamo se il Corriere della Sera condivida il pensiero del ministro in tutto, o in fondo si vergogni un poco della sua sconclusionata rozzezza. Elogi della globalizzazione come quelli che abbiamo letto nell’intervista, oggi farebbe fatica a farli, almeno senza ridere, persino un manager della Banca Morgan.
Ma ciò che dobbiamo purtroppo ricordare è che l’entusiasta fautore del TTIP, che oggi piange sui rischio che esso non si possa realizzare, non è un venditore di obbligazioni che deve convincere un pensionato a dargli i sui risparmi, ma un ministro della Repubblica che vuole convincere il suo paese a mettere in vendita sé stesso.
Sempre più spesso si afferma che Renzi voglia essere il leader di un moderno partito della nazione, e che a questo fine voglia trasformare il PD e smantellare la Costituzione. Ora Calenda chiarisce che quel partito, se si realizzasse ed avesse successo e noi speriamo di no, sarebbe quello della nazione in vendita.
30 maggio 2016

FRANCIA, LO SCIOPERO ILLIMITATO

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da http://www.senzasoste.it/internazionale/francia-contro-la-loi-travail-raffica-di-scioperi-illimitati

cgt

L’Unione francese delle industrie del petrolio (Ufip) ha annunciato alcune ore fa un “netto miglioramento” nel rifornimento di carburante alle stazioni di servizio in Francia anche se in realtà il 20% sono ancora parzialmente o totalmente a secco a causa dei blocchi dei lavoratori a raffinerie e depositi. “Dopo una settimana difficile, la mobilitazione di tutti gli attori e il coordinamento con i poteri pubblici hanno consentito un netto miglioramento”, ha rivendicato il presidente dell’Ufip, Francis Duseux, che nei giorni scorsi aveva chiesto e ottenuto dal governo l’invio dei reparti antisommossa a sgomberare alcuni dei picchetti e delle occupazioni che impedivano i rifornimenti. Anche il gigante petrolifero francese Total ha parlato di un “miglioramento significativo”, ma 553 (contro le 650 di ieri) stazioni di servizio del gruppo rimangono totalmente o parzialmente a secco su una rete di distribuzione che ne conta in totale 2.200.

Dello otto raffinerie esistenti in Francia, quattro sono ancora bloccate del tutto, due funzionano a regime ridotto e solo altre due, quelle del gruppo statunitense Exxon/Mobil, lavorano normalmente. Lo sciopero nel settore proseguirà almeno fino a giovedì non solo nelle raffinerie ma anche ai terminal petroliferi del grande porto marittimo di Marsiglia – trenta petroliere sono bloccate da ieri al largo del terminal nel sud della Francia – e in quello di Le Havre (nel nord).

Intanto ieri sera è iniziato in tutto il paese lo sciopero a carattere illimitato della Sncf, la società ferroviaria; i lavoratori dei trasporti (anche se quelli aderenti al sindacato conservatore Cfdt si sono sfilati dalla protesta), oltre alla cancellazione della legge El Khomri, pretendono anche una diminuzione dei ritmi e degli orari di lavoro recentemente aumentati dal governo. Fermi almeno al 50% anche i treni ad alta velocità e a lunga percorrenza mentre per ora dovrebbe essere esente dallo sciopero la Ratp, la rete ferroviaria urbana parigina, anche se i sindacati del settore chiedono la riapertura immediata dei negoziati sul salario e comunque hanno indetto uno sciopero contro la versione francese del Jobs Act a partire da giovedì.

Per completare il quadro anche tutti i sindacati dell’aviazione civile hanno convocato uno sciopero del trasporto aereo dal 3 al 5 di giugno. Alla protesta contro la legge sul lavoro si sommano anche quelle dei lavoratori dell’Air France – che hanno deciso ben 6 giorni di blocco – contro il taglio dei loro stipendi deciso dall’azienda, e i controllori di volo. Come se non bastasse la capitale francese rischia di essere sommersa dalla spazzatura visto che da questa mattina è bloccato il più grande inceneritore di rifiuti della città mentre ieri i lavoratori della Cgt avevano bloccato la discarica di Ivry-sur-Seine, la più grossa della regione parigina dell’Ile-de-France.

Sindacati e organizzazioni studentesche che da tre mesi protestano contro la norma che precarizza e rende più flessibile il lavoro, concede prevalenza ai contratti aziendali invece che a quelli nazionali e rende più facili i licenziamenti si preparano ad una nuova giornata di manifestazioni e blocchi. Cgt, Solidaires, Fsu, Unef, Fidl, Sud, e Unl hanno indetto per il 14 giugno la nona giornata di mobilitazione generale contro il governo, quando i campionati europei di calcio saranno già iniziati. Il rilancio degli scioperi e delle manifestazioni, seguito ieri alla decisione da parte del governo e del presidente socialista di continuare diritti per la loro strada nonostante la forte opposizione sociale, politica e sindacale alla Loi Travail, preoccupa molto l’industria turistica, già colpita dalle cancellazioni seguite agli attentati di Parigi di novembre e ora alle prese con un calo drastico degli arrivi dall’estero.

Ieri Manuel Valls ha assicurato di non avere alcuna intenzione di allungare la lista di quei leader politici che hanno dovuto subire una sconfitta a causa delle proteste sociali. “Se soccombessimo alle proteste e alla Cgt ossessionati dalla scadenza alettorale del 2017 (le elezioni legislative) perderemmo tutto” ha affermato il primo ministro.
Ma il governo teme ora che la propria intransigenza porti a quella “convergenza delle lotte” che in parte finora era mancata a causa delle tensioni tra i settori radicali del movimento denominato ‘Nuit Debout’ e le direzioni dei sindacati maggioritari, accusati di non fare abbastanza contro il governo e di aver tollerato negli ultimi anni troppi attacchi nei confronti delle libertà democratiche e dei diritti dei giovani e dei lavoratori. Del resto per varie settimane, dalla fine di febbraio a tutto marzo, la Cgt e Force Ouvriere hanno chiesto non il ritiro della legge ma una modifica di alcuni punti sulla base di un dialogo con le parti sociali, non convocate invece da un governo accusato di ‘voler fare da solo’.

Adesso che i socialisti hanno ribadito il loro no a modifiche sostanziali del testo legislativo – che pure era stato ventilato nei giorni scorsi da alcuni esponenti dell’esecutivo o del gruppo parlamentare socialista – i sindacati difficilmente potranno smobilitare, compresi quelli – come Force Ouvriere – che più volte hanno lasciato intendere anche negli ultimi giorni di essere pronti ad una mediazione con il governo. Lo spettro è quello della convocazione di uno sciopero generale (veramente generale), che finora anche la Cgt ha procrastinato e che potrebbe trascinare con sé settori sociali consistenti finora non particolarmente attivi nella protesta, oltre che provocare una rimonta significativa della partecipazione di quei settori giovanili protagonisti della prima fase della rivolta e poi passati almeno in parte in secondo piano.

Mentre il primo ministro Manuel Valls ha telefonato personalmente sabato a tutti i leader delle varie sigle sindacali, compreso quello della Cgt, il presidente del Medef (la CONFINDUSTRIA francese) Pierre Gattaz accusava platealmente Philippe Martinez di essere alla testa di un sindacato di “teppisti e terroristi” e di essere responsabile di comportamenti da codice penale. Il capo degli industriali francesi minaccia ora addirittura che, se Valls alla fine cederà ai sindacati e riscriverà l’articolo 2, quello che concede priorità agli accordi aziendali invece che ai contratti di categoria, gli imprenditori chiederanno addirittura il ritiro di una legge a quel punto ‘snaturata’ (dal punto di vista padronale, ovviamente).
31 maggio 2016

VOUCHER, LA FINTA CORREZIONE.

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da http://www.senzasoste.it/lavoro-capitale/la-finta-correzione-del-jobs-act-sui-voucher

Ma non sono gli abusi ad aver prodotto il boom
Matteo Renzi continua a cantare le lodi del suo Jobs act ma intanto il governo prima annuncia e poi fa slittare il primo intervento correttivo ad appena due anni dalla legge delega e a poco più di un anno dall’ultimo decreto attuativo. La materia fondamentale su cui la matita blu del consiglio dei ministri di ieri sera è rimasta sospesa è quello, bollente, dei voucher su cui anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha di recente denunciato un «uso improprio». Il problema è che le correzioni annunciate e poi rimandate dall’esecutivo non cambiano granché.
Negli annunci del ministro Giuliano Poletti il problema che si vuole risolvere è quello della «tracciabilità» dei buoni-lavoro, che inizialmente dovevano servire per garantire un minimo – davvero minimo: 2,50 euro su 10 euro per ciascun ticket teoricamente orario – di copertura previdenziale e assicurativa a prestazioni del tutto occasionali come fare la spesa a una vicina invalida o un’ora di baby sittering ogni tanto, e quant’altro per arrotondare magari una magra pensione, un assegno di disoccupazione, una piccola rendita, è invece diventato un fenomeno del tutto diverso.
I voucher sono esplosi – da 15 milioni che erano nel 2011 ora sono 115 milioni e vengono pagato in questa forma 1,4 milioni di lavoratori, età media 36 anni – , un boom strabiliante che ormai copre anche gran parte del precariato di settori industriali (dall’agroalimentare alle costruzioni) e del terziario, inclusi persino numerosi lavori accessori per conto di amministrazioni pubbliche locali.
«I buoni-lavoro sono diventati il grimaldello per una destrutturazione strutturale del mercato del lavoro – dice il professor Vito Pinto dell’Università di Bari, uno dei maggiori esperti della materia – e questo non contando l’utilizzo improprio o fraudolento», su cui si incentrano invece le correzioni del governo che fissano un’ora e non più 30 giorni il limite di tempo per comunicare preventivamente, tramite sms, l’utilizzo della prestazione, i dati fiscali del datore-acquirente e quelli del lavoratore «voucherista».
«La tracciabilità telematica c’era già – spiega ancora Pinto – e la sanzione (da 400 a 2.400 euro la multa introdotta dal governo ndr) dipende dalle ispezioni, se sono programmate o no. Ciò che li rende attrattivi è che consentono un abbattimento fantastico del costo del lavoro: visto che non c’è limite di utilizzo per gli imprenditori, non conviene più fare alcun contratto a tempo determinato o di altro tipo, arrivati al limite dei 2 mila euro l’anno per ciascun lavoratore, semplicemente se ne prende un altro. È la forma di precarietà più bieca».
Chi viene pagato con i voucher non può superare la cifra dei 7mila euro l’anno attraverso questa forma di reddito che non è ulteriormente gravata da contributi e tasse (non va dichiarata nel 730) e quindi in genere non supera i tre committenti l’anno. L’imprenditore infatti non può pagare ogni singolo lavoratore così per oltre 2 mila euro l’anno. Ma può prenderne altri, tutti quelli che vuole.
Lo studio redatto per conto dell’Inps da Bruno Anastasia e altri ricercatori dice che ci sono 250 mila aziende manufatturiere e del terziario profit, cioè a scopo di lucro, che li utilizzano. E dice anche che 700 grandi committenti pagano così (5 mila euro l’anno o poco più) oltre 50 dipendenti ognuno. I controlli ispettivi, volendo dare un colpo agli abusi, potrebbero iniziare da questi soggetti che rappresentano appena lo 0,15 % delle committenze ma concentrano il 9% dei ticket emessi e sono tracciabili attraverso le comunicazioni Inps e Inail.
Sono grandi alberghi, aziende di ristorazione e del commercio, fabbriche alimentari, ma anche imprese di informatica. Ognuno di questi soggetti in media spende così 110 mila euro l’anno.
«Con i voucher c’è chi dice che si produce un’emersione del lavoro nero – sostiene Claudio Treves, segretario del Nidil Cgil riferendosi al sottosegretario Nannicini – ma è il contrario: è l’immersione del lavoro precedentemente contrattualizzato. Un lavoratore con un contratto va in pensione e il suo posto viene dato a un voucherista». Il rapporto di fine marzo dell’Inps per il ministero del Lavoro analizzando il boom del 2015 sostiene che soltanto il 7,9% dei voucheristi ha avuto un rapporto di lavoro di altro tipo nei 3 mesi precedenti al voucher.
«Ma prende in esame solo la singola prestazione – fa notare Treves -, se l’indagine allargasse il campo a lavori analoghi nello stesso settore il dato sarebbe enorme». È il circuito dei mini-job da cui è difficilissimo uscire. L’unica strada è abolire i voucher, secondo la Cgil.
1 giugno 2016

LA TRUFFA SULL'OCCUPAZIONE CHE (NON) CRESCE

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da http://www.senzasoste.it/media-e-potere/la-truffa-di-renzi-sull-occupazione-che-cresce

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Il più renziano dei giornali, Repubblica, aveva suonao la grancassa con qualche minuto di anticipo ripetto a premier: “Più occupati e meno inattivi, il mercato del lavoro è in ripresa”. Meno attento ai dettagli numerici, il contafrottole seduto a Palazzo Chigi si limitava a gioire con un “”Il Jobs Act funziona, smentiti i gufi”.
I dati Istat pubblicati ieri costituiscono in effeti un groviglio di informazioni contraddittorie, che sarà bene districare con calma.
Dice l’Istat: “Dopo l’aumento registrato a marzo (+0,3%) la stima degli occupati ad aprile sale dello 0,2% (+51 mila persone occupate). L’aumento riguarda sia i dipendenti (+35 mila i permanenti, stabili quelli a termine) sia gli indipendenti (+16 mila). La crescita dell’occupazione coinvolge uomini e donne e riguarda tutte le classi d’età ad eccezione dei 35-49enni. Il tasso di occupazione, pari al 56,9%, aumenta di 0,2 punti percentuali sul mese precedente”.
Fin qui tutto bene, apparentemente. L’occupazione indubitabilmente sale. I problemi nascono nel paragrafo dedicato alla disoccupazione: “Dopo il calo di marzo (-1,7%) la stima dei disoccupati ad aprile sale dell’1,7% (+50 mila), tornando al livello di febbraio. L’aumento è attribuibile alle donne (+4,2%), mentre si registra un lieve calo per gli uomini (-0,4%). Il tasso di disoccupazione è pari all’11,7%, in aumento di 0,1 punti percentuali su marzo”.
Anche qui non c’è da girarci intorno: la disoccupazione sale anch’essa. Ma com’è possibile che due grandezze opposte, nello stesso bacino di popolazione, aumentino entrambe e contemporaneamente? A rigor di logica una delle due sembrerebbe sbagliata…
In molti, più avezzi a maneggiare statistiche che mutano di frequente i criteri base, sono andati a leggere anche i dati relativi agli “inattivi”, ossia coloro che non lavorano ma non sono neanche iscritti ai centri per l’impiego (ex uffici di collocamento), e che dunque non risultano disoccupati per una semplice questione burocratica.
E qui la verifica è veloce: “Ad aprile si osserva una consistente crescita della partecipazione al mercato del lavoro determinata dall’aumento contemporaneo di occupati e disoccupati e un corrispondente forte calo degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,8%, pari a -113 mila). La diminuzione riguarda uomini e donne e si distribuisce tra tutte le classi d’età. Il tasso di inattività scende al 35,4% (-0,3 punti percentuali)”.
Sciolto il dilemma? Gli inattivi si sono messi a lavorare senza passare per i centri per l’impiego, dunque l’occupazione è aumentata; i disoccupati sono aumentati anch’essi, però, perché i licenziati si sono andati ad iscrivere negli uffici per poter avere l’assegno di disoccupazione.
L’Istat non può dirlo, ma a naso si intuisce che c’è stata una sostituzione netta di lavoratori a contratto “standard” con altri, inattivi o disoccupati. Quindi ci deve essere per le imprese un vantaggio di nuovo tipo, visto che gli incentivi (contributi a carico dello Stato per tre anni per ogni “nuovo assunto con contratto a tempo indeterminato”) sono di fatto finiti a dicembre 2015.
E qui esce fuori il buco nero del Jobs Act, che permette di retribuire con il “voucher”, anche ad ore. Le polemiche delle scorse settimane avevano in effetti centrato il problema: questi “buoni, del valore nominale di 10 euro, pensati per “per retribuire il lavoro accessorio” (stagionale, occasionale, ecc), sono stati venduti nel 2015 per oltre 115 milioni di pezzi. Tradotto in persone, si calcola in genere che 1,4 milioni di lavoratori siano pagati in questo modo.
È dunque assolutamente evidente che molte imprese si sono liberate di lavoratori “standard” e li hanno sostituiti con altri (magari anche gli stessi, se bravi) pagati in parte con i voucher e in parte in nero (prassi consolidata, specie nell’edilizia, dove spesso i voucher vengono versati nel giorno stesso di un incidente sul lavoro).
La domanda finale è soltanto una: ma un lavoratore pagato con il voucher, magari solo per un’ora, è considerato statisticamente un “occupato”?
La risposta è stata fornita dalla stessa Istat a un lavoratore che chiedeva proprio questo:
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“Nella settimana di riferimento dell’indagine” significa “proprio in quella settimana” in cui i ricercatori dell’Istat svolgono la rilevazione. Quindi anche soltanto un’ora al mese, spesso, può bastare a far scattare “l’occupazione” di una unità in più.
E qui si chiude il cerchio. Questa è l’occupazione di cui Renzi (e Repubblica) si fa vanto. Alle domande successive (ma un’ora di voucher, 10 euro, alla settimana bastano a campare? Che senso ha una statistica che considera “occupati” dei futuri morti di fame? ecc) potete rispondere anche da soli,,,
Il rapporto completo dell’Istat, con l’invito a leggere attentamente il Glossario, ovvero i criteri con cui tutti veniamo classificati: CS_Occupati-e-disoccupati_aprile_2016
1 giugno 2016

WEEK END MAGAZINE

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RIFUGIO




Talvolta io cerco rifugio
in te
da te e da me

dalla collera per te
dall'impazienza
dalla fatica

dalla mia vita
che toglie speranze
come la morte

Io cerco difesa
in te
dalla quiete troppo quieta

Io cerco in te
la mia debolezza
Questa mi deve venire in aiuto

contro la forza
che io
non voglio avere.
(Erich Fried)

LE CAUSE ECONOMICHE DI UNA (CONTRO)RIFORMA

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da http://www.eunews.it/2016/06/03/nel-nome-di-j-p-morgan-le-ragioni-economiche-della-controriforma-costituzionale/60393

[di Guglielmo Forges Davanzati] L’intento della riforma costituzione è passare da un modello costituzionale pensato per la tutela dei diritti sociali, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia, a un modello costituzionale pensato unicamente in una logica di perseguimento di obiettivi di efficienza economica.


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di Guglielmo Forges Davanzati 
Il progetto di riforma costituzionale è stato autorevolmente commentato da numerosi costituzionalisti, che hanno concentrato la loro attenzione sugli aspetti propriamente giuridici e politici del cambiamento prospettato[1]. Nel dibattito che si è sviluppato in questi mesi, minore attenzione hanno ricevuto interpretazioni che attengono a ragioni di carattere propriamente economico che spingono verso la riforma della Costituzione italiana.
Per individuarle conviene partire da un fatto ampiamente noto. J.P. Morgan, una delle istituzioni finanziarie più importanti su scala globale, in un documento del 2013, ha rilevato l’impronta “socialista” che sarebbe implicita nella nostra Carta costituzionale[2]. In effetti, si tratta di un’interpretazione che può essere condivisa se si leggono gli articoli che più direttamente riguardano la sfera economica e, in particolare, quelli che danno allo Stato anche funzioni di programmazione. Evidentemente, dal punto di vista degli interessi della finanza che quella istituzione rappresenta, la presenza di elementi di “socialismo” nella nostra Costituzione deve essere particolarmente sgradita. Va chiarito che il documento di J.P. Morgan è estremamente rilevante, anche al di là del progetto di riforma costituzionale, perché aiuta bene a comprendere i processi di depoliticizzazionein atto: ovvero processi che demandano a tecnici non eletti la gestione della politica economica, a condizione che quest’ultima sia concepita in modo da «non essere invisa alle banche centrali»[3].
La propaganda governativa non richiama l’ammonimento di J.P. Morgan, non fa riferimento al “socialismo costituzionale” italiano, preferendo concentrarsi essenzialmente su due aspetti.
  1. La riforma costituzionale si rende necessaria per ridurre i costi della politica.
  2. La riforma costituzionale si rende necessaria per accelerare i tempi di decisione.
Il primo argomento appare suscettibile di una immediata critica, che riguarda il fatto che, se davvero si intende ridurre i “costi della politica”, non si capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice – attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta. Peraltro, come è stato osservato, la previsione per la quale i senatori non percepiranno indennità in quanto senatori (il che, ci viene detto, è un risparmio) è combinata con la previsione che le medesime indennità i senatori le percepiranno dalle istituzioni da cui sono espressi[4]. Ciò al netto del fatto che – ed è bene ricordarlo – la remunerazione accordata a chi svolge attività politica ha il suo fondamento nella possibilità data ai meno abbienti di assumere incarichi. È evidente che nella situazione attuale questi emolumenti hanno assunto dimensioni la cui legittimazione è oggettivamente difficile da darsi, ma è altrettanto evidente che la politica ha un costo; riforma o meno.
Vi è di più, considerando che sebbene elevati in termini assoluti questi costi appaiono assolutamente marginali rispetto ai costi che i cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a pagare il ceto politico. E che serve semmai a generare avanzi di bilancio. E tuttavia, nel confronto con la media europea, ci troviamo di fronte al paradosso per il quale siamo maggiormente tassati per pagare più di altri una classe politica che, nella sua espressione governativa, ci somministra dosi di austerità fiscale (riduzioni di spesa combinate con aumenti della pressione fiscale) superiori a quanto accade altrove.
Il secondo argomento, apparentemente inoppugnabile (chi vorrebbe maggiore lentezza delle decisioni?), è maggiormente rilevante giacché attiene ai rapporti fra dimensione economica e sfera delle decisioni politiche. La Costituzione che si intende ridisegnare è, a ben vedere, una Costituzione modellata su parametri di efficienza economica, ovvero, finalizzata a rendere l’economia italiana più attrattiva per gli investitori esteri. Questo sembra il punto essenziale sul quale si gioca questa partita. In un contesto che si definisce di globalizzazione, effettivamente ciò che conta è la rapidità delle decisioni politiche che asseconda la rapidità dei processi di produzione e vendita di merci: la c.d.time-based competition che diventa competizione fra Stati anche sulla rapidità delle scelte politiche. Letta in questa prospettiva, la riforma appare del tutto coerente con una logica, per così dire, efficientista: logica che, tuttavia, è in radicale contrasto con la tutela dei diritti, in particolare dei diritti sociali. Ciò che conta è l’efficienza dei processi decisionali, come si legge nei documenti preparatori della riforma redatti da questo governo (peraltro, del tutto in linea con i governi che lo hanno preceduto).
Vi è anche da rilevare che il tema della qualità delle istituzioni è stato oggetto, negli ultimi anni, di studi compiuti prevalentemente da economisti (si pensi, innanzitutto, alla c.d. analisi economica del
diritto). Si tratta di studi che, applicando l’assunto della scelta razionale ai problemi di decisione politica e di disegno delle istituzioni, giungono fondamentalmente alla conclusione che è ottimale quel disegno delle istituzioni (costituzioni comprese) che istituisce un meccanismo di incentivo/disincentivo tale da rendere possibile la massimizzazione del benessere sociale[5].
In un certo senso, è questa la base teorica della riforma che si intende attuare: il passaggio, niente affatto neutrale, da un modello costituzionale pensato per la tutela dei diritti sociali, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia, a un modello costituzionale pensato in una logica di perseguimento di obiettivi di efficienza economica, da perseguire mediante il minimo intervento pubblico in economia (si pensi, a riguardo, alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio).
Ma qui, il punto ulteriore in discussione riguarda il nesso che viene a istituirsi fra “governabilità” ed efficienza, dal momento che non è affatto scontato che una maggiore rapidità dei tempi della decisione politica implichi un aumento dell’efficienza di sistema. In altri termini, appare discutibile l’idea che, se anche il superamento di una Costituzione basata sulla tutela di diritti sociali si renda necessario per garantire la “governabilità”, quest’ultima produca benessere per tutti.
A ben vedere, sussistono ottime ragioni per ritenere che il decisore politico è “catturato” da gruppi di interesse e che, ponendo la questione in questi termini, il solo risultato ragionevolmente prevedibile a seguito della riforma costituzionale può configurarsi sotto forma di maggiore governabilità a beneficio dei gruppi di interesse che il governo difende[6]. E, almeno in questa fase storica, non sono certo né i lavoratori dipendenti, né i pensionati, né le piccole imprese. Va chiarito, a riguardo, che esiste un’ampia letteratura economica che mostra come un fondamentale presupposto per la crescita economica risieda esattamente nella tutela dei diritti sociali e, a questi connessi, a una più equa distribuzione del reddito. Ma si tratta di una letteratura marginalizzata dal pensiero dominante e palesemente non funzionale all’attuale modello di sviluppo, basato semmai su crescenti diseguaglianze distributive e su quella che Luciano Gallino, nei suoi ultimi scritti, definiva la «lotta di classe dall’alto».
In questo senso, il referendum ha una notevole implicazione economica, giacché pone in evidenza il fondamentale discrimine fra una visione della carta costituzionale come strumento di tutela delle fasce deboli della popolazione e una visione della stessa come dispositivo finalizzato alla governabilità per l’efficienza, laddove quest’ultima passa attraverso il superamento del modello di democrazia economica delineato nella Costituzione attualmente vigente.
Pubblicato su MicroMega-online il 2 giugno 2016.
Note 
[1] Si veda, fra gli altri, per il fronte del NO: Zagrebelsky, “Il mio no per evitare una democrazia svuotata”, MicroMega-online, maggio 2016. Si rinvia anche a G. Azzariti,Contro il revisionismo costituzionale, Bari, Laterza, 2016. Per le ragioni del SÌ si rinvia, fra gli altri, a Salvatore Curreri, “Le critiche che la riforma costituzionale non merita”.
[2] J. P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfay there, “European Economic Research”, 28 marzo 2013. Per un commento a questo articolo, si veda:http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/ricetta-jp-morgan-per-uneuropa-integrata-liberarsi-delle-costituzioni-antifasciste/630787/.
[3] H. Radice, “Reshaping fiscal policies in Europe”, The Bullet, febbraio 2013.
[4] D. Gallo, “Le ragioni del NO all’arretramento costituzionale”, MicroMega-online, 31 maggio 2016.
[5] V., fra gli altri, R. A. Posner, The economic analysis of law, Harvard, Harvard University Press, 1999.
[6] Sul tema, si rinvia, fra gli altri a P. Burnham, New Labour and the politics of depoliticization, “British Journal of Politics and International Relations” 3/2, 2001, pp. 127-149, che sottolinea la sostanziale impossibilità di coniugare le nuove modalità di regolazione del capitalismo con la democrazia, così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento.

IL RISCHIO MANITA

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da  http://www.senzasoste.it/nazionale/amministrative-de-magistris-e-raggi-due-schiaffi-a-renzi-e-c-e-il-rischio-manita

totti 4 golNonostante il doppio turno sia stato ormai introdotto dal 1993 spesso ci si dimentica che i risultati, a 15 giorni di distanza tra la prima e la seconda elezione, possono portare significati politici diversi. Due esempi recenti: la vittoria della Le Pen al primo turno delle regionali francesi e quella di Hofer, sempre alla prima tappa elettorale, alle presidenziali austriache. In entrambi i casi, con la sconfitta delle destre, il secondo turno ha cambiato il senso della tornata elettorale. Nel caso delle amministrative 2016 il risultato del secondo turno, e non solo perchè si assegna la carica di sindaco, cambierà, e non di poco, la lettura dell’intera campagna elettorale locale di quest’anno. Se lo schieramento renziano potesse vantare un 3-2 nelle grandi città, contenendo la probabile sconfitta di Roma e quella di Napoli, la lettura di queste elezioni di giugno avrebbe un significato molto meno pesante, quando non positiva, per il presidente del consiglio. In caso di manita, un secco 0-5, invece già si anticiperebbero i segni della disfatta autunnale, per un presidente del consiglio che così avrebbe presto mostrato tutti i limiti di tenuta, credibilità e strategia.
Non è quindi certo un caso che Il Messaggero, testata che non si sottrae ai giochi di corridoio di Palazzo Chigi, abbia fatto circolare un’ipotesi di un governo di unità nazionale in autunno. Quando, dopo l’eventuale caduta di Renzi successiva al referendum di ottobre, ci sarebbero bersaniani, forzisti e grillini pronti a fare un governo che traghetterebbe il paese alle elezioni, riscrivendo la legge elettorale. Una boutade giornalistica, ovviamente, ma utile a far capire a Renzi che le conseguenze, in caso di mancata tenuta politica tra amministrative e referendum, potrebbero essere fatali. Oltretutto il governo ha di fronte a sé la consueta estate calda delle borse, della finanza e delle banche e una serie di emergenze sociali da governare. Sempre se non ci sarà Brexit e se questa, nel caso, sarà ordinata. Insomma, per Renzi sono arrivati i momenti duri. Persino un serio alleato, nel PD come Fassino ha ammesso, come Merola a Bologna, che il calo elettorale va messo in rapporto con la crisi economica e sociale.
Renzi, siccome ufficialmente la crisi economica non esiste più, ha provato a buttarla sul fatto che il Pd non è ben organizzato facendo la parte di quello che pretende che le cose vadano meglio. Avendo la doppia carica di segretario del partito e presidente del consiglio, una rarità nella storia repubblicana, dovrebbe pretendere molto di più da sé stesso, riconoscendo le proprie responsabilità. Ma non è un gioco di quelli che piacciono a mister 80 euro. Il significato sociale, e quindi politico, del voto nelle grandi città è abbastanza chiaro. Lasciando a parte la vicenda bolognese, dove la tradizionale mediazione sociale del centrosinistra è venuta meno ma non si escludono margini elettorali di recupero, l’Italia appare davvero spaccata in due. Il traino economico degli anni pre-crisi –la sinergia tra mattone, banche e servizi- mantiene tratti di governo al nord. A Milano, dove due manager si contendono il dopo-Expo, e a Torino dove, però, il PD con Fassino fa molta più fatica ad affermarsi dopo anni di “razionalizzazioni” di un modello moneta-servizi-costruzioni che sente i morsi della crisi e di tagli al welfare.
Nel centro-sud sull’esplosione di questo modello si sono inseriti, come riflesso sociologico da leggere nel primo turno, sia la vittora di Raggi che di De Magistris. Due esempi davvero differenti di classe dirigente del centrosud ma con un tratto comune: provare ad imporsi sulle macerie del modello precedente. Di una bolla banche-finanza-servizi governata al sud in modo peggiore che al nord. De Magistris, pur non avendo trasformato una metropoli complessa come Napoli nella Pittsburgh del Tirreno, ha dato risposte positive sul piano dei servizi. La Raggi si trova, con tutto il movimento 5 stelle, di fronte alla grande prova di governo. Qualcuno, e ci riferiamo a qualche giornalista di quel foglio anticomunista che è diventata L’Unità, ha provato a sminuire il risultato di Roma. Ma c’è poco da dire: governare Roma regala una visibilità globale, la Raggi è stata già presentata dall’Economist e da Financial Times. Se il movimento 5 stelle si attesta lì, Renzi ha perso una battaglia strategica. Certo, il M5S deve mostrare avere idee molto chiare sul da farsi, e su dove mettere le mani, su cosa proporre ai romani. Roma è una metropoli globale, in crisi e complessa. Dovrà avere idee chiare sul governo delle periferie, sui servizi e su come generare economie in una metropoli che appare sfiancata. Altrimenti i contraccolpi, a livello nazionale, potrebbero essere anche violenti.
De Magistris, invece, si sta candidando come punto di riferimento nazionale per varie sensibilità di sinistra. Partendo dai territori. Non sarebbe, nel caso che questa candidatura fosse praticata fino in fondo, un percorso facile. Il rischio è quello di fare il Pisapia, l’arancione dai progetti compatibili che finisce velocemente ostaggio delle banche e delle grandi imprese, o lo Tsipras dove la resa, e la marcia indietro, è gravemente clamorosa. Naturalmente alla sinistre si chiede non solo di governare, e dal basso, ma anche di innovare, generando economie e nuovi servizi, non di fare il bertinottismo di ritorno: la tattica di una opposizione-parcheggio in attesa di una nuova alleanza di centrosinistra per redistribuire risorse che non ci sono. Se De Magistris ha chiaro questo è evidente che una sua ascesa nazionale è aupicabile. In un disastro Italia le cui dimensioni (tra caduta del pil dal 2008, della produzione e aumento della povertà) non sono chiare solo perchè la connessione mediale, quella che regala unità sociale ad un paese ed è in preda alla propaganda, è stata ben attenta ad occuparsi di altro.
Potrà Renzi subire la manita? E’ difficile ma nessun risultato per Renzi è in porto. Se accadesse, probabilmente avrebbe vita dura già a giugno, altro che settembre. Anche un bel 4-1, salvando la sola Bologna (che comunque, a parte il ’99, è una piazza che per il Pd è scontata) sarebbe un risultato molto duro per il governo. Anche perdere la sola Milano, dopo l’investimento fatto con Sala presso i poteri lombardi che contano, per Renzi suonerebbe qualcosa di sinistro. Comunque, in attesa del risultato che conta, quello del secondo turno, è evidente che il renzismo non ha attecchito nei territori. Non fosse altro perché anche a Novara e a Savona, dove si presentavano candidati renzianissimi su territori al di fuori dei riflettori, non è andata bene. Se ad un certo punto, tra i poteri che contano in Europa, ci si renderà conto che il prodotto Renzi va ritirato dal mercato non c’è da dubitare che la cura riservata a Berlusconi, nel 2011, potrebbe trovare ripetizione. Certo stiamo sempre parlando di una Europa che ripete sempre sè stessa, e le proprie crisi, ma in politica le alternative si preparano. E, sul piano dell’alternativa, siamo ancora al grado zero della crisi italiana ed europea.

LA SVIZZERA BOCCIA IL REDDITO DI CITTADINANZA

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Un articolo molto interessante che argomenta quello che in questo blog si è sempre sostenuto: il reddito incondizionato ha senso solo dentro una cornice di leggi fortemente lavoriste e in cui viene tutelata la previdenza sociale e collettiva. Ha senso se i soldi sono presi dalle tasche dei padroni e dei ricchi (altrimenti saremmo sempre al privatizzare gli utili e socializzare le perdite) e se viene usato come strumento in più e non in antagonismo alle tutele collettive. Quando invece, come da manuale della Scuola di Chicago, viene introdotto scardinando tutti i diritti sociali diventa un fenomeno molto pericoloso e negativo per la situazione di classe. Parlare di reddito dunque non ha senso se non si guarda quali forze lo spingono e in quale contesto viene inserito.
Oggi nei fatti -e qui la triste realtà- non esistono in tutta Europa forze politiche al Governo o aspiranti tali che siano capaci di pensare il reddito di cittadinanza al di fuori della sua concezione liberista in stile Scuola di Chicago.

da http://popoffquotidiano.it/2016/06/04/la-svizzera-boccia-il-reddito-incondizionato-di-base/


Vince il No al referendum sul reddito incondizionato di base. Forse non è un male visto che, secondo alcuni, sarebbe stato usato come un vera e propria macchina di guerra contro i lavoratori

di Checchino Antonini
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La Svizzera non sarà il primo Paese nel quale sarà messo in campo il reddito incondizionato di base.
Il 5 giugno 2016 per la prima volta al mondo i cittadini svizzeri sono stati chiamati a votare al referendum per l’introduzione di un reddito di base incondizionato. Però i cittadini hanno bocciato il quesito, con una percentuale di circa il 78% di No, proprio come previsto dai sondaggi della vigilia.
La proposta era quella di introdurre il reddito di base incondizionato (Rbi), altrimenti detto «reddito di cittadinanza», dalla nascita fino alla morte, per tutti i cittadini, minori compresi (ma con una soglia più bassa, 625 euro). In Svizzera, 2.500 franchi svizzeri al mese (cifra proposta dai propmotori, pari a circa 2.500 euro), cioè poco più di 30 mila franchi l’anno, è un livello appena sopra la soglia di povertà, che nella ricca Svizzera è di 29.501 franchi all’anno.
Secondo Eurostat, in Svizzera il 13,8% della popolazione è a rischio di povertà. Tecnicamente, spiegano i promotori, «il Rbi si sostituisce alla maggior parte delle prestazioni sociali fino alla quota del suo ammontare (sussidi allo studio e familiari, aiuto sociale, assicurazione disoccupazione, ecc.). Le prestazioni sociali in contanti saranno mantenute per gli aventi diritto, per esempio nel caso della disoccupazione o delle prestazioni complementari».
L’Rbi, stando all’iniziativa, “deve consentire a tutta la popolazione di condurre un’esistenza dignitosa e di partecipare alla vita pubblica”.
Il testo non specifica le modalità di finanziamento, l’importo dell’Rbi e la cerchia dei beneficiari, aspetti da disciplinare in una legge che il parlamento sarà chiamato ad elaborare qualora l’iniziativa dovesse essere accolta da popolazione e cantoni.
Reddito di base incondizionato- 24- favorevoli, 72- contrari
Come funziona. Persona A: con un reddito da attività lucrativa pari o superiore all’Rbi
Se seguita ad esercitare la propria attività lucrativa allo stesso grado d’occupazione, continuerà a realizzare il medesimo reddito anche con l’Rbi. Dal reddito da attività lucrativa viene prelevato l’importo del reddito di base, che confluisce nella cassa destinata al finanziamento dell’Rbi di tutta la popolazione per poi essere ridistribuito (in forma di Rbi) alla medesima persona. Il reddito finale della persona è dunque costituito dall’Rbi e dalla parte rimanente del reddito da attività lucrativa.
Persona B: con un reddito da attività lucrativa inferiore all’Rbi; o persona C: senza alcun reddito
Con l’introduzione dell’Rbi disporranno di un reddito superiore a prima. Dopo aver versato interamente il proprio reddito da attività lucrativa nella cassa del reddito di base, infatti, ricevono in cambio dallo Stato l’ammontare dell’Rbi.
In base alle stime del modello considerato dal Consiglio federale, l’Rbi (costo: 208 miliardi di franchi all’anno) potrebbe essere finanziato così:
a) per il 62% (130 miliardi circa) con i prelievi sui redditi da attività lucrativa;
b) per il 26% (55 miliardi) con trasferimenti dalle prestazioni pecuniarie di sicurezza sociale attual- mente distribuite e che verrebbero sostituite dall’Rbi;
c) per il rimanente 12% (25 miliardi) bisognerebbe trovare altre fonti di finanziamento (tagli alle spese, aumento delle imposte, p. es. dell’Iva; ‘microtassa’ sulle transazioni finanziarie ecc.).
Sul loro sito i promotori del reddito di cittadinanza sostengono che 2.500 franchi mensili permetterebbero di vivere in Svizzera un’esistenza sicura almeno fino al 2050. “Poco importa se con o senza un’attività lucrativa, ricco o povero, sano o ammalato, se solo o in una comunità. Per la maggior parte delle persone, un reddito di base non significa soldi supplementari, ma rimpiazza il reddito esistente. La novità è la mancanza di condizioni (l’incondizionalità)“. Ci si potrebbe attendere una rivoluzione lenta e silenziosa. Resta comunque un mistero, come i meccanismi economici e sociali possano permettere una tale trasformazione sociale.
Nel suo libro “L’allocution universelle. Nouveau label de précarieté” il sociologo belga Mateo Alaluf smonta queste belle promesse. Spiega invece come il reddito di cittadinanza verrà usato come un vera e propria macchina di guerra contro i salariati.
«La pretesa secondo cui il reddito di cittadinanza abbia origine in seno al movimento operaio non corrisponde alla realtà storica – si legge in un’analisi pubblicata sul sito del Movimento per il socialismo del Ticino – I dibattiti nel movimento operaio del XIX secolo hanno portato alla “giusta retribuzione” del lavoro (Pierre-Joseph Proudhon, 1809-1865), all’accaparramento della rendita fondiaria (Joseph Charlier, 1816-1896) e all’abolizione del salariato come forma contemporanea di sfruttamento (Karl Marx, 1818-1883). L’idea di reddito di cittadinanza è dunque molto più recente. È comparsa per la prima volta nel 1984, nel manifesto del Collettivo Charles Fournier, composto da Paul-Marie Boulanger, Philippe Defeyt e Philippe Van Parijs. Il reddito di cittadinanza viene presentato sulla base di tre caratteristiche principali: deve essere individuale, senza controparte di lavoro alcuno ed elargito indipendentemente dalla situazione sociale della persona: “Sopprimete le indennità di disoccupazione, le pensioni legali, i minimi necessari di esistenza, gli assegni familiari, le riduzioni di imposta per persone a carico, le borse di studio, i lavori temporanei per disoccupati, i terzi circuiti del lavoro, l’aiuto statale alle aziende in difficoltà. Ma versate ad ogni cittadino una somma sufficiente per coprire i fabbisogni fondamentali di un individuo che vive da solo. Versategliela sia che lavori o non lavori, sia se è ricco che se è povero, che abiti solo, con la sua famiglia, in concubinato o in comunità, che in passato abbia lavorato oppure no. Adeguate la somma versata solamente in funzione dell’età o del (eventuale) grado di invalidità. E finanziate il tutto con un’imposta progressiva sugli altri redditi di ogni individuo.
Il reddito di cittadinanza viene dunque presentato in opposizione sia alla sicurezza sociale che alla legislazione sul lavoro e sulla scolarità: “Parallelamente, deregolamentate il mercato del lavoro. Abolite ogni legislazione che imponga un salario minimo o una durata massima del lavoro. Eliminate tutti gli ostacoli amministrativi alla possibilità di lavoro a tempo parziale. Abbassate l’età della scuola dell’obbligo. Sopprimete l’obbligo di pensionamento ad una età determinata. Fate tutto questo ed osservate cosa succede. Soprattutto chiedetevi come si trasformerà il lavoro, il suo contenuto e le sue tecniche, e come saranno le relazioni umane.”
Questo concetto radicale è stato progressivamente modificato in uno più moderato in cui il reddito di cittadinanza si presenta come un complemento, e non più un’alternativa allo Stato sociale. Se non altro i suoi fondatori hanno il merito di dimostrare chiaramente come questi due sistemi seguano logiche radicalmente opposte per quanto riguarda l’impiego. Alaluf lo spiega: “se un reddito versato ad ognuno deve facilitare l’accettazione di lavori poco remunerati e di lavori occasionali, temporanei e a tempo parziale, i minimi sociali permettono di rifiutare lavori poco remunerati, e a condizioni di lavoro giudicate inaccettabili”.
Ma, l’universalizzazione dei diritti sociali si concretizza con la creazione di una sicurezza sociale in ambiti come la sanità, gli infortuni, la disoccupazione, l’invalidità, il pensionamento, la scolarità, ecc. Si tratta così di “demonetizzare” la relazione salariale attraverso, da un lato, la ripartizione nella società dei costi di queste prestazioni, e dall’altro diminuire per i lavoratori la necessità di accantonare una parte del loro salario per poter accedere a queste prestazioni in caso di necessità. “Il salario potrebbe quindi socializzarsi, nel senso che il “salario diretto” del salariato non costituirebbe che una parte della remunerazione del suo lavoro, “il salario indiretto” (contributi sociali), finanziando le prestazioni sociali e i beni collettivi assicura la sua sicurezza sociale”.
La presenza dell’idea di reddito di cittadinanza corrisponde a un periodo storico contrassegnato da trasformazioni profonde del capitalismo: tecniche (nascita delle nuove tecnologie e diffusione della conoscenza), sociali (destrutturazione della classe operaia ed abbassamento della conflittualità da parte dei movimenti sociali) ed economiche (sviluppo del settore dei servizi). Tutto ciò farebbe credere alla fine della centralità del lavoro salariato nella società. I rapporti sociali non si baserebbero più sul lavoro degli individui, cioè sull’obbligo di vendere la forza lavoro e ricavarne un salario per una sua riproduzione in quanto classe sociale.
Alaluf richiama questo dibattito confrontando le tesi di André Gorz e Robert Castel sul ruolo della sfera autonoma del lavoro (e cioè al di fuori del lavoro) in un processo di emancipazione sociale. Non derivando più dal lavoro, il valore troverebbe origine al di fuori del sistema produttivo. La conclusione di questo ragionamento consiste nel considerare attuale ogni tipo di riduzione collettiva del tempo di lavoro – rivendicazione storica del movimento operaio con tutte le lotte affini – e che solamente una un’allocazione universale permetta di migliorare le condizioni degli individui in questa società.
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La critica rivolta ai promotori del reddito di cittadinanza è quella di considerare il reddito di cittadinanza “solamente per quello che vale, al di fuori dei rapporti sociali che gli darebbero un senso”. Rompe così con l’idea secondo cui il lavoro rimane centrale nella società, come sorgente di valore nella tradizione dell’economia politica classica.
Di conseguenza, se la concessione di un reddito di cittadinanza sarà possibile solamente derivando dalla ricchezza prodotta dal lavoro stesso, i lavoratori non sarebbero in nessun modo liberati dall’obbligo di vendere la loro forza lavoro per assicurare il mantenimento della loro esistenza. Ogni cosa cambierà con il reddito di cittadinanza. L’obbligo di vendere la forza lavoro avrà sì condizioni nuove, ma sfavorevoli ai lavoratori.
Il reddito di cittadinanza viene presentato oggi come la risposta alla crisi che a partire dagli anni ’70 investe la sicurezza sociale. Le controriforme liberali, iniziate nei paesi europei in quegli anni, continuano ancora oggi; lo dimostrano le misure di austerità imposte dalla destra, ovunque in Europa, fin dalla crisi del 2008. Alaluf ritiene che invece di rimediare allo smantellamento della sicurezza sociale, il reddito di cittadinanza non farà che accelerare questo processo. Con le conseguenze che seguono:
- l’abbandono del diritto sociale (sicurezza sociale conseguente alla partecipazione di tutti al lavoro necessario) a favore del diritto civile (protezione di ciò che uno fa nella sua vita sociale, e quindi della proprietà privata), perché l’accesso all’insieme delle prestazioni della sicurezza sociale potrà essere purtroppo mediato dal reddito di cittadinanza
il sovvenzionamento dei lavori pagati al di sotto del “minimo sociale”, perché agli occhi dei datori di lavoro non sarà più giustificato un salario che permetta di assicurare l’intero mantenimento del lavoratore, poiché oltre al salario disporrà di un reddito di cittadinanza.
l’isolamento di ogni lavoratore a scapito delle solidarietà collettive e la distruzione dei meccanismi di contrattazione collettiva (tra cui i sindacati, il diritto di sciopero, ecc. che hanno un ruolo importante nella mobilitazione dei lavoratori). Ogni salariato sarà portato a negoziare individualmente le condizioni di un lavoro “complementare” al reddito di cittadinanza.
Non sorprende dunque che il reddito di cittadinanza trovi consenso in certi ambiti ultra-liberali. Alaluf dimostra come i meccanismi del reddito di cittadinanza, la cui logica si oppone radicalmente a quella della sicurezza sociale, potranno essere usati come macchina da guerra contro i lavoratori, con lo scopo di aumentare lo smantellamento dello Stato sociale e di deregolare massicciamente il mercato del lavoro. Solamente l’appropriazione del lavoro e il suo controllo attraverso scelte democratiche saranno in grado di garantire ai lavoratori i mezzi per emanciparsi nel rapporto salariale.


A ERBUSCO PERDE IL PADRONE

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http://popoffquotidiano.it/2016/06/02/davide-ribatte-golia-cosi-in-franciacorta-si-stoppa-un-centro-commerciale/
da
In Franciacorta un imprenditore fa di tutto per ampliare il centro commerciale. Compreso “invitare” i dipendenti a votare pensando al “Vostro posto e al futuro delle Vostre famiglie”. Ma ha perso il referendum
da Brescia, Eugenia Foddai
E’ possibile che i cittadini riescano a bloccare una speculazione che avrebbe sconvolto il territorio in cui vivono? E’ successo a Erbusco, in provincia di Brescia, dove un ricco imprenditore Vittorio Moretti ha deciso che conveniva a tutti l’ampliamento del centro commerciale Porte Franche di sua proprietà, e la riapertura della ex cava Noce di Zocco di Erbusco. Il progetto comprendeva 38 mila metri quadrati tra negozi, servizi e 850 parcheggi sotterranei ricavati nella collina che fronteggia l’attuale centro commerciale, l’asportazione di 100 mila metri cubi di svuotamento della collina stessa sarebbe stato risolto col riempimento della cava che per il 30% è anch’essa di sua proprietà, dando così inizio alla riapertura della discarica che era stata bloccata dopo un lungo presidio da un agguerrito comitato nel 2007/2008.Il signor Moretti pensava di prender due piccioni con una fava, la fava era la consultazione popolare. Se avesse vinto il SÌ, come tutto faceva presagire, il centro commerciale sarebbe stato ampliato e la cava sarebbe stata riaperta e col pretesto del riempimento del 30% l’amministrazione comunale aveva già scritto nero su bianco la riqualificazione “ambientale” del restante 70% con terra da scavo.
Ma chi è Vittorio Moretti? E come e perché può fare il bello e cattivo tempo nel comune di Erbusco? Quali i legami tra lui e il sindaco?
Il Vittorio si delizia delle tre V, la sua, e quelle di Feltri e Sgarbi: è in buona compagnia! Nelle interviste ci regala la solita panzana dell’imprenditore che si è fatto tutto da solo, cominciando come muratore, che già all’età di 27 anni ha fondato la sua prima impresa edile puntando tutto sul prefabbricato, dedicandosi poi ai vini, alle cantine, ai cantieri navali e via di seguito. L’elenco dei suoi interessi economici porterebbe via troppo spazio. Oggi è presidente del consorzio vini della Franciacorta e, per promuovere la sua immagine di ambientalista, la figlia Valentina ha ricordato alla popolazione franciacortina, in una delle assemblee per la presentazione del progetto, i gioielli di famiglia: la ristrutturazione dell’Albereta Relais & Chateaux, un resort a 5 stelle tra i più belli d’Italia, il Franciacorta Golf Club e il suo rapporto col mondo della ristorazione che gli ha permesso di portare in Franciacorta il famoso cuoco Gualtiero Marchesi: tutta roba per super ricchi!
Per il piano di recupero e la direzione dei lavori all’Albereta e per il progetto delle residenze nell’area del Golf Club, Moretti si è avvalso, guarda caso, dello studio Architetti Associati di cui fa parte Ilario Cavalleri, ora sindaco di Erbusco, eletto nel 2014 con una lista civica “Erbusco Futura”, tra i suoi assessori troviamo, ancora guarda caso, Luca Moretti con delega ai Lavori Pubblici, Patrimonio e Protezione Civile, nipote di Vittorio.
All’infausto progetto di ampliamento del centro commerciale Porte Franche e alla riapertura della ex cava Noce di Zocco di Erbusco, si è subito opposto un fronte eterogeneo e trasversale di militanti, attivisti, ma anche gente comune e giovani alle prime esperienze di lotta, che comprende il Comitato di tutela ambientale di Villa Pedergnano, la lista civica dell’ex sindaco Isabella Nodari, Legambiente, M5S, Lega Nord, Pd, Prc, Confcommercio e non ultimo il Centro Sociale 28 maggio di Rovato. Tutti insieme nel Comitato del NO a questo progetto che, fra le tante criticità, mette in pericolo la falda acquifera sotto la cava che dà da bere a 75 mila persone. Già nel 2003 i comuni di Cologne, Coccaglio, Chiari, Rovato, Pontoglio, Cazzago San Martino e Palazzolo sull’Oglio confinanti o limitrofi alla cava stessa avevano espresso ferma contrarietà alla realizzazione della discarica. Praticamente ogni due per tre c’è qualcuno che cerca di riaprirla!
Eppure Moretti e i suoi erano sicuri di vincere. Ecco perché si sono sbilanciati con una consultazione in linea con la democrazia partecipativa. Non per niente nel verbale di deliberazione del consiglio comunale n. 20 del 1 aprile 2016 si legge che la Società Moretti S.p.A., si dichiara disponibile a prendersi carico di tutte le spese relative alla consultazione, consistenti nella spedizione alle famiglie del Comune del materiale illustrativo ed informativo relativo al quesito oggetto di consultazione. A questo proposito Moretti ha pagato delle giovani distributrici che in giro per il paese e nel centro commerciale hanno fatto propaganda per il SÌ, ha fatto stampare magliette e opuscoli vari, comprato pagine di giornali, promesso 80/100 posti di lavoro, e dulcis in fundo, cosa di una gravità inaudita, come un vero e proprio padrone delle ferriere, ha inviato una lettera “A tutti i Dipendenti e Collaboratori delle Aziende del Gruppo Terra Moretti”, e dopo aver ricordato che il Gruppo non ha mai fatto un’ora di cassa integrazione, garantendo sempre lavoro e stipendio a tutte le famiglie (a suo dire 2000 persone fra dipendenti e indotto), nonostante la crisi, chiede un gesto di responsabilità e di impegno verso il Gruppo stesso, ma prima ancora (testuali parole) verso il “Vostro posto di lavoro e il futuro delle Vostre famiglie” ribadendo che è fondamentale andare a votare SÌ con famiglia, amici e conoscenti.
L’ingerenza di Moretti non arretra davanti a nulla e per valorizzare il suo progetto chiede una variante urbanistica che trasformi in edificabile un’area agricola di 14.125 metri quadrati di fronte al centro commerciale Porte Franche, prevedendo in compensazione la sua parte di proprietà dell’ex cava Noce quando fosse riempita e in aggiunta un’area di 19.685 metri quadrati della casa di riposo “Valotti” che verrebbe indennizzata; il tutto intervenendo direttamente sulla viabilità pubblica, e promettendo, per rendere meno amara la pillola, piste ciclabili, parcheggi pubblici, verde pubblico, e un versamento di 3 milioni di euro di oneri al comune da utilizzare per una serie di opere pubbliche … tutto questo “pubblico” ad opera di un “privato” lascia sconcertati e non vorremmo mai che “Erbusco Futura” pensasse di poter mettere il “futuro di Erbusco” nelle tasche di Moretti …
Nonostante il peso economico del suo impero alla consultazione di domenica 29 maggio 2016 nel comune di Erbusco il 53,94 %, sul 45,66% degli aventi diritto, ha detto NO al progetto di ampliamento del centro commerciale Porte Franche, e conseguente riapertura della ex cava Noce, che dunque non sarà inserito nella variante del PGT; nella speranza che il Sindaco mantenga le promesse fatte Urbi et Orbi.
In una provincia, quella bresciana, dove i centri commerciali si cannibalizzano a forza di colate di cemento, distruzione di territorio e posti di lavoro, è stata sconfitta la politica degli interessi privati a scapito degli interessi pubblici, o comuni che dir si voglia. Il futuro della Franciacorta non può che essere ecocompatibile, prioritari sono il benessere e la salute dei suoi abitanti che patiscono, nonostante le dolci colline, un tasso di malattie cancerogene molto più elevato della media nazionale, colpa dei prodotti che vengono utilizzati per la viticoltura drogata dalla chimica di sintesi.
La comunità di Erbusco aveva una responsabilità che andava al di là dei suoi confini, fortunatamente per tutto il territorio franciacortino la gestione in proprio di una questione sovra comunale è stata sanzionata dal voto: con questo NO Erbusco ha resistito al ricatto di un padrone che per i suoi interessi non guarda in faccia a nessuno, e dato sostanza alla nostra speranza che Davide possa infine vincere Golia. Alle tre V di cui va fiero Vittorio Moretti, ora ne aggiungiamo un’altra noi, la V di VITTORIA, finalmente la nostra! ( almeno per ora …)




ROSARNO, LA TENSIONE SALE...

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da http://popoffquotidiano.it/2016/06/09/rosarno-sale-la-tensione-nella-tendopoli-migranti-in-strada/

Già da ieri sera le centinaia di immigrati che popolano l’accampamento hanno reagito con rabbia all’omicidio di uno di loro da parte di un carabiniere. La procura: “Legittima difesa del militare”

SAN FERDINANDO (Reggio Calabria) – E’ in corso dalle prime ore di oggi una protesta nella tendopoli di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, dove ieri è morto Sekine Traore, un giovane maliano ucciso da un carabiniere nel corso di una lite. Già da ieri sera le centinaia di immigrati che popolano l’accampamento hanno reagito con rabbia e indignazione alla morte di Traore che, come tutti gli altri, era un lavoratore stagionale emigrato in Italia nella speranza di un futuro migliore per se stesso e per la sua famiglia. Allo sconcerto ed al dolore sopravvenuto alla notizia della morte del giovane Traore è subentrata l’amarezza degli africani della tendopoli: “Perché gli hanno sparato? Erano in tanti tra poliziotti e carabinieri, perché non lo hanno bloccato? Lui li aveva aggrediti, ma loro non avevano altra scelta che sparargli addosso? Noi sono siamo animali”. Queste le domande che gli immigrati si stanno ponendo, manifestando anche per le vie della cittadina della piana di Gioia Tauro. Intanto il procuratore della Repubblica di Palmi, Ottavio Sferlazza, ha dichiarato che il carabiniere che ha ferito mortalmente l’immigrato “dovrà essere iscritto nel registro degli indagati come atto dovuto ma che, il quadro che si delinea – ha sottolineato il magistrato – è di una legittima difesa da parte del militare”.
Finisce in piazza la protesta per la morte di Traore
Migranti. San Ferdinando 1
La protesta in corso da stamane alla tendopoli è animata dai cori e dai cartelli dei lavoratori con su scritto “Italia razzista”. “Non siamo qui per fare la guerra o per fare casini, siamo qui per lavorare e per mangiare. I carabinieri devono venire per mettere pace e non per uccidere” – stanno urlando gli immigrati – “Quello che è accaduto ieri non è giusto. E vogliamo che tutta l’Italia e tutta l’Europa lo sappiano”. Una delegazione di lavoratori è stata convocata dal commissario prefettizio che regge il comune di San Ferdinando, commissariato dal 2014.
Nella tendopoli sono state ulteriormente rafforzate le misure di vigilanza e sicurezza, l’area infatti è presidiata da decine di poliziotti. Una decisione presa, ieri sera, nel corso di una riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica convocata dal prefetto di Reggio Calabria, Claudio Sammartino, dopo la lite sfociata in tragedia Per stasera, lo stesso prefetto Sammmartino ha convocato un’altra riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica alla quale sono stati invitati a partecipare il presidente della regione Calabria, il sindaco di Rosarno ed il commissario del comune di San Ferdinando. 
Gli immigrati protestano davanti al municipio di San Ferdinando
Migranti. San Ferdinando 2
Il sindaco di Rosarno Giuseppe Idà, eletto domenica scorsa, su quanto avvenuto all’accampamento afferma: “Sulla dinamiche dell’accaduto non mi esprimo, ci saranno delle indagini che accerteranno quanto è realmente successo. Però ho il dovere di porre il tema dei migranti ospiti nelle tendopoli di Rosarno e San Ferdinando. Nella campagna elettorale appena conclusa, ho ripetuto più volte che accogliere non significa ammassare in campi abbandonati centinaia di persone.
Migranti. San Ferdinando 3
Non è dignitoso per loro, che vengono in Italia in cerca di un futuro migliore, né per la comunità che li ospita. Questa non è ospitalità e a Rosarno, in alcuni periodi dell’anno, siamo al collasso”. Idà aggiunge: “ Le conseguenze di tutto ciò sono sotto gli occhi di tutti. Il problema è nazionale e noi, da soli, non ce la facciamo. Abbiamo bisogno dell’intervento della Prefettura, del ministro dell’Interno, del governo nazionale affinché Rosarno non sia più considerato uno sgabuzzino dove ammassare la povera gente che scappa dal proprio Paese. Agli agenti intervenuti per sedare la lite va la mia totale solidarietà e li ringrazio per il lavoro che svolgono ogni giorno”. (msc)
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WEEK END MAGAZINE

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IL PORTO SEPOLTO




Mariano, 29 giugno 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto
(Giuseppe Ungaretti)

LA BANALIZZAZIONE DEL MALE

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da http://ilmanifesto.info/mein-kampf-giornale-la-banalizzazione-del-male/




Nel 1949 uno studioso francese diede alle stampe Les grandes ouvres politiques. De Machiavel à nos jours, un manuale che presentava 15 opere, la prima delle quali era Il Principe machiavelliano, l’ultima, Mein Kampf di Adolf Hitler. Una scelta singolare, che appariva ancora più bislacca, nel titolo della edizione italiana, Le grandi opere del pensiero politico.
Eppure quel libro, adottato in molti corsi universitari, fino a pochi anni or sono, anche per la sua relativa semplicità espositiva, ebbe enorme circolazione.
Certo, ancor prima di soffermarsi sul contenuto, era a dir poco discutibile che tra le «grandi opere», si inserisse un testo farraginoso, confuso, privo di qualsiasi coerenza espositiva, e anche di originalità.
L’autore, che lo vergò nella breve detenzione, dopo il fallito colpo di Monaco nel novembre ’23, non faceva che rimasticare teorie razziste diffuse in Europa dal tardo Ottocento, mescolandole a ricordi autobiografici, e a bizzarre «folgorazioni», come quella che nasceva dalla constatazione della ebraicità di Karl Marx, e dunque il bolscevismo marxista, era una sola cosa con l’ebraismo, colpendo l’uno si colpiva l’altro…
Un testo che, anche dopo che fu aggiustato a fini editoriali, appare di disarmante rozzezza, ma pieno di tossine velenose.
Un campionario di scemenze rivestite, talora, di «scienza», talaltra semplicemente condite in intingolo politico che raccoglie i risentimenti di classi medie e classi popolari frustrate, economicamente e psicologicamente, dalla sconfitta della Germania.
Il libro fu il vademecum nazista e fu imposto ovunque nel Terzo Reich, con milioni di copie diffuse, e spesso vendute, con relative royalties incassate dall’autore. Poi venne la damnatio del Secondo dopoguerra, anche se l’opera ha continuato a circolare un po’ ovunque, in circuiti semiclandestini o, in molti paesi, liberamente.
Della «Mia battaglia» (ecco il significato dello stentoreo titolo tedesco), sono in circolazione diverse edizioni italiane. Da poco, essendo scaduti i diritti (70 anni dalla morte dell’autore), detenuti dal Land della Baviera, è stato annunciato un ritorno del testo originale negli scaffali in Germania (dove era vietato), e, anche altrove, grazie a un’edizione critica, che si annuncia filologicamente ineccepibile.
L’annuncio aveva suscitato immediato dibattito, sia pure di alto livello, mentre davanti all’attuale distribuzione dell’opera hitleriana con il Giornale le polemiche appaiono di basso profilo.
Si tratta innanzitutto di un’operazione commerciale (le copie del quotidiano a metà mattina erano esaurite nelle edicole da me battute…); anche se il significato politico-culturale è fuori discussione, i commenti di dirigenti del Pd che hanno denunciato l’ azione «elettoralistica» di Sallusti & C., per far votare i candidati «estremisti» contro quelli del partito renziano suonano grotteschi.
Se perderanno, sarà dunque colpa di Hitler?
Qualcuno tra costoro non ha mancato di evocare lo spettro penale: sorvegliare e punire, insomma.
Precisato che, a differenza di quanto è stato detto alla vigilia, il libro non era «omaggio» ma a pagamento, inquieta comunque che un quotidiano si sia preso la briga di inaugurare una collana editoriale con siffatta perla.
Personalmente, forse anche sulla base della mia professione di studioso di idee politiche, ritengo ovvio che si possa leggere Hitler; ma non come gadget di un quotidiano di informazione; che al Giornale se la cavino asserendo che il loro retropensiero sarebbe attivare i controveleni rispetto al nazifascismo fa sorridere.
Perché quel giornale, non certo da solo, da anni alimenta razzismo e intolleranza, diffidenza o addirittura odio per lo straniero: e fa specie dunque, che quel giornale (che del revisionismo storico ha fatto una linea di condotta, contribuendo a «normalizzare» il fascismo) distribuisca oggi un testo che se la prende, guarda caso, con «gli sporchi stranieri». E l’ebreo, era per Hitler, il più sporco degli «stranieri», e andava eliminato, in un modo o nell’altro.
Auschwitz è in nuce in quel testo.
Siamo ora giunti a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della «banalità del male», alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione.

QUANDO IL CAPITALISMO HA LA PISTOLA FACILE...

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da http://popoffquotidiano.it/2016/06/13/strage-orlando-quando-il-capitalismo-ha-la-pistola-facile/

Negli Stati Uniti ci sono 270 milioni di armi in circolazione, 89 armi ogni cento abitanti: secondo uno studio di Archivio disarmo, la media giornaliera è di 30 vittime al giorno, la maggior parte sono giovani tra i 18 e i 35 anni.

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ROMA – 270 milioni di armi in circolazione, 89 ogni 100 abitanti. Il giorno dopo la terribile sparatoria nel club Pulse di Orlando, in Florida, dove hanno perso la vita 50 persone (e altre 50 sono ferite) si torna a riflettere sulla questione della armi leggere negli Usa. La strage è avvenuta, infatti, a pochi giorni di distanza dall’omicidio della ventiduenne cantante Christina Grimmie, star di YouTube, sempre a Orlando, e dall’arresto di James Howell, carico di armi ed esplosivi, a Santa Monica. Anche se non sembra ci sia alcun collegamento tra i diversi episodi (l’omicida di Orlando è Omar Mateen,e la sparatoria è stata rivendicata dal gruppo Stato islamico sulla radio Al Bayan) di certo si riapre il dibattito sul possesso di armi nel paese.
“C’è un dato comune in queste storie che, però, non viene messo sufficientemente in rilievo – sottolinea Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio Disarmo – la  disponibilità e la facilità con cui armi piccole e leggere anche da guerra sono reperibili sul territorio nordamericano. Gli Usa sono tra i paesi la cui popolazione è tra la più armata al mondo: vi sarebbero ben 89 armi ogni 100 abitanti su un totale di 270 milioni di armi in circolazione nel paese. Di fatto, è oltre il 40 per cento maggiore rispetto a quello che si ha in Yemen, secondo solo agli Stati Uniti con 54,8 armi da fuoco ogni 100 abitanti. Il mercato americano è il maggiore in assoluto, quello dove anche i narcotrafficanti latinoamericani si riforniscono oltrepassando la frontiera messicana in uno scambio di droga con armi”.
Secondo uno studio realizzato da Archivio Disarmo sull’ utilizzo delle armi leggere in America negli Stati Uniti ogni anno oltre30.000 persone rimangono uccise dalle armi da fuoco. La media giornaliera è di 30 vittime e la metà di loro sono giovani, di età compresa tra i 18 e i 35 anni; un terzo sono giovanissimi (sotto i 20 anni). L’omicidio in America è, infatti, la seconda causa di morte tra i giovani con età compresa tra i 15 e i 24 anni. Per gli afroamericani di quella stessa fascia di età si tratta addirittura della prima causa di morte. “Sono dati drammatici se li paragoniamo a quelli degli altri paesi sviluppati – continua Archivio Disarmo -. Basti pensare che gli omicidi con armi da fuoco sono in media 50 in Giappone, meno di 150 in Germania, Italia e Francia, meno di 200 in Canada e oltre 10.000 negli Stati Uniti”.  Secondo le stime del Gun Violence Archive il 23 dicembre 2015 si potevano contare ben 12.942 persone uccise negli Stati Uniti in seguito a un omicidio, a spari non intenzionali o adun suicidio, in tutti i casi con armi da fuoco ma secondo Archivio Disarmo questa stima non tiene conto della maggior parte dei suicidi con arma da fuoco, (cifra che si aggira intorno alle 20mila persone). Nella sua analisi l’ong cita anche uno studio molto approfondito effettuato dal professor Michael Siegel delle Boston University che, insieme a due coautori, ha rilevato come esista una diretta correlazione positiva tra diffusione di armi e numero di omicidi perpetrati con armi. Lo studio in questione ha analizzato una serie di dati sugli omicidi con armi da fuoco per tutti i 50 Stati americani dal 1981 al 2010 cercando di vedere se vi fosse una relazione tra cambiamenti nel tasso di possesso di armi e il numero di uccisioni con armi. Il risultato emerso dimostra che “ogni 1 per cento di incremento nella proporzione di possesso domestico di armi da fuoco” si è tradotto in un incremento dello 0,9 per cento nel tasso di omicidi.
Per quanto riguarda le “sparatorie di massa” (“mass shootings” da intendersi – secondo la definizione dell’Fbi come l’evento durante il quale quattro o più persone sono colpite e/o uccise da armi da fuoco in un singolo episodio alla stessa ora e nello stesso luogo, escluso il tiratore) si sono verificate in circa 100 aree metropolitane nel 2015.“Il dibattito ora apertosi se i singoli episodi siano ascrivibili al terrorismo, all’omofobia, all’emarginazione sociale o alla follia appare tralasciare il quadro generale nell’ambito del quale la diffusione delle armi piccole e leggere solo nel 2015 ha provocato oltre 12.000 vittime e mass shooting in circa 100 aree metropolitane – conclude Simoncelli -. Ancora una volta si assiste a ennesimi massacri in un paese dove sembra che l’unica risposta possibile sia quella di armarsi sempre più alla ricerca di una sicurezzache questi arsenali non sembrano garantire”. (ec)
© Copyright Redattore Sociale

LOI TRAVAIL, LA LOTTA CONTINUA

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da  http://ilmanifesto.info/maxi-corteo-e-muro-contro-muro-governo-cgt/

Francia . La mobilitazione contro la Loi Travail non demorde. Venerdì incontro tra Martinez (Cgt) e la ministra del Lavoro. Tensioni e incidenti alla manifestazione parigina




Philippe Martinez, segretario Cgt, arriverà venerdì all’appuntamento con la ministra del Lavoro, Myriam El Khomri, forte dell’«enorme» partecipazione alla manifestazione nazionale a Parigi, nona giornata di protesta dall’inizio della contestazione della Loi Travail, nel marzo scorso: 5 km di corteo, un milione di persone, al di là delle aspettative, secondo i sindacati (80mila per la polizia), con cortei anche in provincia, un mare di bandiere rosse della Cgt e di Fo.
La richiesta è «il ritiro» della legge, anche se negli ultimi giorni Martinez sembrava disposto a discutere i cinque punti più controversi (l’inversione della gerarchia delle norme, con la priorità ai contratti aziendali su quelli di categoria, i licenziamenti economici, le derogazioni, i referendum di impresa e la limitazione della medicina del lavoro). Ma adesso Martinez afferma: «la palla è nel campo del governo, devono ascoltare l’opinione pubblica e i lavoratori, chi cerca di speculare sull’indebolimento del movimento ha oggi la risposta, è lungi dall’esaurirsi», anche se gli scioperi diminuiscono.
Il corteo era determinato a chiedere la testa della Loi Travail. E al tempo stesso molto nervoso, ormai la contestazione è entrata nel quarto mese di protesta e la rabbia cresce di fronte a un governo che afferma di aver già concesso il possibile.
Il binomio forte presenza della polizia/casseurs ha funzionato a fondo, peggio del solito: ci sono stati scontri, con gas lacrimogeni, granate di dispersione, cannoni ad acqua (una novità), vetrine e pensiline degli autobus spaccati, rotti anche i vetri dell’ospedale pediatrico Necker, auto rovesciate, asfalto divelto, manifestanti bloccati nel corteo dai poliziotti, senza possibilità di uscire.
Il bilancio è di 42 fermi, 11 manifestanti e una ventina di poliziotti feriti. Gli scontri sono durati a lungo, il corteo è stato spaccato in due, diviso da un muro insuperabile di poliziotti, con i sindacalisti che non potevano più andare avanti, bloccati dalla battaglia di strada tra più di un centinaio di casseurs determinati e gli agenti Robocop.
Gli street medics sono intervenuti, in un primo tempo all’angolo tra boulevard Raspail e Montparnasse, per due persone a terra. Molti fumogeni sono stati tirati dai sindacati, in un corteo estremamente rumoroso, stretto dalle barriere della polizia, che hanno chiuso le vie laterali.
Al corteo era anche rappresentata la Cgt polizia, alcuni agenti con un cartello: «poliziotto contro le violenze dello stato», che ai Gobelins si sono piazzati proprio di fronte al muro di poliziotti in stato anti-sommossa.
Nel corteo, lo slogan dell’ala violenta – «tutti detestano la polizia» – è stato ripreso e corretto in: «tutti detestano la Loi Travail».
Lo scontro con il governo è totale: il corteo ha chiesto le «dimissioni generali», le «due sinistre» di cui parla il primo ministro Valls non hanno più nulla da dirsi. Ma intanto il testo della Loi Travail è in discussione al Senato, dove c’è una maggioranza di destra, che ne sta modificando i contenuti, tornando grosso modo alla prima versione, quella più liberista.
Un’illustrazione di quello che succederà tra un anno, dopo la vittoria annunciata della destra.
Le manifestazioni continuano, il 23 giugno, giorno del voto al Senato e poi ancora a fine mese, quando la legge tornerà all’Assemblée.
Qui, a luglio, il governo potrebbe essere di nuovo costretto a far passare il testo controverso con il ricorso al 49.3, cioè senza voto, visto che ha perso la propria maggioranza con la contestazione della «fronda» socialista (che questa volta potrebbe addirittura riuscire a raccogliere le 58 firme necessarie per presentare una «mozione di censura» diversa da quella della destra). Come dire che anche luglio rischia di essere caldo dal punto di vista sociale.
Nel frattempo, ci sono altri ostacoli da superare: a cominciare dalle trattative tra sindacati e padronato sulla disoccupazione, dove le tensioni aumentano e le norme per gli intermittenti dello spettacolo. «C’è malessere nel paese, una profonda difficoltà economica e sociale, viviamo mutazioni che nessuno ha spiegato», riflette Laurent Berger, segretario della Cfdt, che ha contribuito alla redazione dell’ultima versione della Loi Travail. Ma, aggiunge, «sia che ci si arrocchi o che si critichi il Codice del lavoro, bisogna farlo evolvere perché resti protettore di fronte ai cambiamenti del lavoro».
Ma oggi, c’è «l’isteria al posto del dialogo», da una parte e dall’altra, compreso il padronato, che chiede una liberalizzazione totale.
Pierre Gattaz, presidente del Medef (padronato) parla di comportamento «nauseabondo» della Cgt, con «incitazione inaccettabile alla violenza fisica». Si appella al governo perché «riprenda la mano» e «faccia rispettare lo stato di diritto contro tutte le derive». Per Gattaz, del resto, la Loi Travail trasformata ormai è una «legge inutile».

LE PENSIONI IN PRESTITO, ANZI IN STROZZINAGGIO

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da http://popoffquotidiano.it/2016/06/15/vi-spiego-perche-renzi-ci-mandera-in-pensione-prima-ma-indebitati/

Si potrà andare in pensione prima ma sottoscrivendo un mutuo ventennale con le banche. Una trovata di Renzi che Cgil, Cisl e Uil trovano «interessante».

di Giorgio Cremaschi
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Solo la libidine di servilismo da cui sono soggiogati i gruppi dirigenti di CGIL,CISL, UIL può aver fatto sì che questi considerassero interessante il progetto del governo sul prestito bancario ventennale, necessario per poter andare in pensione un po’ prima. Del resto il confronto con la Francia mostra ogni giorno come i grandi sindacati confederali in Italia siano parte del disastro che è precipitato addosso al mondo del lavoro, cioè siano tra i problemi e non tra le soluzioni.
La sola cosa giusta e ragionevole da fare sarebbe quella di riabbassare l’età pensionabile dai livelli iniqui cui l’ha elevata la legge Fornero. Ma siccome il governo si è impegnato con la Troika a non toccare quella legge, ecco allora il coniglio che salta fuori dal cappello: il mutuo per la pensione.
Il governo propone che un lavoratore di 63/64 anni possa andare in pensione prima dei 67/68 imposti dalla legge Fornero, facendo un prestito in banca. Cioè la banca, a chi dovesse lasciare il lavoro prima, pagherebbe una simil pensione per i tre quattro anni mancanti rispetto alla scadenza effettiva della quiescenza. Il pensionato restituirebbe poi la somma dovuta con un mutuo ventennale. Quindi un lavoratore che normalmente ha già il reddito gravato dal mutuo per la casa e per altre spese fondamentali, dovrebbe indebitarsi in vecchiaia per altri venti anni, cioè finirebbe per non prendere mai la pensione che ha maturato, a meno che non si avvicinasse alla soglia dei 90 anni di età. Inoltre, se sfortunatamente dovesse morire prima del dovuto, lascerebbe al coniuge e agli eredi un debito in più. I mutui non si estinguono per la scomparsa del soggetto titolare.
Il governo ha fatto capire che potrebbe venire incontro ai pensionati più poveri o più in difficoltà, aiutandoli o sul capitale o sugli interessi. Ma in realtà questi soldi pubblici andrebbero come compensazione alle banche, che sarebbero comunque le prime beneficiarie di tutta la mostruosa operazione.
Io non credo che un pensionato in buona salute e sano di mente, di questi tempi sia interessato a indebitare così sé stesso e la propria famiglia per quasi un quarto di secolo. Penso però che il progetto del governo sia stato realizzato per tre precisi scopi.
Il primo è quello di venire incontro alla Confindustria, che pur essendo stata una tifosa sfegatata della legge Fornero, sa bene quanto essa sia difficilmente applicabile nelle sue imprese. Che vogliono liberarsi il prima possibile dei lavoratori più anziani, anche per sostituirli con assunzioni senza articolo 18, sottopagate e finanziate dallo stato. Finora le aziende che volevano “svecchiare” dovevano ricorrere alla crisi aziendale, usare la cassa integrazione o la mobilità, e magari spendere di tasca propria incentivi ai dipendenti, perché si dimettessero prima della pensione. Ora, agevolate anche dalla liberalizzazione dei licenziamenti economici realizzata sia da Monti che da Renzi, le imprese potranno spingere i dipendenti anziani ad andarsene prima della pensione, e costringerli ad instaurare il famigerato mutuo, risparmiando sugli incentivi. A questo esodo non sono interessate solo le aziende industriali ma tutte le imprese a partire proprio dalle banche, che hanno annunciato decine di migliaia di esuberi per i prossimi anni. Possiamo allora immaginare l’azienda di credito che caccia il suo stesso dipendente anziano dal posto di lavoro, mentre poi lo lega ancora a sé con il mutuo aperto ai suoi sportelli…Quante consulenze farlocche si preparano!
Il secondo scopo del governo è quello di addossare al lavoratore stesso i costi del suo logoramento psicofisico. Infatti, se non spinto dalla azienda, chi potrebbe comunque essere costretto ad indebitarsi pur di uscire dal lavoro? Chi non ce la fa più, chi fisicamente o psicologicamente sia così logorato dalla propria mansione, da essere disposto anche a rischiare la rovina economica pur di essere fuori dal lavoro. Gli operai , i macchinisti dei treni, gli infermieri, i tanti sottoposti a vecchie e nuove fatiche e, soprattutto, le donne a cui tocchi il carico doppio del lavoro duro e della cura familiare. A queste lavoratrici e questi lavoratori una volta i governi promettevano la pensione anticipata per il lavoro usurante, cioè lo stato giustamente avrebbe dovuto farsi carico del danno subito per la durezza del lavoro. Ora invece i lavoratori questo danno se lo pagherebbero di tasca propria, indebitandosi con le banche. Da lavoratori usurati a pensionati sotto usura.
Infine il terzo scopo del governo è ovvio: aprire al sistema bancario una nuova prateria per i profitti. Che non sono solo quelli preannunciati dai prestiti, ma anche quelli attesi dall’ingresso in pompa magna del sistema bancario nella previdenza pubblica.
Questo, secondo me, è lo scopo di fondo della operazione: avviare la privatizzazione del sistema pensionistico pubblico, affidando sempre di più la pensione al sistema bancario, assicurativo e finanziario. CGIL,CISL, UIL sono poco sensibili oramai su questo tema, perché sempre più coinvolte nei fondi pensionistici e sanitari integrativi. Però qui si avvia un salto di qualità: la trasformazione della pensione da diritto sociale a investimento di capitale. Una volta entrate nel sistema pensionistico pubblico, ci penseranno le banche stesse ad allargare lo spazio che viene loro così generosamente offerto dal governo. All’interno del quale riscuote sempre più credito il modello pensionistico cileno. Cioè il sistema imposto, su decine di migliaia di cadaveri, dal dittatore Pinochet. Sistema che ha distrutto la pensione pubblica sostituendola con l’assicurazione privata. Josè Pinero, il ministro responsabile per conto del tiranno cileno di quella spaventosa controriforma, con strana coincidenza è in Italia proprio in questi giorni , riverito ospite del gruppuscolo renziano di Scelta Civica.
A coloro che sostengono che la controriforma costituzionale di Renzi non tocchi i principi fondamentali della nostra Carta, suggerisco di confrontare quei principi con questo progetto di speculazione finanziaria sulla previdenza pubblica. Altro che ritocchi, è l’essenza della Costituzione antifascista che viene messa in discussione da governanti sempre più spregiudicati quanto pericolosi. Bisogna fermarli.

I 7 OPERAI DELLA MARCEGAGLIA OCCUPANO

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da http://popoffquotidiano.it/2016/06/15/milano-i-sette-operai-della-marcegaglia-abbiamo-occupato-non-usciremo-piu/

Ore drammatiche alla Marcegaglia di Milano. I 7 operai in lotta da stamattina hanno occupato una palazzina, portandosi delle taniche

di Alessio Di Florio
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Abbiamo occupato la palazzina di via della casa dodici… ci siamo portati le taniche. .. qui devono venire a prenderci con i lagunari. … non usciamo più! Accorrete e fate girare. Via della casa 12 milano” questo il messaggio che da stamattina rimbalza sui social e sui siti web di movimento. L’hanno inviato i 7 operai della Marcegaglia di Milano che da due anni stanno portando avanti la lotta per difendere il loro posto di lavoro. Dopo il fallimento ieri delle trattative in Prefettura hanno deciso quest’azione di protesta.
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La Marcegaglia è una delle principali aziende italiane ed europee (la sua presidente è oggi presidente della Confindustria europea) nel settore siderurgico, con interessi anche in altri settori. Ormai da due anni, in Marcegaglia 7 operai dello stabilimento di Milano stanno andando avanti la lotta contro la proprietà in difesa del posto di lavoro. Una lotta che, nelle ultime settimane, è tornata ad acuirsi. Massimiliano Murgo, delegato FIOM nello stabilimento, nei giorni scorsi è venuto a raccontare quanto sta succedendo a Vasto, in Abruzzo, ospite del locale circolo di Rifondazione Comunista e di Sinistra Anticapitalista Abruzzo. Massimiliano ha ripercorso la storia del gruppo, della pressoché totale assenza di conflittualità nelle relazioni sindacali fino all’inizio della loro lotta, della creatività e forza che in questi due anni hanno dovuto mettere in campo, di come sono stati anche esempio e avanguardia per i lavoratori degli altri stabilimenti. Perché i 7 operai in lotta non sono “solo 7”, quasi fossero un’esigua minoranza isolata, ma i primi 7 di una storia operaia tutta ancora da scrivere.
Una storia iniziata due anni fa, quando la proprietà ha comunicato la decisione di chiudere lo stabilimento di Milano. In tale occasione, come ha raccontato anche Massimiliano nell’incontro a Vasto, l’accordo di chiusura dello stabilimento ha offerto agli operai 3 possibili scelte:
- Accettare il trasferimento, incentivato e con messa a disposizione di trasporto aziendale con autobus, a Pozzolo Formigaro a 108 km dallo stabilimento di Milano
- Accettare la messa in mobilità e l’incentivo all’ esodo di 30000 euro lordi
- Non accettare ne il primo e ne il secondo, e nel periodo di CIGS, che in base all’accordo si sarebbe rinnovata per un altro anno, l’azienda si impegnava a trovare la ricollocazione in uno dei 4 stabilimenti del gruppo Marcegaglia limitrofi a Milano, quelli cioè di Lainate, Corsico, Boltiere e Lomagna. In caso di impossibilità a ricollocare entro i 2 anni di CIGS comunque l’azienda avrebbe offerto la possibilità di trasferirsi a Pozzolo. Eventualmente l’azienda si impegnava a ricercare soluzioni lavorative presso terzi, fornitori o clienti in provincia di Milano.
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Al 30 ottobre 2014, ultimo giorno per comunicare la scelta, Massimiliano e i suoi compagni, “non avendo la possibilità, per ragioni di salute di alcuni e familiari di altri” di trasferirsi e per gli stessi motivi, di “perdere il lavoro in cambio di pochi soldi” decidono di rimanere in CIGS. “Come un fulmine a ciel sereno – raccontano – alla fine del mese di giugno 2015 l’azienda invece ci ha convocato per comunicarci di non essere intenzionata neanche a tentare l’apertura del secondo anno di CIGS, in quanto sarebbero state modificate le norme di accesso al secondo anno di tale istituto. In ragione di ciò ci comunicarono che ci avrebbero aperto la procedura di trasferimento a Pozzolo Formigaro, e che non avremmo neanche avuto diritto al trasporto aziendale.
Una tegola enorme sulla nostra testa. Conti alla mano trasferirci a quelle condizioni significava lavorare per pagarci benzina, casello, tagliandi e una macchina ogni 2/3 anni, mentre comunque rimanevano le condizioni di impedimento per tutti noi di recarci a lavoro così lontano. L’unica alternativa che ci dava l’azienda era il licenziamento senza nessuna indennità
”. Davanti a questa prospettiva sono saliti sul tetto dello stabilimento per 6 giorni, un operaio si mise anche in sciopero della fame. Alla fine, grazie anche all’intervento del Prefetto, il secondo anno di CIGS fu attivato.
11692742_394984624045735_6963681380026212017_n I SETTE DELLA MARCEGAGLIA VISTI DALLA FIGLIA PICCOLA DI UNO DEGLI OPERAI
Il 2 maggio scorso l’azienda ha comunicato l’intenzione di inviare “le lettere di trasferimento coatto e senza agevolazioni”. E’ iniziato un nuovo scontro con i 7 operai in lotta che, lo scorso 31 maggio si sono incatenati “all’ingresso degli uffici direzionali, amministrativi e Commerciali di Marcegaglia Buildtech in via della Casa 12”. Dopo qualche ora si è riaperta la trattativa, con la convocazione di un tavolo in prefettura il 7 giugno. Raccontano i lavoratori che in quell’occasione l’azienda ha ribadito “di non aver alcuna possibilità di ricollocarci. La funzionaria prefettizia, ha ricordato all’azienda le ragioni del verbale di accordo sottoscritto col prefetto lo scorso anno e ha giustamente considerato inverosimile che una azienda solida e importante come Marcegaglia non sia stata in grado di trovare una soluzione per soli 7 operai”. La Prefettura ha quindi deciso di riconvocare il tavolo per il 14 giugno. E questa è cronaca di queste ore. Il fallimento, come scritto all’inizio, della trattativa e la decisione di occupare gli uffici Buildtech. “Ci siamo barricati all’interno della palazzina. Tutti gli ingressi sono bloccati. 
QUESTA VOLTA NON FINISCE IN CHIACCHIERE. O ACCORDO O NON SI ESCE!
7 POSTI DI LAVORO A LAINATE CORSICO BOLTIERE E LOMAGNA!
Stiamo bene, non abbiamo alcuna intenzione di recare danni ai beni aziendali. In mensa c’è da mangiare. Stiamo segnando ciò che consumiamo per ripagarlo poi al gestore della mensa.
Emma Marcegaglia è presidente di business europe, l’associazione a tutela di tutte le imprese di europa.
Oltre a essere una dei mandanti del jobs act in Italia assieme agli altri sarà certamente una sostenitrice della loi traval. Per questa e altre ragioni ci sentiamo strettamente legati alle sorti di tutti i lavoratori di Francia a cui va tutta la nostra solidarietà
”. Una solidarietà che sta viaggiando in Rete e non solo in queste ore, invitando chi vive a Milano e dintorni e solidarizza con i 7 operai a recarsi presso la palazzina occupata, e con la proposta di attivare una cassa di resistenza.

IL DONO DI RENZI AI BIG DELLE TRIVELLE

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da http://popoffquotidiano.it/2016/06/17/imu-condonata-a-eni-e-edison-il-dono-di-renzi-ai-big-delle-trivelle/

Nei giorni in cui la gente è in fila per pagare l’Imu, il ministero delle Finanze condona le tasse a Eni ed Edison relative alle piattaforme off shore. La denuncia dei No Triv

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Un bel condono per Eni ed Edison come grazioso regalo del governo per Eni ed Edison. Renzi festeggia così il mancato quorum al referendum No Triv e regala alcune centinaia di milioni ai big delle trivelle sotto forma di condono dell’Imu. Lo spiega il coordinamento nazionale No Triv con un comunicato che vale la pena riportare integralmente:
«Con La Risoluzione n. 3/DF del 1° giugno 2016 il Ministero delle Finanze ha di fatto esentato per il futuro i proprietari delle piattaforme in mare dal pagamento dei tributi locali; ciò in quanto assenti in Catasto. Il che è tre volte vergognoso.
Punto primo: dopo il verdetto 3618 con cui la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva Eni al pagamento di circa 33 milioni di euro al Comune di Pineto a titolo di ICI, il Ministero ha messo le mani avanti “aggiustando” la norma a beneficio delle due società petrolifere che hanno beneficiato più di tutte della proroga sine die delle concessioni entro le 12 miglia, introdotta con la Legge di Stabilità del 2016 ed oggetto del referendum del 17 aprile.
Punto secondo: mentre le famiglie e le imprese italiane subiscono una pressione fiscale che è giunta al livello record del 44%, attraverso un condono mascherato il Governo ha accordato un ingiusto privilegio ai soliti intoccabili. Il 16 giugno, quindi, mentre milioni di italiani verseranno il primo acconto per l’IMU 2016, pochi privilegiati non saranno più tenuti a farlo.
Punto terzo: le oltre 100 piattaforme off shore avrebbero portato ogni anno nelle casse dei Comuni dai 100 ai 200 milioni di euro, spettanze arretrate a parte. Da oggi in avanti il gettito sarà pari a zero.
Sono numerosi i Comuni che hanno contenziosi aperti per diversi milioni di euro (per citarne alcuni, Scicli, Torino di Sangro, Termoli, Porto S. Elpidio, ecc.) ma sarebbero stati molti di più senza il provvidenziale salvagente del Governo. E’ chiaro che il caso di Pineto avrebbe rappresentato un pericoloso precedente per altre amministrazioni locali sul cui territorio insistono collegamenti stabili (oleodotti e gasdotti) con le piattaforme off shore: di qui la scelta del Ministero delle Finanze che è intervenuto cambiando le regole a partita in corso.
Solo per Vega A, Eni ed Edison hanno – o meglio, dopo la risoluzione del Ministero, avevano – un conto di oltre 30 milioni di euro da regolare con il Comune di Scicli.
Solo Edison ne aveva un secondo da 9 milioni con il Comune di Porto Sant’Elpidio ed terzo da 11 milioni con quello di Termoli; in questo caso aveva provveduto perfino a pagare quanto dovuto “ancorché in via provvisoria in pendenza di giudizio”.
Con il condono voluto dal Governo, di tutto questo è stato fatto tabula rasa. Eni ed Edison sentitamente ringraziano».

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QUANDO SAPRAI CHE SONO MORTO



Quando saprai che sono morto
non pronunciare il mio nome
perché si fermerebbe
la morte e il riposo.
Quando saprai che sono morto di'
sillabe strane.
Pronuncia fiore, ape,
lacrima, pane, tempesta.
Non lasciare che le tue labbra trovino le mie dieci lettere.
Ho sonno, ho amato, ho
raggiunto il silenzio


(Ernesto Che Guevara)

LANDINI, UN 'VIVE LA FRANCE' POCO CREDIBILE...

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da http://popoffquotidiano.it/2016/06/18/perche-landini-non-e-credibile-quando-dice-viva-la-francia/

Si può pure guardare alla Francia ma nell’analisi e soprattutto nelle responsabilità  bisogna essere rigorosi e coerenti. Landini ha condiviso la linea sconclusionata e perdente di Susanna Camusso

di Eliana Como
Landini ha recentemente commentato in un intervista all’Huffington Post lo sciopero generale del 14 giugno in Francia e giustamente dice vive la France!
Ben venga, certo, che il segretario generale della Fiom guardi oggi alla Francia. Anche la segretaria generale della Cgil quel giorno ha fatto gli auguri ai lavoratori e alle lavoratrici francesi in sciopero. Aldilà degli slogan, bisognerebbe però essere più coerenti e conseguenti, tra quello che si predica (o si commenta) per gli altri paesi e quello che si decide, e si concretizza, nel proprio.
In primo luogo sarebbe utile riconoscere quanto è avvenuto in Italia, anzi, quanto non è avvenuto. Invece, tanto Camusso che Landini sorvolano abilmente sulle responsabilità del più grande sindacato italiano nel non aver fatto come in Francia. D’altra parte, quando scioperano gli altri, va sempre bene. A parole infatti essere tutte e tutti francesi  oggi  è facile. Peccato, peccato davvero, non esserlo stati nei fatti qui in Italia, quando sarebbe servito.
Nell’intervista all’Huffington, il segretario generale della Fiom riconosce in effetti le responsabilità della Cgil. Però soltanto con il governo Monti, quando la riforma Fornero passò in una notte, con appena 3 ore di sciopero. Testualmente dice: “L’errore lo abbiamo compiuto quando è caduto il governo Berlusconi nel 2011: abbiamo accettato che il governo Monti cominciasse a dare applicazione alla lettera della Bce compiendo il primo attacco all’articolo 18 e alle pensioni… Ora Renzi agisce su un terreno già arato”. Il problema, diciamo così, sarebbe stato l’antiberlusconismo, cioè il fatto che, pur di mandare via Berlusconi, si sia scelto di appoggiare o comunque non contrastare il governo Monti.
Non è così semplice. Non è cosi facile né per la Cgil né per la Fiom. Per una serie di ragioni.
1. Prima o poi dovremo affrontare il fatto che i governi di centro-destra in questi ultimi 25 anni non sono stati tanto peggio di quelli di centro-sinistra o di quelli tecnici. Perché spesso le leggi proposte dai primi sono poi regolarmente state approvate dai secondi, molto spesso anche grazie alla pace sociale garantita proprio dalla logica sempre fallimentare del cosiddetto meno peggio (pensioni 1995; grandi privatizzazioni come Telecom, Enel e Autostrade; precarizzazione con il pacchetto Treu, tagli alla scuola e al welfare nel 2006/2007, ecc).
2. Proprio Landini aveva sostenuto Renzi, nei primi mesi del suo governo, con un atteggiamento ammiccante nei confronti di quello che, secondo lui, avrebbe potuto essere un elemento di cambiamento nella politica italiana. Si può cambiare idea, certo, ma se si ricostruisce l’analisi bisognerebbe anche riconoscerlo.
3. Soprattutto, non si affronta il fatto che, dopo la mobilitazione dell’autunno del 2014 contro iljobs act, di fronte a una inedita e persino inaspettata spinta dal basso, la Cgil impose un clamoroso dietro front. Prima con uno sciopero generale fuori tempo massimo il 12 dicembre, poi decidendo nel direttivo nazionale (convocato soltanto il 18 febbraio, ben due mesi dopo lo sciopero!), che la lotta sarebbe proseguita solo con una vertenzialità territoriale e aziendale. Di fatto disperdendo nel nulla la mobilitazione e ogni contrasto al jobs act. Non si poteva certo andare avanti “di sciopero generale in sciopero generale”, come chiedevamo noi apparendo dei matti di fronte a tutto il resto del direttivo. No di certo! Quello si può fare soltanto in Grecia o in Francia, quando appunto sono gli altri a scioperare! Noi in Italia, il jobs act lo avremmo dovuto contrastare azienda per azienda, nella contrattazione di secondo livello, in quella territoriale e in quella nazionale. Quello che non eravamo riusciti a fermare tutti insieme ricascava in testa ai singoli, nelle aziende, nei territori, nelle categorie.
Il bilancio a più di due anni di distanza è sotto gli occhi di tutti. Altro che contrastare il jobs actnella vertenzialità diffusa! Non dico nelle aziende, che francamente era proprio impossibile, salvo alcune eccezioni (bravi sono stati alla GKN di Firenze i nostri compagni a riconquistare l’articolo 18 ante Fornero, ma appunto è una eccezione e più unica che rara). Ma soprattutto nei contratti nazionali, tanti dei quali sono stati firmati o sono in discussione in queste settimane. Quando e dove uno di questi contratti nazionali ha ottenuto condizioni che contrastano il jobs act? In quale vertenza nazionale il contrasto al jobs act è stato considerato un reale punto centrale delle piattaforme? Nessuna! Proprio nessuna! Compresa quella attuale dei metalmeccanici e delle metalmeccaniche.
Ecco, è per questo che in Italia la peggiore contro-riforma pensionistica, la cancellazione dell’art.18 e il jobs act sono passati incontrastati e oggi siamo nei banchetti sui marciapiedi – più raramente fuori dalle fabbriche – per raccogliere le firme per i referendum e per la Carta dei diritti.
Si può pure guardare alla Francia. Anzi, bene che lo facciano, tanto la segretaria della Cgil che il segretario della Fiom. Ma nell’analisi e soprattutto nelle responsabilità bisogna essere rigorosi e poi, per conseguenza, coerenti. Il segretario generale della Fiom ha condiviso la linea sconclusionata e perdente di Susanna Camusso. Per questo, nel ricostruire l’analisi, non può tacere questi passaggi e le relative responsabilità.
Non basta allora, caro Landini, dire vive la France, se a suo tempo Parigi è valsa ben più di una messa! (cit. Enrico IV, quando abiurò la sua religione protestante pur di diventare re di Francia…)

IL GIORNO DELLA CIVETTA. CINQUE CONSIDERAZIONI SUL VOTO.

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da http://www.senzasoste.it/nazionale/il-giorno-della-civetta-cinque-considerazioni-sul-voto-amministrativo

de magistris PCIIl giorno della civetta, dal romanzo di Sciascia e dalla riduzione cinematografica di Damiani, è quello che permette di capire chi vale e chi è solo fatto di parole. A quest'ultima categoria appartiene sicuramente, ma non c'era bisogno del voto delle amministrative per saperlo, Matteo Renzi. Non solo perché il PD ha perso in tre aree metropolitane su quattro (e non è poco) ma soprattutto perché, voto dopo voto, è Matteo Renzi stesso a rendersi sempre più improbabile. Con dichiarazioni tipiche di chi prova a ripetere schemi vincenti, simili al bonus 80 euro, in un campionato dove tutte le squadre sono attrezzate proprio al contropiede su questi schemi. Un logoramento dell'immagine, dovuto anche a una sovrapposizione mediale del premier, che rischia di essergli fatale al referendum di ottobre (periodo in cui si concentrano spesso, oltretutto, tutte le tensioni sociali della stagione autunno-inverno).
Il voto delle amministrative va saputo leggere bene. Allora regalerà più certezze analitiche che politiche.
Cominciamo però dall’impolitico, ovvero dall’astensione molto alta, qualche prima certezza viene fuori. Nei decenni passati l’alta astensione era considerata un fenomeno tipico della affluent society, la società del raggiunto benessere. Dove il disinteresse per la politica coincideva con stabili livelli di consumo. Oggi, in Italia, l’alta astensione coincide con la regressione dei diritti materiali di cittadinanza, dei consumi e della capacità di far circolare ricchezza. Chi vuol pescare, a vario titolo, in questa fascia di popolazione deve saperci entrare (spesso astensione e analfabetismo da società digitale coincidono) e non è facile. Ma veniamo al resto:
Prima considerazione: la data. La mattina del 20 giugno giornali e siti, per non parlare dei social, avevano già ampiamente decretato la sconfitta di Renzi, che pur ha vinto a Milano, la vittoria del Movimento 5 stelle e l'ottimo risultato di De Magistris. Il 20 giugno non è mai una data qualsiasi nella politica italiana. Nel 1976 decretò sia il punto elettoralmente più alto del Pci che l'inizio del suo declino (prima lento poi precipitoso con l'incedere degli anni '80). Nel 1993, il 20 giugno rappresentò il giorno della vittoria della Lega col candidato Formentini a Milano. L'inizio di una vera ascesa, allora fu detto di stampo secessionista, che ha permesso alla Lega di stare nei piani alti della politica per diversi lustri. Oggi difficile sfuggire ad una considerazione: se si toglie la ridotta milanese, dove le condizioni di riproduzione del solito ceto politico banche-mattone-studi professionali si sono mantenute grazie a Expo (di cui Sala è stato rappresentante), in tre metropoli su quattro vince chi esce dallo schema bipolare, spesso bipartisan, centrodestra-centrosinistra. Un risultato significativo che peserà tanto più se le condizioni internazionali lo faranno pesare. L'asse bipartisan centrodestra-centrosinistra, non senza contraddizioni o lacerazioni, è infatti quello che ha tenuto in piedi, in Italia, la costruzione post-nazionale che passa tra Unione Europea e moneta unica. Una volta che questa costruzione fosse seriamente sinistrata non ci sarebbe da stupirsi se quest'asse finisse definitivamente in briciole.
Seconda considerazione: il catch-all-party colpisce ancora. Il partito prenditutto (pessima ma utile traduzione) è lo schema classico del cartello elettorale che guadagna voti da ogni schieramento durante le elezioni. Forza Italia delle origini, ma anche il Pdl, non usava questo schema. Troppo ancorato a radici identitarie, e di immagine, che impedivano un immediato trasloco dei voti da sinistra a destra (per semplificare). Il Pd di Veltroni prima e quello di Renzi poi, nelle intenzioni, sono catch-all-party. La vittoria elettorale di Renzi del 2014, ad esempio, prende da destra e da sinistra. Con il mito del capo giovane, ottimo per la destra, e quello degli 80 euro, ottimo a sinistra. La vittoria di Raggi e Appendino avviene secondo schemi ancora più tipici di catch-all-party. Si guardi al voto torinese, ampiamente differenziato per intenzioni di voto al secondo turno, e a quello romano dove elettori di sinistra, e del Pd stando agli studi sui flussi di voto del primo turno, hanno semplicemente votato Raggi senza grossi problemi. Prende quindi sempre più piede la rappresentazione, ma anche la rappresentanza, di un elettorato demotic, indifferenziato. Una rappresentazione, e una rappresentanza, nella quale Raggi o la Appendino potrebbero essere, indifferentemente, due precarie o due manager, come due ragazze "di famiglia". E, per adesso, questa proposta di personaggi funziona, come lo ha fatto per Di Maio riflesso maschile di questa svolta rappresentativa del 5 stelle (all'inizio schiacciato, giocoforza, su Grillo).
Terza considerazione: il voto riflette ampiamente lo scontento, generalizzato quanto è generica la rappresentanza elettorale, di ampi strati di popolazione rispetto allo svuotamento delle politiche locali e metropolitane. Dal 2011, quando Trichet e Draghi scrissero apertamente a Berlusconi sulla necessità di tagli agli enti locali, le amministrazioni territoriali sono state letteralmente vampirizzate (in risorse e competenze). Il furore verso mafia capitale è frutto di questa situazione, la classica rabbia, che può prendere ogni direzione (e per questo, nel suo complesso, è adatta a un catch-all-party) contro gli speculatori in un contesto dove le risorse sono negate a tutti. Occhio però al riflesso nazionale di questa situazione: il renzismo, a parte Milano (metropoli però veloce nel cambiare poteri di riferimento perché non è città che ama i poteri declinanti) è privo di base materiale. Berlusconi lo sapeva, per capirlo basta entrare nel mondo reale: la depenalizzazione del falso in bilancio ha rappresentato, simbolicamente, il "laissez-faire" rivolto alla società italiana degli anni novanta e duemila. La possibilità concreta di arricchirsi -consumando tutto dal suolo ai bilanci pubblici- che era la base materiale, per molti ma non per tutti, del consenso a Berlusconi. Renzi non manca di propaganda, e in questo imita Berlusconi, ma manca di base materiale (a parte la dozzina di gruppi di interesse che contano). Lo si vede anche dalle sconfitte nella casa madre Toscana che, da Sesto Fiorentino (sinistra) a Cascina (destra) a Grosseto (centrodestra) mostrano, in modi diversissimi, tutto l'indebolimento della base materiale, di ricchezza e di relazioni, sulla quale poteva contare il Pd.
Quarta considerazione: per il movimento 5 stelle, Roma e Torino rappresentano sia un trionfo che una prova dell'ordalia. Un trionfo nazionale e globale, basta dire che Le Monde ha aperto con la Raggi e che la notizia della vittoria romana è entrata nel circuito delle notizie globali in maniera persino più incisiva che quella di Renzi del 2014. La prova dell'ordalia è perlomeno intuibile: governare metropoli complesse, in preda a trasformazioni differenti e differentemente convulse, come Roma e Torino sarà il banco di prova più serio di tutti. Si tratterà di capire, ad esempio, cosa ne pensa il M5S sulla cronica assenza di fondi per gli enti locali. Se si limiterà ad inseguire i tagli, gli imprenditori e le privatizzazioni (rischiando di inseguire la depressione economica) o se, per mantenere servizi e alimentare economie territoriali labour-oriented, alimenterà una contrattazione enti locali-stato centrale in grado di invertire la demenziale tendenza di vampirizzazione delle risorse locali degli ultimi anni (governata da Bruxelles e Francoforte, problema non da poco) assieme ad una programmazione che favorisce settori innovativi. Dal 20 giugno, di fatto, il M5S è già al governo del paese. Torino e Roma portano in questa dimensione. I fatti, d'ora in poi, parleranno meglio di qualsiasi ipotesi. Provare a fare provvedimenti “di destra” assieme a provvedimenti “di sinistra” sarà la più facile delle tentazioni. Poi la realtà farà capolino e imporrà delle scelte. Certo, il renzismo reale giocherà alla delegittimazione di ogni atto del movimento 5 stelle, e al tentativo di cooptazione di quello che può far gioco al presidente del consiglio, ma la differenza tra marketing e governo si capirà bene.
Quinta considerazione: travolti, dall'elettorato, dei generosi politici senza idee, senza tempra e senza prospettive (quali Fassina e Airaudo), la sinistra fa un grosso risultato a Napoli in prospettiva Barcellona. Ovvero di una integrazione tra piano elettorale e movimenti che porta a governo e redistribuzione di ricchezza in aree metropolitane. Nessun modello celeste, ogni storia ha i suoi percorsi accidentati, ma a differenza di Roma e Torino, De Magistris può vantare il grande valore della riconferma. In questo senso il sindaco di Napoli, dopo il trionfo del 2011, ha passato con successo la prova dell'ordalia. Ripresentandosi dopo cinque anni con dei buoni risultati nella salvaguardia dei beni comuni. In una delle metropoli più complesse, se non la più complessa, dell'Europa continentale. Ora De Magistris pare essere, leggendo le sue dichiarazioni, di fronte ad un'altra prova: fare da polo costituente di una sinistra nazionale di nuovo tipo. Certamente il tipo di complessità da attraversare sarà determinato da che tipo di Europa e di Italia usciranno tra l'estate e l'autunno.
Sembra quindi ormai in seria difficoltà il vecchio schema politico centrodestra-centrosinistra dell'ultimo quarto di secolo. Schema che ha accompagnato come attraversato, la politica è sempre entro un gioco di forze che necessariamente sfuggono allo stesso politico, sia il declino del Pil del paese che la sua stabilizzazione entro l'asse Ue-Eurozona. Milano, che di solito anticipa i processi in questo paese, sembra essere ancora nel passato proprio perché vive una bolla di processi attivati da Expo, voluta dal governo Prodi nel 2007. Questo schema sembra in crisi non solo, e non tanto, per motivi interni. Ma perché sono in forte difficoltà le istituzioni globali sulle quali, giocoforza e a volte anche controvoglia, si basava lo schema centrodestra-centrosinistra come cemento nazionale di una costellazione post-nazionale e post-politica: ue, eurozona, bce.
In politica, spesso, è stupido fare pronostici su cosa accadrà ma, sempre, fa bene capire quali sono i nodi ineludibili. Un'economia che esca dalle dinamiche dell'ultimo quarto di secolo, il venticinquennio perduto in versione tricolore, una alternativa seria, dai territori, alla governance della Ue, della Bce e della moneta unica. Il resto è retorica. Modalità espressiva che la gente capisce benissimo. Meno Renzi che continua a ripetere formule improbabili, inabile a capire che il giorno della civetta è arrivato anche per lui. Ciao Matteo anzi, ciaone.
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