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SUNDAY MAGAZINE

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TI AUGURO TEMPO





Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene potrai ricavarne qualcosa.
Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare,
non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri.
Ti auguro tempo, non per affrettarti a correre,
ma tempo per essere contento.
Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti e non soltanto per guadarlo sull’orologio.
Ti auguro tempo per guardare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.
Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.
Ti auguro tempo per trovare te stesso,
per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono.
Ti auguro tempo anche per perdonare.
Ti auguro di avere tempo, tempo per la vita.
(Elli Michler)

ROMA, IN MIGLIAIA CONTRO IL TTIP

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da  http://www.senzasoste.it/politica/roma-migliaia-di-persone-in-piazza-per-dire-stop-al-ttip

TTIP STOP corteo del 7

Il colpo d’occhio a Piazza della Repubblica lascia già intendere che la gente a Roma ci è venuta e ci è venuta numerosa per dire con forza Stop al TTIP, il trattato transatlantico che è qualcosa di più e di peggio di un trattato di libero scambio tra i due poli economici più forti del pianeta.  Per un po’ agisce anche un errore ottico. Nei giardini si concentrano centinaia di ragazzi, giovani e giovanissimi. Però non sono lì per la manifestazione contro il TTIP ma per l’annuale Marijuana Million March per la liberalizzazione delle droghe leggere. La coincidenza di date ha fatto sì che abbiano accettato di convergere sulla stessa piazza e lo stesso percorso del corteo “politico” e generazionalmente diverso.
Ma anche gli attivisti giunti da tutta Italia per manifestare contro il TTIP cominciano a crescere di numero. Quando vedi arrivare uno striscione con gente da Udine, si capisce l’appello a manifestare ha funzionato. Dal Veneto sono arrivati quattro pullman, in gran parte di reti e associazioni contadine. Saranno infatti molte realtà agricole a riempire le file del corteo, un segnale che chi lavora e vive con la terra vede il TTIP come una serissima minaccia. Non mancano spezzoni più politici. Ci sono un bel gruppone di Giovani Comunisti, i partiti, qualche pezzo di Cgil, i Cobas, l’Usb. La Piattaforma Sociale Eurostop è in piazza con il suo striscione che riafferma il No all’euro, all’Unione Europea e alla Nato, parole d’ordine che suscitano la curiosità dei giornalisti e attirano molti fotografi. Perché fuori dall’euro e Ue o dalla Nato? Perché sono la medesima strumentazione delle classi dominanti che vorrebbero l’intero pianeta ridotto ad un libero mercato a disposizione dei più forti, senza ostacoli né lacci e  lacciuoli. 
Ma il TTIP non è detto che veda convergere gli interessi delle classi dominanti in Europa e negli Stati Uniti. Il trattato è asimmetrico a tutto favore degli Usa e governi europei pesanti come Germania e Francia non sembrano affatto entusiasti di firmarlo. Si può dire che le possibilità che non venga firmato stiano superando quelle di essere firmato. Troppe contraddizioni tra i due principali poli economici della competizione globale in corso.
Il corteo si ingrossa, sfila per via Cavour poi gira verso via Merulana  per andare a San Giovanni dove associazioni e sindacati hanno allestito numerosi stand informativi. Si può affermare onestamente che almeno 15mila persone sono scese in piazza oggi.  A San Giovanni, mentre i vari spezzoni continuano ad arrivare, si alternano dal palco gli attivisti dei vari comitati anti TTIP di diverse città. In fondo al corteo, per la prima, anche uno spezzone del M5S con lo striscione “Elezioni subito”, slogan legittimo ma effettivamente un po’ sopra le righe rispetto al tema della manifestazione.  A parziale giustificazione di questa “sensibilità elettorale” è la verifica che questo è il tema di molti capannelli e chiacchierate lungo il corteo. Oggi sono state pubblicate le liste dei candidati e quasi ovunque si parla solo di questo, con tutti i rituali, talvolta un po’ fastidiosi, di chi ti sgrana un sorriso a32 denti che non ti aveva mai regalato e ti fa sapere con malcelato interesse che “ciao, mi sono candidato alle elezioni, volevo dirti che…..”. E uno a chiedersi, ma non potevamo parlarne sei mesi  o un anno fa?
Ma la cronaca non è ancora finita perché subito dopo il corteo ufficiale si staglia la massa dei manifestanti della Marijuana Million March, migliaia di giovani e giovanissimi (pischelletti diremmo a Roma). Due mondi che magari ancora non si sono capiti ma che parlano diversamente  il linguaggio della ribellione allo stato delle cose presenti.
Non è stata oceanica come quella di Berlino, ma la manifestazione di oggi a Roma ha visto migliaia e migliaia di persone in piazza, in un paese dove il governo non tira calci contro il TTIP come in Germania  ma, anzi, vorrebbe sbrigarsi a sottoscriverlo. Un segnale di mobilitazione interessante, soprattutto per la dimostrazione di vitalità di tante reti sociali che agiscono ormai autonomamente dai circuiti politici tradizionali.
Il video del corteo

LA TRISTE PARABOLA

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La notizia che andiamo a leggere, si coniuga molto bene con un articolo inviatomi da Roberto, nostro caro lettore, e che si trova qua: http://scenarieconomici.it/fermiamoli-i-sacerdoti-delleuro-ministro-giannini-vi-precarizzeremo-lavoro-e-vita/
Nemmeno la persona più ingenua è ormai capace di credere veramente alle balle che l'UE racconta su se stessa: nata (a dire dei suoi soloni, così come per le affermazioni a seguire) per evitare rigurgiti fascisti, coccola il nazismo ucraino in versione anti russa; nata per favorire l'integrazione tra i popoli, attua politiche tali da favorire i rigurgiti di estrema destra; vuole evitare le guerre, ma è legata a doppio filo alla NATO (e, per quel che riguarda Tsipras, anche a Israele con cui ha stretto il patto di collaborazione militare più viincolante che ci sia mai stato).
L'UE come la conosciamo oggi nasce attraverso lo smembramento cruentissimo della Jugoslavia, l'espansione ad est per delocalizzare nei Paesi ex socialisti, e ha il chiaro obiettivo di distruggere tutta la previdenza sociale novecentesca e creare generazioni di precari pronti a spostarsi ovunque per tirare a campare.
Il TTIP sarà, se passa, il suggello finale di questa americanizzazione all'interno e di costruzione di un polo imperialista padronale di elite contiguo a quello statunitense, mentre gli scenari di rigurgiti fascisti e di possibili futuri punti di frattura -come sempre prima o poi accade tra due poli imperialisti- col padrone americano lasciano immaginare scenari di guerra totale.
Davanti a tutto questo, l'esito triste che ha avuto la parabola Tsipras nasce da un suo unico, ma cruciale errore: credere nell'UE come una forza democratica con cui trattare, e dunque credere che, dentro ad un modello di sviluppo in piena crisi autodistruttiva,  sia possibile una mediazione ragionevole, come se coi padroni, di cui l'UE è il meccanismo di governance. sia mai stato possibile trattare attraverso gli argomenti della ragione anzichè tramite i rapporti di forza.
E sono proprio i rapporti di forza che oggi sono venuti fuori.

da http://popoffquotidiano.it/2016/05/09/grecia-tsipras-taglia-le-pensioni-la-polizia-spacca-le-facce/



Decine di migliaia di persone in piazza mentre Tsipras impone il taglio delle pensioni e nuove tasse. La polizia si scatena. Gli anarchici assaltano la sede del partito di Tsipras (video)



di Giulio AF Buratti
Syriza condanna le violenze della polizia, dice che è urgente una democratizzazione della polizia ma intanto il governo Tsipras ha imposto altri sacrifici a una cittadinanza stremata da otto anni di crisi. Il Parlamento greco ha votato, infatti, tagli alle pensioni e nuove imposte sul reddito, nonostante le proteste sfociate negli scontri tra la polizia, nelle strade di Atene, e chi si oppone alle nuove misure di austerità. Mentre domenica sera il parlamento rendeva l’ennesima resa alle pretese della Troika, almeno 20mila persone (il numero ammesso dalle autorità) era in Piazza Syntagma a contestare il governo dell’ex coalizione della sinistra radicale, Syriza. Tra i feriti, il quadro dirigente del LAE, Sofi Papadoyannis. Nel video Taifer le immagini dell’assalto da parte di un gruppo di anarchici alla sede del partito di governo mutato geneticamente dopo il clamoroso dietrofront di luglio rispetto al referendum che aveva bocciato l’ipotesi di III memorandum.
«Le nuove misure prevedono 5,4 miliardi di tagli concordati da governo e creditori - ha spiegato a Popoff, Sotiris Martalis, intervenuto a Roma all’assemblea sul Plan B - Tali misure probabilmente includeranno un meccanismo di taglio automatico di più di 3,6 miliardi di euro richiesto dal FMI. Per attuare queste misure il governo vuole votare due leggi, una sui tagli alle pensioni e la seconda sull’aumento delle tasse e l’introduzione di nuove imposte». «Il dato nuovo è che queste misure sono prese da un governo che almeno nominalmente è di sinistra - ha detto Martalis, insegnante, dirigente del sindacato Adedy e di Unità popolare - Questo governo taglia per la tredicesima volta le pensioni di povertà. È significativo il caso del taglio dell’assegno chiamato EKAS, che viene erogato ai pensionati con le pensioni più basse e che permette loro di vivere. Si tratta di circa 190.000 persone che vedranno la loro pensione ridotta di 193 euro al mese. La pensione minima scenderà a 345 euro. Coloro che andranno in pensione dopo la promulgazione della legge vedranno le loro pensioni ridotte di circa il 30%, mentre coloro che sono già in pensione saranno soggetti alle stesse riduzioni dal luglio 2018. L’altra legge che riguarda le tasse aumenta del 24% l’IVA su tutti i generi di largo consumo: cibo, vestiti, scarpe ed altri, e prevede aumenti su carburante, tassa di circolazione, sigarette, bevande alcoliche, ecc. Allo stesso tempo taglia il diritto al reddito esentasse per chi ha un reddito annuo di 8.000 euro. Perciò verrà tassato chiunque guadagni più di 650 euro al mese.
Il primo ministro Alexis Tsipras ha sottolineato che il sistema pensionistico «non può sopravvivere senza una riforma di vasta portata». Tutti i 153 membri della sua coalizione hanno votato per il pacchetto, scelta obbligata per ricevere gli aiuti economici dai creditori internazionali. Oggi i ministri delle finanze della zona euro si sono incontrati per discutere dei negoziati con la Grecia. Le nuove norme approvate dal governo porteranno la Grecia ad una riduzione del debito netto di 3,6 miliardi di euro, una condizione richiesta dai creditori internazionali per varare la prossima tranche di “aiuti”. Intanto la Grecia si appresta a varare nelle prossime settimane altri 1,8 miliardi di euro di aumenti delle imposte indirette. La pressione tedesca per procedere con i piedi di piombo sull’alleggerimento del debito si riflette nella tortuosità del testo varato dall’Eurogruppo. La base di partenza della “svoltà” è la fiducia che Atene attuerà le riforme e le misure appena passate al parlamento greco pari al 3% del pil e che sarà varata una legge per assicurare un meccanismo di salvaguardia che scatterà automaticamente se non dovesse essere centrato l’obiettivo di un surplus primario del 3,5% nel medio termine (dal 2018). Sul debito sono stati concordati 4 principi guida: va facilitato il ritorno della Grecia al mercato per il finanziamento del debito, va alleggerito il profilo dei ripagamenti, va incentivato l’aggiustamento economico anche dopo la fine del programma, occorre flessibilità per fronteggiare gli effetti della crescita incerta del pil nei prossimi anni e l’evoluzione dei tassi di interesse. Inoltre sarà definito un parametro di riferimento per la valutazione della sostenibilità del debito in base al quale, nello scenario di base, i bisogni finanziari del paese «dovrebbero restare sostenibili». L’Eurogruppo prevede un «approccio a sequenze»: significa che le misure di alleggerimento del debito devono essere progressive per assicurare le necessità finanziarie e soggette alla condizionalità del programma Esm.
In seguito agli incidenti di ieri in Piazza Syntagma e alla condotta adottata dalla polizia che ha lanciato lacrimogeni contro i manifestanti, SYRIZA ha emesso il seguente comunicato stampa: «SYRIZA condanna le azioni di oggi della polizia durante la manifestazione in Piazza della Costituzione e l’uso di gas lacrimogeni, che hanno causato anche il ferimento di manifestanti nonchè di quadri di LAE (Unità popolare, l’ooposizione di sinistra fuoriuscita dal partito dopo il voltafaccia di luglio, ndr). Ci aspettiamo che il Ministero per la Protezione del Cittadino conduca una dettagliata indagine al fine di punire i responsabili. Gli episodi di violenza della polizia e l’immunità di chi li alimenta devono finire». Anche la Gioventù di SYRIZA ha preso posizione: «Ogni giorno che passa, diventa sempre più evidente che la democratizzazione della polizia è più che mai necessaria. Ogni giorno che passa capiamo che pur essendoci la volontà politica, non è sufficiente perchè la polizia greca si liberi dell’ostilità cronica nei confronti della società civile e delle sue lotte. Esortiamo il governo a intraprendere immediatamente le necessarie iniziative per porre fine a questa situazione che ci offende tutti e che non gli rende sicuramente onore».

LOI TRAVAIL E LA DEMOCRAZIA DEL PADRONE

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da http://ilmanifesto.info/loi-travail-larma-avvelenata-di-valls/


Francia . A corto di numeri, il premier blinda domani la Loi Travail con l’articolo 49.3 e arriva la censura dell'opposizione. Sinistra a pezzi, Mélenchon invita a votare con la destra. Tensioni in piazza



Il governo fa ricorso all’arma avvelenata, per tentare di far passare la Loi Travail. Manuel Valls ha annunciato il ricorso all’articolo 49.3 (del Titolo V della Costituzione), che permette di approvare una legge senza voto del Parlamento, impegnando la «responsabilità del governo». Immediata risposta della destra: nel pomeriggio ha presentato una «mozione di censura», che sarà discussa giovedì 12 maggio pomeriggio. Se votata (ci vuole una maggioranza di almeno 289 deputati), il governo cade. Nel 2006 Hollande aveva definito il 49.3 «una brutalità, un diniego di democrazia».
È terremoto politico, dopo due mesi di proteste e manifestazioni.
Ieri alle 18, Nuit Debout ha invitato via sms e Faceboook a una prima protesta di fronte all’Assemblée nationale, contro «il passaggio forzato della Loi Travail. Forte tensione (lacrimogeni), proseguita agli Invalides. A metà pomeriggio i ferrovieri, che manifestavano per le condizioni di lavoro, hanno iniziato la protesta.
Giovedì, giorno previsto per il voto della «censura» della destra, è già in programma un’altra giornata di manifestazioni in tutto il paese.
Per domenica 15 maggio, che segna i 5 anni dall’inizio del movimento spagnolo 15M, Nuit Debout ha lanciato un appello per una giornata di proteste europee contro le scelte neo-liberiste (e il 18 maggio è anche previsto un corteo dei poliziotti del sindacato Alliance, molto a destra, contro i casseurs).
Ieri a Rennes ci sono state proteste e tensioni.
François Hollande ieri nel primo pomeriggio ha convocato un Consiglio dei ministri straordinario all’Eliseo, che ha dato il via libera al ricorso al 49.3, dopo due incontri infruttuosi con la “fronda” socialista, la mattina. La discussione della legge El Khomri è bloccata all’Assemblée al primo articolo, sono stati presentati più di 5mila emendamenti e non ci sarebbe stato tempo per arrivare al voto previsto il 17 maggio.
Mancano una quarantina di voti al governo per far passare la Loi Travail, di qui la scelta di forzare la mano, con il 49.3. Ma i dissidenti si ribellano.
Christian Jacob, capogruppo dei Républicains, invita la “fronda” socialista a votare la «censura» della destra. Christian Paul, tra i capofila dei dissidenti Ps, risponde che oggi «verrà presa una decisione collettiva, siamo costernati». Per Paul, l’obiettivo è «fare in modo che la Loi Travail non sia adottata».
L’eurodeputato Jean-Luc Mélenchon invita i parlamentari di sinistra ostili alla riforma del lavoro a votare la censura e parla di «fine regno crepuscolare». Accusa il governo di voler far passare «senza dibattito la legge El Khomri contro il diritto del lavoro».
Jean-Claude Mailly, segretario di Fo, chiede al governo di avere il coraggio di indire un referendum sulla Loi Travail: «Se fosse un testo di progresso sociale non avrebbero problemi di maggioranza». E aggiunge: «Non ci fermeremo».
All’estrema destra, Marine Le Pen accusa: «Per il governo l’obbedienza alla Ue è sempre più importante dell’espressione democratica del Parlamento». Per il deputato Dupont-Aignan, leader molto a destra di France Debout, «per obbedire a Bruxelles, Hollande preferisce tradire il popolo». Con le modifiche al testo iniziale, ormai anche il Medef (padronato) è contro la riforma.
La Loi Travail si sta trasformando in un suicidio politico della sinistra, a un anno dalle presidenziali, anche se il governo non dovrebbe cadere giovedì.
Ma la spaccatura a sinistra è ormai più che consumata. Il Front de Gauche e parte dei Verdi cercano di raccogliere le 58 firme di deputati necessarie per presentare anch’essi una mozione di censura e cercano di convincere la “fronda” del Ps. Il deputato socialista Christophe Caresche minaccia: «I socialisti che votano la censura saranno esclusi dal partito».
Valls ha cercato ieri di difendere la Loi Travail, di ricordare che l’ultima versione è frutto di un «compromesso» con i sindacati riformisti (la Cfdt in particolare) e che è un «testo importante per l’avvenire del paese, per il nostro modello scoiale», che «crea diritti» e ha «disposizioni a favore dei giovani».
Per Valls, la Loi Travail combatte la «dualità del mercato del lavoro». Per gli oppositori, invece, limita i diritti, con l’introduzione del diktat liberista della liberalizzazione dei licenziamenti sperando che vengano favorite le assunzioni e «l’inversione della gerarchia delle norme», dando la priorità agli accordi di impresa su quelli di categoria.
Ormai nessuno ascolta più nessuno, il dialogo è rotto.
Il governo ha già fatto ricorso al 49.3 tre volte nel 2015 (per far passare la legge Macron, di liberalizzazione).
Intanto, mentre all’Assemblea il clima era infuocato, il Senato ha votato il prolungamento dello stato d’emergenza fino a fine luglio, per coprire l’Euro 2016 di calcio e il Tour de France.

COMUNICAZIONE. CAMBIAMENTO ORARI E DATE.

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-Per motivi di orari e lavoro, da domani e per tutta l'estate i post non usciranno più rigorosamente il primo mattino, ma potranno venire pubblicati in qualsiasi momento della giornata. Si tenterà di avere comunque una regolarità pressochè quotidiana.
- Sempre per questioni di lavoro ed orari, il magazine domenicale diventerà Week End Magazine ed uscirà il sabato per tutto il fine settimana.
A domani. Hasta siempre.

SERVIZI PUBBLICI: LA MADIA TE LI PORTA VIA

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madia acqua 2
Il "Decreto Madia" (Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale), se non sarà modificato durante il suo iter, cancellerà completamente gli esiti della vittoria referendaria del 2011 sulla gestione dell'acqua e dei servizi pubblici.
Il testo attuale è un vero manifesto liberista che punta allo stesso obiettivo del Decreto Ronchi: prevede l’obbligo di gestione dei servizi a rete (acqua compresa) tramite società per azioni e reintroduce in tariffa l’”adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, ovvero i profitti, nell’esatta dicitura abrogata dal voto referendario.
Prima di fine giugno, quando il decreto completerà il suo iter, sarà necessario rispondere con una vera e propria sollevazione dal basso, con iniziative di contrasto in tutti i territori e l’inondazione di firme in calce alla petizione popolare per il ritiro del decreto Madia, promossa dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua all’interno della stagione appena aperta dei referendum sociali.
Di seguito una serie di strumenti informativi e comunicativi, da utilizzare per iniziative diffuse.
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Materiali di diffusione
  • Stampa e diffondi il poster "La Marianna che ci piace", e utilizzalo in iniziative in cui partecipa il Ministro o rappresentanti della maggioranza di Governo. Scarica
  • Stampa e diffondi la "Lettura guidata al decreto Madia". Scarica
  • Stampa le "Faq sul Decreto Madia" e utilizzale per riunioni di approfondimento sul tema. Scarica
  • Stampa e diffondi la memoria predisposta dal Forum dei Movimenti per l'Acqua sul decreto Madia sui servizi pubblici in cui si evidenziano le violazioni dell'esito referendario e dei principi contenuti nella legge delega. Scarica
  • Ascolta l'intervento esplicativo sul Decreto Madia di P.Carsetti. Scarica
  • Raccogli le firme sulla petizione popolare per il ritiro del Decreto Madia, nell'ambito della campagna sui referendum sociali. www.referendumsociali.info
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Le "Faq" da utilizzare per la diffusione dei contenuti del decreto Madia, e della loro pericolosità!
1. Che cos’è il decreto Madia?
E' il Testo Unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale, decreto attuativo dell' art. 19 della Legge Delega n.124/2015 e ha l'obiettivo di riordinare la normativa sui servizi pubblici locali.
2. Quali sono le finalità del decreto Madia?
Come esplicitato nella sezione 2 dell'Analisi di Impatto della Regolamentazione, allegata al testo di legge, fra gli obiettivi a breve termine, viene indicata “la riduzione della gestione pubblica ai soli casi di stretta necessità”, mentre sono obiettivi di lungo periodo: “garantire la razionalizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali, in un’ottica di rafforzamento del ruolo dei soggetti privati” e “attuare i principi di economicità ed efficienza nella gestione dei servizi pubblici locali, anche al fine di valorizzare il principio della concorrenza”.
Il testo di legge, all'art. 4, comma 2, ulteriormente precisa: “(..) le disposizioni del presente decreto promuovono la concorrenza, la libertà di stabilimento e la libertà di prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione dei servizi pubblici locali di interesse economico generale”
3. Quali servizi pubblici riguarda?
Riguarda tutti i servizi pubblici locali: acqua, rifiuti, gas, energia elettrica, trasporto pubblico, farmacie. In generale, riguarda tutti i servizi pubblici locali di interesse economico generale (definiti come “servizi erogati o suscettibili di essere erogati dietro un corrispettivo economico su un mercato, che non sarebbero svolti senza un intervento pubblico”) e tutti i servizi pubblici locali di interesse economico generale a rete (definiti come “servizi suscettibili di essere organizzati tramite reti strutturali, sottoposti alla regolazione di un'autorità indipendente”).
4. Chi gestirà i servizi pubblici locali?
Il primo principio posto chiaramente sulle modalità di affidamento è che la gestione in economia o mediante azienda speciale è possibile solo per i servizi non a rete (comma 1, lettera d) art.7), mentre tutti i servizi pubblici locali a rete devono essere obbligatoriamente gestiti attraverso società per azioni.
Si tratta di un preciso attacco alle proposte di ripubblicizzazione da parte del movimento per l'acqua, che da sempre propone la gestione attraverso enti di diritto pubblico, quali le aziende speciali, e di un attacco concreto alla realtà di ABC Napoli, azienda speciale che gestisce il servizio idrico della città partenopea.
5. E se gli enti locali scelgono la gestione attraverso una società per azioni a capitale totalmente pubblico?
Premesso che ogni gestione attraverso una Spa è comunque una gestione privatistica in quanto orientata al profitto, il percorso per gli enti locali che scelgono l'affidamento ad una Spa a totale capitale pubblico si fa molto accidentato. Essi, infatti, devono (art. 7, commi 3-6):
a) deliberare con provvedimento motivato, dando conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dell'impossibilità di procedere mediante suddivisione in lotti del servizio per favorire la concorrenza;
b) produrre un piano economico- finanziario, “asseverato da un istituto di credito”, con la proiezione, per l'intero periodo della durata dell'affidamento, dei costi e dei ricavi, degli investimenti e dei relativi finanziamenti;
c) inviare il tutto all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, per un parere che verrà espresso entro trenta giorni..
Nulla di tutto questo è richiesto per le gestioni attraverso società per azioni a capitale privato o a capitale misto pubblico-privato.
6. Chi gestirà le reti e gli impianti?
Il decreto prevede la possibilità, sempre “per favorire la tutela della concorrenza” di affidare la gestione delle reti, degli impianti e della altre dotazioni patrimoniali separatamente dalla gestione del servizi, nel qual caso l'affidamento dovrà essere fatto ad una società per azioni a totale capitale pubblico, a società a capitale misto pubblico-privato o a società a capitale privato (art. 9, comma 4).
Anche in questo caso, la preferenza per le società miste o private si esprime con la possibilità per le stesse di realizzare direttamente e senza gara d'appalto tutti i lavori connessi alla gestione della rete e degli impianti (art. 10, comma 2)
7. A chi andranno i finanziamenti pubblici?
Gli eventuali finanziamenti statali saranno “prioritariamente assegnati ai gestori selezionati tramite procedura di gara ad evidenza pubblica (..) ovvero che abbiano deliberato operazioni di aggregazione societaria” (art. 33, comma 2,)
8. La tariffa prevede i profitti?
Lo schiaffo al referendum non poteva essere reso più evidente: dopo anni con cui i profitti erano stati mascherati nella tariffa sotto la definizione di “oneri finanziari”, viene reintrodotta nella determinazione delle tariffe dei servizi pubblici locali,“l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito” (art. 25 comma 1, lett. d)), nell'esatta dizione abrogata dal secondo quesito referendario del giungo 2011.
9. Il decreto Madia viola l'esito del referendum del giugno 2011?
Da tutti i punti di vista:
a) il referendum, attraverso il primo quesito, aveva deciso l'abrogazione dell'obbligo di privatizzazione dei servizi pubblici locali, rendendo paritarie tutte le forme di gestione: il decreto Madia vieta la gestione dei servizi pubblici locali a rete (compresa l'acqua) attraverso enti di diritto pubblico, rendendo obbligatoria la gestione attraverso società per azioni; e, fra queste ultime, discrimina, le gestioni attraverso società per azioni a totale capitale pubblico;
b) il referendum, attraverso il secondo quesito, aveva deciso l'abrogazione dei profitti dalla tariffa dell'acqua: il decreto li reintroduce nella stessa dicitura abrogata.
10. Ma il Ministro Madia ha più volte dichiarato che non vi sarà alcuna privatizzazione dell'acqua..
Il Ministro Madia ha più volte dichiarato che il suo decreto rispetta l'esito referendario perché le novità introdotte non prevalgono sulle leggi di settore. Ora, a parte la singolarità dell'affermazione (che senso ha approvare un Testo Unico se poi prevalgono le normative precedenti?), le dichiarazioni del Ministro Madia sono smentite dallo stesso testo di legge, che all'art. 3, comma2, così recita: “Salve le disposizioni in materia di modalità di affidamento dei servizi, per le quali le predette disposizioni integrano e prevalgono sulle normative di settore, e salve le modifiche e le abrogazioni espresse contenute nel presente decreto, rimangono disciplinati dalle rispettive normative di settore i servizi (..)”
11. Il decreto Madia viola la Legge Delega n. 124/2015?
Essendo un decreto attuativo dell' art. 19 della Legge Delega, il decreto Madia deve attuare quanto previsto dall'articolo medesimo, il cui comma c) cosi recita: “individuazione della disciplina generale in materia di regolazione e organizzazione dei servizi di interesse economico generale di ambito locale (..) tenendo conto dell’esito del referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011”
In contrasto con quanto previsto, il decreto Madia stravolge l'esito referendario.
12. Il decreto Madia è dunque ispirato al pensiero liberista?
Ecco cosa si dice alla sezione 4 dell'Analisi di Impatto della Regolamentazione, allegata al testo di legge : “(..) Il decreto attua la delega contenuta nell'articolo 19 della legge 7 agosto 2015, n. 124 e la previsione di limiti e condizioni per l'assunzione del servizio pubblico locale permette di valorizzare il ruolo dei privati, secondo la regola generale che alle esigenze dell'utenza risponde il mercato in libera concorrenza, fatta salva la necessità di garantire a tutti un servizio che non sarebbe svolto senza un intervento pubblico”.
Il decreto Madia prova a chiudere un cerchio: quello aperto dalla straordinaria vittoria referendaria sull'acqua del giugno 2011, sulla quale i diversi governi succedutisi non avevano potuto andare oltre all'ostacolarne l'esito, all'incentivarne la non applicazione, ad impedirne l'attuazione.
Questa volta l'attacco è esplicito: forte di quanto ottenuto con gli attacchi ai diritti del lavoro (Job Acts), alla scuola pubblica (“Buona Scuola”), alla difesa dell'ambiente e dei territori (“Sblocca Italia”), il governo Renzi tenta l'ass

WEEK END MAGAZINE

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IL LAMPO




E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto     
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che,largo,esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.

IL GUAZZABUGLIO ROMANO

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Volano stracci dentro Sinistra italiana dopo l’esclusione di Fassina dalla corsa al Campidoglio e Giachetti prova a darsi un contegno di sinistra. Lunedì l’ultima parola al Consiglio di Stato

di Giulio AF Buratti
Dovete ammettere che c’è un che di comico, anzi di grottesco, nella caccia al 6% di voti in libera uscita che s’è inaugurata a Roma per via della probabile esclusione delle liste di Fassina dalla corsa al Campidoglio. A sentire Piepoli, il signore dei sondaggi, «non ha molta influenza, perché i voti che sarebbero andati a lui si disperdono» rispetto agli altri candidati. Piepoli, che stimava Fassina al 6%, spiega che «il 2% andrà a Roberto Giachetti, il 2% a Virginia Raggi ed il 2% finirà nel bacino del non voto». Ma la lotta è all’ultimo voto e così si possono leggere le surreali dichiarazioni di un renziano di provenienza radicale (una delle religioni più ferocemente liberiste), come Giachetti, che si sbraccia per costruirsi un profilo abbastanza di sinistra, a partire dalla ripetuta richiesta di un incontro con Fassina, così da attirare quegli elettori disposti allo sport più dannoso dopo la caccia e lo sci: il voto utile. Questo genere di campionati si tiene in parallelo con un altro passatempo in voga nel ceto politico: le trattative sottobanco. Così, mentre cominciano a volare stracci nell’entourage di Fassina, ex responsabile economico del Pd al tempo del fiscal compact inserito nella Costituzione, ad opera di chi non aveva mai digerito la voglia di correre, almeno al primo turno, contro il Pd. C’è un pezzo di Sel, come a Milano, Bologna, Genova, Napoli, che anche a Roma avrebbe voluto schierarsi in diretta continuità con quanto avviene già alla Regione Lazio. A Roma si starebbe trattando per una contropartita più o meno visibile nella corsa al Campidoglio e per un redde rationem dentro Sinistra Italiana, il mai nato partito “unitario”. Per questo c’è grande curiosità nel vedere i nomi che Giachetti farà sabato prossimo, il fatidico 21 maggio, quando annuncerà la giunta. Oggi, a Garbatella, si sono riuniti quelli del documento dei cento, l’area che all’assemblea di Sinistra italiana chiedeva di fare perno con i sindaci e gli amministratori che ancora governano in coalizione.  «Il tema centrale del congresso fondativo di Sinistra Italiana sarà come riaprire la partita, lavorando alla sconfitta del renzismo, cogliendo l’occasione del referendum costituzionale. Riteniamo le uscite di Stefano Fassina di queste ore sbagliate nella forme, nel contenuto e persino nei tempi», spiega una nota del comitato dei ’100′ per la Costituente di Sinistra Italiana «Le elezioni amministrative, il governo delle nostre città sono passaggi fondamentali che poco c’entrano con la dinamica congressuale di Sinistra Italiana – si legge nel documento – Inoltre bisognerebbe avere maggiore rispetto della discussione di migliaia di compagni e compagne, compresa la straordinaria generosità di Sel che ha permesso l’avvio del nuovo soggetto politico». «Nessuna ridotta minoritaria, nessun rancore, nessuna astratta unità di frammenti della sinistra radicale potranno mai contribuire alla sconfitta del partito della nazione. Siamo convinti che il processo di fuoriuscita dal Pd debba essere occasione per interloquire con il disagio del suo elettorato. Ritrovarci a fare i conti con una semplificazione delle culture politiche che spostano il perimetro di SI verso esperienze minoritarie prive di radicamento nella società, ferisce e ci induce ad organizzare una risposta a questa deriva. Chiediamo pertanto l’immediata convocazione della Presidenza e dell’Assemblea nazionale di Sel a tutt’oggi soggetto politico indispensabile a qualsiasi costituente a sinistra. Entro giugno ci impegniamo a organizzare un’assemblea nazionale capace di fare incontrare le voci della sinistra plurale dei movimenti, del sindacato e delle intellettualità diffuse».
Dalle colonne di Repubblica, c’è Giachetti che giura di essere più di sinistra della Raggi. Bello sforzo, direte. Ma la candidata grillina sta facendo i salti mortali per non inimicarsi i voti dei malpancisti di destra e nel contempo accattivarsi quei pezzi di mondo dell’estrema sinistra, alcuni ipnotizzati dall’antipolitica (la retorica dell’anno zero e del tutti a casa ma anche quella simil Podemos del né di destra, né di sinistra) o in cerca di una nicchia dentro una relazione con i pentastellati (non sono sfuggiti gli avvicinamenti dell’Usb, smentiti ufficialmente, alla galassia grillina). Ieri, per l’ex praticante dello studio Previti, è stato il debutto in uno spazio occupato, il Cinema Palazzo, e per qualcuno sarebbe la controprova che, tra legalità e legittimità, la Raggi sceglierebbe la legittimità delle pratiche, il mutualismo e l’autogestione. Sarà vero?
«Gli elettori di Fassina devono porsi due domande: chi è in grado di risolvere i problemi di Roma? Io o la Raggi?», insiste Giachetti dicendo che, dal programma di Fassina, prenderebbe «la proposta sulla rinegoziazione dei tassi di interesse sui mutui del Comune. Oggi li paghiamo al 5%, si potrebbero dimezzare. Apriamo un tavolo col governo. Così avremmo più risorse per il sociale». Ma sulle privatizzazioni nemmeno un centimetro di arretramento. «Ho sempre detto che Atac va prima di tutto risanata. Pensare di privatizzarla significa svenderla. Per Ama vale lo stesso. Rispetto a Fassina penso che le quote di alcune municipalizzate, i cui servizi non competono al Comune, si possano cedere».
«Martedì un’assemblea con i nostri 400 candidati», scrive intanto su Twitter Stefano Fassina, il cui ricorso al consiglio di stato per essere riammesso alla corsa per sindaco di Roma verrà discusso lunedì. E sul Corsera, dice papale papale: «Abbiamo affrontato la sfida a mani nude, con una parte fondamentale del gruppo dirigente impegnata su un progetto diverso». «La cultura complottista non mi appartiene geneticamente. Il clima è di grande sofferenza e rabbia, ma è stato un errore formale involontario in liste che hanno tutti i requisiti previsti dalla legge. E al di là di chi materialmente è stato coinvolto, la responsabilità politica è mia. Avrei dovuto seguire direttamente anche l’ultimo passaggio». «Non si può portare avanti la fase costituente quando il nucleo fondativo ha opzioni contraddittorie – si legge ancora – la vicenda romana impone un chiarimento definitivo sulla prospettiva» di Sinistra italiana. Fassina dice di non vedere complotti: «vedo due impianti di cultura politica. Da una parte chi, come me, considera chiusa la fase del centrosinistra. Dall’altra, chi pensa che il nostro destino sia l’alleanza subalterna con il Pd. Non capisco come Giachetti possa pensare che quel pezzo di città orientato sul nostro progetto possa votare chi è stato pasdaran del Jobs act, della scuola, dello sblocca Italia, dell’Italicum». Un endorsement per la Raggi? Pare di no vista la freddezza tra i due durante il confronto al Cinema Palazzo convocato dalla galassia di movimenti e centri sociali su quel terreno di scontro urgentissimo che è la delibera 140, quel “capolavoro” politico di Marino e Nieri che ha reso precarie tutte le esperienze di autogestione della città in nome della messa a valore del patrimonio immobiliare del Comune. Per ora c’è una sorta di moratoria di fatto degli sfratti e dell’applicazione di quella norma ma da giugno si entrerà di nuovo nel vivo di uno scontro politico e sociale se qualcuno non si farà carico della riscrittura radicale di quella delibera, affinché il patrimonio possa essere interamente finalizzato a uso sociale.
Insomma anche un entusiasta come il manifesto deve ammettere stamattina che la spinta propulsiva di Sinistra italiana sembra già esaurita: «nelle città in cui non si va al voto si è fatta qualche assemblea, ma le iscrizioni sono al palo. Per correre ai ripari, nel gruppo dirigente c’è chi vorrebbe anticipare il congresso. Ma è improbabile: l’autunno sarà dedicato alla campagna del referendum costituzionale. Fassina è contrario all’anticipo e arriva al punto con un’analisi dura della débacle organizzativa che lo ha portato al limite dell’esclusione dalla corsa per Roma. Sulla quale Si aveva puntato di più. Visto che nelle altre grandi città – a parte Torino – le divisioni erano sconfortanti: a Milano la sinistra radicale distribuita fra Basilio Rizzo e il candidato Pd Sala; a Bologna fra Federico Martelloni e l’uscente Merola; e anche a Napoli, divisi in due liste benché entrambe con De Magistris».
Intanto Fassina prepara il suo dopo. L’idea è il lancio dell’associazione «Sinistra per Roma»: un contenitore politico per accogliere chi si è messo in moto in campagna elettorale, non solo i militanti della sua formazione, Sinistra italiana nata con l’esclusione di chi, come Rifondazione, chiedeva un processo unitario che non pretendesse l’hara kiri delle identità politiche. «Il processo costituente di Sinistra italiana e quello di Roma dovranno trovare una modalità per integrarsi – si legge ancora sul manifesto – sono consapevole che potranno aprirsi contraddizioni. Del resto l’esperienza romana ha dimostrato che ci sono nodi da affrontare: la cultura politica, le alleanze, l’idea stessa di un soggetto autonomo. Non si può avviare una fase costituente quando nel nucleo fondativo ci sono prospettive opposte. Se non facciamo subito chiarezza rischiamo di essere poco attrattivi. A me non interessa arrivare al primo congresso di Sinistra italiana, a dicembre, per fare una riedizione di Sel al più con qualche nuovo innesto».
Tutto ciò fa incavolare Peciola Gianluca, ex capogruppo di Sel al Campidoglio, legatissimo a Smeriglio Massimiliano, numero due di Zingaretti alla Pisana. Dice Peciola: «Le parole di Stefano Fassina sono offensive nei confronti della comunità umana e politica di Sel. Una comunità che ha espresso molta generosità nei suoi riguardi e nei confronti dei compagni usciti solo pochi mesi fa dal Partito Democratico. Prendersi la responsabilità di quanto accaduto è un atto coraggioso da parte del nostro candidato Sindaco. Ciò però che non emerge dalle sue parole, è la gravità dell’accaduto, la gravità della mancata rappresentanza di migliaia di cittadini e delle loro istanze e bisogni. Ecco, di fronte a questo disastro nessuno di noi se la può cavare scaricando le responsabilità su altre forze politiche o sulla comunità di Sel; una comunità che è sempre stata capace di aggregare consensi significativi in città, di stare dentro i conflitti e animare importanti esperienze di governo locale. Tutte capacità, queste, che hanno tra le premesse, saper presentare le liste. Infine, trovo poco ragionevole rilasciare dichiarazioni di tale portata a 24 ore di tempo dalla sentenza del Consiglio di Stato».


NIENTE DI PERSONALE

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da http://ilmanifesto.info/niente-di-personale/



Ma insomma, personalizza oppure no? Una volta dice che il referendum costituzionale sarà una sfida tra «l’Italia che vuole correre e quella ancorata al passato», che «se vince il no mi dimetto», che «il no si giustifica solo con l’odio nei miei confronti». Un’altra volta, per esempio ieri, Matteo Renzi spiega che «personalizzare il referendum non è il mio obiettivo, ma quello del fronte del no». Ha cambiato strategia, si è reso conto che puntare tutto su di sé è controproducente, vuole dare ascolto alle inquietudini di Reichlin, forse di Napolitano e magari di Mattarella? No, Renzi è semplicemente in campagna elettorale. Dunque sostiene e sosterrà di tutto, facendo capriole e cercando di occupare ogni spazio dell’offerta politica. Ci riuscirà: tv e giornali non gli fanno notare le contraddizioni. In questo momento sono impegnati a lanciare con lui la raccolta di firme per il sì – comincia sabato – mentre non hanno ancora raccontato che la campagna del no è già partita da un mese.
L’identificazione tra il governo, anzi tra il presidente del Consiglio e la riforma costituzionale non è un’invenzione degli ultimi giorni. È il tratto originario del disegno di legge (Renzi-Boschi) che il governo ha scritto, emendato a palazzo Chigi, fatto approvare da senato e camera imponendo ritmi, trucchi e strappi ai regolamenti.
Presentandosi alle camere, il presidente del Consiglio aveva promesso la trasformazione del senato. Dunque ha ragione anche Boschi quando dice (personalizzando) che «non sarebbe serio tenere distinto il giudizio sulle riforme da quello sul governo». Ma in quel discorso Renzi aveva demolito il personale politico delle regioni: «È cambiato il clima per quello che è accaduto sui rimborsi elettorali». Pensava allora a un senato dei sindaci; rischiamo un senato di consiglieri regionali in gita a Roma.
Riportare la campagna elettorale al contenuto della riforma è faticoso, le pillole di «merito» dispensate da palazzo Chigi sono tutte avvelenate. «Se vince il sì, per fare le leggi e votare la fiducia sarà sufficiente il voto della camera come accade in tutte le democrazie», ha scritto ieri Renzi. Ma in Europa ci sono 13 paesi con un sistema parlamentare bicamerale, tra i quali Germania, Francia e Spagna. Bicamerale resterà anche il nostro: dopo la riforma ci saranno almeno sei diversi procedimenti legislativi, quattro dei quali passano per il senato. Non lo diciamo noi: lo ammette il governo nel volantino che ha prodotto per spiegare il nuovo articolo 70 della Costituzione. Prima era composto da 9 parole e adesso, per «semplificare», da 439.

IL DASPO DI HOLLANDE

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da  http://popoffquotidiano.it/2016/05/16/parigi-il-daspo-di-hollande-contro-nuit-debout/

Parigi, il “daspo” di Hollande contro Nuit Debout. Anche in Italia il daspo come arma di repressione dei movimenti sociali

di Checchino Antonini


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A militanti antifascisti e anticapitalisti di Parigi è stato notificato il divieto di partecipare alle manifestazioni contro il Job Act francese, e ad avvicinarsi a Place de la République, dove si tiene la Nuit Debout.
I collettivi colpiti dal provvedimento hanno diffuso oggi pomeriggio sui social l’ordinanza del prefetto di polizia Cadot. La prefettura ha confermato.
I militanti hanno dichiarato che se il governo e la prefettura pensavano di intimidirli, hanno ottenuto l’effetto contrario, convincendoli della necessità di lottare contro la legge El Khomri e contro lo stato d’emergenza, che sta uccidendo le libertà civili in Francia.
CifvHHgXAAAEoKx.jpg-small IL “DASPO” RECAPITATO AGLI ATTIVISTI FRANCESI
Le disposizioni dello stato di emergenza, introdotto dopo gli attentati del 13 novembre, consentono ai prefetti di “vietare la permanenza in qualsiasi parte del dipartimento” e fin da subito s’è rivelato un’arma affilata contro le mobilitazioni sociali. Lo stato di emergenza è stato utilizzato immediatamente per giustificare l’arresto di attivisti ambientali alla COP 21 di dicembre e la repressione violenta delle manifestazioni di quei giorni.
Anche in Italia, dal 2012 si lavora a un Daspo (acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive in vigore dall’89 e che vieta la presenza allo stadio da uno a cinque anni) per i cosiddetti violenti a riprova del fatto che gli stadi sono un laboratorio di repressione. L’idea, di dubbia costituzionalità, è stata rimpallata dalla ministra Cancellieri al suo successore Alfano così, dall’agosto 2014, c’è una sorta di “Daspo di piazza”. Nell’ottobre del 2015, quattro ragazzi sono stati denunciati a Livorno per aver preso parte alle contestazioni a Matteo Salvini di fronte a una struttura che doveva ospitare cinque migranti minorenni.
All’inizio di gennaio 2016, sei persone a Pisa sono state raggiunte dalla diffida per aver partecipato a una manifestazione contro un comizio della Lega Nord tenutosi il 14 novembre 2015, in cui ci sono stati scontri con la polizia. Poco dopo la Questura di Pisa ha emesso altre diffide nei confronti di due persone che avevano preso parte anche solo parlando al megafono – il 13 novembre 2015 – a una manifestazione per il diritto alla casa, contrassegnata dalle ripetute cariche delle forze dell’ordine dentro e fuori il Comune di Pisa. Una misura sufficiente per complicare la vita a una persona per anni senza neanche dover fornire le prove delle accuse. Il paradosso, che ha tutta l’aria di una sperimentazione, è che si riceve il divieto di andare allo stadio per aver commesso presunti reati in contesti diversi dallo stadio, come appunto una manifestazione politica.
Nella vulgata giornalistica si parla di «Daspo cittadino» per allontanare chiunque commetta reati contro la sicurezza nelle città. Il daspo cittadino colpirà soprattutto immigrati che per campare vendono prodotti contraffatti e spesso made in Italy. Il governo sta per intervenire con una legge apposita come annunciato da Renzi stesso che comporrà un unico calderone com oppositori politici, attivisti sociali, migranti, tifoserie, studenti fuori sede, writers, senza casa, mendicanti e ladruncoli. L’Anci plaude – «La priorità è fare, delle nostre città, città più sicure» ma anche «garantire ai cittadini la percezione della sicurezza», ha detto Fassino – ma sono in gioco le libertà collettive e individuali.

LA BANCA, QUELLA CHE TI SFRATTA...

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da http://www.senzasoste.it/politica/tutto-il-potere-alle-banche-a-cominciare-dallo-sfratto

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Alessandro Avvisato - tratto da http://contropiano.org
Un governo criminale nasconde nel silenzio i suo gesti inguardabili e si fa dipingere come un santo da media compiacenti. Storia vecchia come il mondo, ma sempre attuale.
C’è voluta una mezza protesta degli ufficiali giudiziari – proprio quelli che ti notificano un avviso di sfratto o similari – per avere nozione esatta delle conseguenze sociali di un codicillo compreso in una nuova legge partorita in assoluto silenzio da Renzi, Boschi & co.
Si tratta dell’articolo 4 del decreto legge del 3 maggio 2016, numero 59, comunemente chiamato “decreto banche”. Una legge di “semplificazione”, è stato detto e scritto, ma di cosa?
Semplice davvero: se non ce la fai a pagare la rata del mutuo la banca ti si prende la casa subito, senza passare più dal giudice, quindi senza neanche il preavviso di sfratto (impugnabile, rinviabile, appellabile) che ti veniva “notificato” appunto da un ufficiale giudiziario.
Da settembre insomma, alla tua porta si presenterà un “custode” nominato dalla banca (quasi sempre un avvocato), con tanto di pattuglia di agenti di polizia preparati per buttarti fuori di casa senza alcun preavviso. Così, dalla sera alla mattina, mentre ti stai preparando il caffè, preparando i figli per la scuola o facendo la doccia.
Tecnicamente, uno sfratto per mancato pagamento delle rate del mutuo, dunque per pignoramento, si chiama “ordine di liberazione”, ovvero svuotamento dell’immobile da persone e cose. E questo il “custode” e la polizia si limiteranno a fare. Dove andrà la famiglia buttata in starda in poche ore? E che gliene frega a loro…
Una tecnica esecutiva così brutale fa pensare che la norma sia stata studiata proprio per evitare una reazione sociale organizzata, come avviene – fortunatamente – in molte città con i presìdi antisfratto. Ma in realtà la portata della legge è assi più ampia (ne avevamo parlato qualche giorno fa proponendovi un articolo di Pasquale Cicalese (http://contropiano.org/documenti/2016/05/16/si-prepara-la-piu-grande-distruzione-economica-dellitalia-079179).
Di fatto, in qualsiasi caso di ritardo nel pagamento dei debiti, si supera automaticamente qualsiasi procedura giudiziaria e subentra il cosiddetto “patto marciano” che ora – attenzione – sta iniziando a preoccupare persino Confindustria (vedi i due articoli allegati qui in fondo). Per il buon motivo che la “garanzia” offerta dal debitore (tipicamente un immobile) al creditore passa in questo modo di proprietà in un attimo. A richiesta del creditore.
Nel caso di una normale famiglia, come si è visto, nessuno se ne preoccupa. Nel caso di una impresa industriale, commerciale o dei servizi, invece, c’è Confindustria che – ieri, nel corso di un’audizione in Commissione Finanze al Senato – è andata a chiedere modifiche per “riequilibrare il rapporto tra banche e imprese”. Nel senso che la normativa appena approvata attribuisce un potere assoluto a creditore, ossia alla banca; e questo, come ampiamente previsto, rischia di provocare un collasso industriale mai visto. La banca, infatti, pensa soltanto a rientrare del proprio prestito. Cosa accade dell’industria (o della famiglia mutuataria) non è affar suuo.
Nè – alla luce del “decreto banche” – dello Stato.
Gli articolo da IlSole24Ore di oggi:
18 maggio 2016

JOBS ACT E INCENTIVI

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da http://www.senzasoste.it/lavoro-capitale/catastrofe-jobs-act-senza-incentivi-crolla-l-occupazione-e-nel-2016-pi-voucher-per-tutti

renzi babbeotratto da Il Manifesto
Inps. I dati sul fallimento della riforma del lavoro: tagliati gli sgravi alle imprese i contratti a tempo indeterminato crollano del 33%, il saldo è a meno 77%. Il record dei voucher: +45% nel 2016. L’occupazione è inferiore al peggiore anno della crisi: il 2014. I 14 miliardi di incentivi pubblici alle imprese: un trasferimento di ricchezza al capitale. Le perdite sono di tutti, i guadagni sono di pochi.
L’unico successo che il governo Renzi ha raggiunto con il Jobs Act è la legalizzazione del caporalato postmoderno: il voucher, il lavoro-spazzatura che si compra con lo scontrino in tabaccheria. Lo confermano i dati dell’osservatorio sul precariato dell’Inps: tagliati del 40% gli sgravi contributivi alle imprese, il saldo è crollato del 77% rispetto al 2015 ed è più basso del 2014. Nel primo trimestre del 2016 i contratti a tempo indeterminato sono crollati del 33 per cento: 51mila unità, contro i 225mila di un anno fa. Dunque 162 mila in meno, proprio nell’anno dei contributi più alti.
Nei primi tre mesi del 2016 le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato sono crollati del 31%: meno 53.339 contratti. Nel 2014, quando lo stato italiano non aveva ancora iniziato a regalare al capitale privato tra i 14 e i 22 miliardi di euro, era di -42.527. La droga monetaria non è servita nemmeno a creare più occupazione rispetto all’anno peggiore della crisi: il 2014: allora il 36,2% dei contratti era a tempo indeterminato, oggi solo il 33,2% dei nuovi contratti è a tempo indeterminato.
inps resa conti
Gli incentivi non sono serviti a nulla: nel 2016 i nuovi rapporti di lavoro sono inferiori al 2014
Il contribuente paga doppio
A rafforzare la tendenza reale, già nota e raccontata tempestivamente su Il manifesto, arrivano i dati sui rapporti precari che invece sono aumentati del 22%, mentre i voucher raggiungono un nuovo record: +45% (+31.5 milioni, una crescita del 75,4% rispetto al 2014). Mese dopo mese, si delinea anche l’esito finale della “riforma” del lavoro renziana: quando, infatti, gli incentivi saranno finiti nel 2018, i pochi assunti con il Jobs Act potrebbero tornare ad essere disoccupati. E il governo, con ogni probabilità, sarà costretto a istituire ammortizzatori sociali eccezionali – sul modello della cig straordinaria del 2007 – per rimediare al flop colossale.
Il contribuente pagherà doppio: prima i fondi ai privati, poi i soldi per rimediare al loro opportunismo e alla strategia programmatica del governo: drogare le statistiche per ottenere dalla Commissione Europea e dalle istituzioni dell’austerità (dalla Bce all’Fmi) il plauso per avere risollevato apparentemente il mercato del lavoro con una delle riforme da loro auspicate. La recente lettera inviata al ministro dell’Economia Padoan dai commissari Dombrovskis e Moscovici elogia la riforma del lavoro italiana. Per icommisssari èla prova della buona volontà dei nostri governanti che procedono nella giusta direzione. Considerati i dati, e la realtà a cui rimandano, è necessario interrogarsi se la strada non porti in un burrone.
Oltre alla concessione limitata della “flessibilità” di bilancio pari a 14 miliardi di euro per il solo 2016, la lettera rivela finalità ultima delle speculazioni italiane sul lavoro: nascondere i dati reali di una crescita senza occupazione e assicurare una delle leggi della diseguaglianza: le perdite sono di tutti, i guadagni sono di pochi. Quella di Renzi non è insipienza, incapacità o canaglia: è una deliberata convinzione populista di truccare i numeri sull’occupazione, e il loro significato, per ottenere guadagni politici e accreditamento personale. Suo complice è la governance europea che cerca di blandire con diplomazia. Quello che è certo è che gli effetti di questa politica sono solo all’inizio e non mancheranno rovesci drammatici.
La bolla si sgonfia
«Avevamo previsto – afferma il segretario confederale della Cgil Serena Sorrentino – che l’occupazione sarebbe cresciuta di circa la metà rispetto a quanto annunciato dal Governo. Avere ragione non è una soddisfazione perché parliamo di circa 15 miliardi di risorse pubbliche investite male e di tante speranze deluse per milioni di giovani italiani». «Il Governo, come diciamo da mesi, può correggere gli errori e cambiare sia il meccanismo della decontribuzione che le norme del Jobs act».
La crescita abnorme dei voucher, divenuti la frontiera della precarietà e, in alcune circostanze, lo strumento per coprire il lavoro nero non sarà arrestato dalla tracciabilità annunciata più volte dal governo: «Occorrerà limitarne in modo significativo l’ambito di utilizzo – sostiene il leader Uil, Carmelo Barbagallo – è stato il taglio degli investimenti, conseguente al fiscal compact a far crollare la nostra economia. Non c’è altra strada: servono investimenti pubblici e privati e restituire potere d’acquisto».
Di «FlopsAct», «truffa Jobs Act», «doping» erano infarcite le dichiarazioni delle opposizioni, a partire dai Cinque Stelle. Al netto di qualche surreale dichiarazione della corte renziana, ieri il presidente del Consiglio ha taciuto, riservandosi probabilmente una risposta nell’esibizione settimanale #matteorisponde sui social convocata in serata. Per ore, ieri è rimbalzato un suo tweet del 29 aprile scorso che oggi può essere consegnato all’archeologia del renzismo rampante: «I dati del lavoro? Dimostrano che #jobsact funziona: #italiariparte grazie alle riforme e all’energia di lavoratori e imprenditori #segnopiù».
Renzi: sui numeri del Jobs Act si dicono balle
La reazione è sempre la stessa. Sui numeri del Jobs Act “sono state scritte clamorose balle” ha detto in diretta facebook e twitter. E poi un’affermazione da brivido: gli incentivi hanno “funzionato”. “È il loro compito – detto Renzi -. Hanno funzionato nel 2015. Nel giro di due anni abbiamo recuperato 400mila posti di lavoro. Abbiamo interrotto la caduta. Nel dare i dati trimestrali dell’Inps si è visto che il saldo positivo è più piccolo dello scorso anno. Non è che ci sono meno posti di lavoro, prosegue ma siccome gli incentivi sono ridotti è cresciuta meno l’occupazione, va meno veloce ma continua a crescere”.
La verità è opposta a quanto detto da Renzi. Il dato che dimostra che gli incentivi non funzionano è quello sull’anno, non sul trimestre dove (ancora) crescono. La tendenza mostra che l’occupazione diminuisce con il diminuire degli sgravi. Nel 2018 si arriverà al punto zero: niente sgravi, niente occupazione. E’ l’effetto tossico creato dai fondi a pioggia. Una droga che non smette di creare allucinazioni a palazzo Chigi.
19 maggio 2016

WEEK END MAGAZINE

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A SILVIA



Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? Perché di tanto
inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.

Anche peria tra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negàro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.


(Giacomo Leopardi)

L'ERA DEL PETROLIO

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da http://www.senzasoste.it/le-nostre-traduzioni/fine-dell-era-del-petrolio


petrolio estrazione

L’oro nero tra caduta dei prezzi e guerre commerciali. In futuro solo un’economia globale meno dipendente dai consumi energetici potrà garantire pace e sostenibilità
Alla fine del 2015 il prezzo del petrolio era crollato ai valori di inizio secolo, dopo aver raggiunto un picco vicino ai 150 dollari al barile nel 2008. Le previsioni indicano che i prezzi continueranno a mantenersi bassi per tutto il 2016, cosa che sembra difficile da spiegare in un mondo nel quale è sempre più costoso produrre petrolio. Tuttavia questa situazione viene, paradossalmente, a confermare la fine dell’era del petrolio poco costoso. Vale la pena di provare a dare una risposta a quello che sta succedendo.
Crisi nei petroli convenzionali e non convenzionali
All’inizio di questo secolo la minaccia del “picco” del petrolio (massimo mondiale possibile di produzione) caratterizzava le analisi del mercato petrolifero. L’attesa di un’evidente restrizione dell’offerta di greggio portò gli investitori a orientare le loro risorse verso una nuova tecnologia: lo “shale oil” e il “tight oil” (petrolio di scisto o da formazioni compatte). L’aspettativa di prezzi alti provocò una “rivoluzione dello shale” negli Stati Uniti. La conseguenza fu che a partire dal 2010 la produzione di petrolio in questo paese passò da 0,5 a 4,5 milioni di barili al giorno nel 2014. Ma la macchina ha ucciso l’inventore e l’offerta nordamericana ha inondato il mercato, cosa che insieme alla decelerazione dell’economia ha provocato la caduta dei prezzi. Le compagnie petrolifere nordamericane hanno cominciato a tagliare le spese, hanno venduto titoli, hanno ridotto a meno della metà la quantità di pozzi, ma la maggioranza delle imprese è riuscita a sopravvivere. Tuttavia, già sotto i 50 dollari al barile, imprese perforatrici come la Samson Resources e la Magnum Hunter Resources hanno dichiarato fallimento e ci si attende che altre le seguano (come la Chesapeake, la Southwestern Energy e la Ultra Petroleum). Se i prezzi rimarranno sotto i 50 dollari al barile, la crisi dello shale negli Stati Uniti potrebbe far crollare le istituzioni bancarie e finanziarie che lo avevano reso possibile, così com’è stato segnalato da vari analisti. Ma la crisi non ha colpito solo le compagnie petrolifere nordamericane: la Bp ha annunciato la riduzione del suo personale del 15%, la Pemex ha comunicato che licenzierà 13.000 lavoratori, la Shell ha venduto parte dei suoi titoli, solo per fare alcuni esempi. L’Opec nel frattempo ha mantenuto alti i suoi volumi di produzione (con costi minori dei suoi avversari dello scisto) nel tentativo, secondo alcuni analisti, di demolire l’industria nordamericana. Tuttavia questa strategia risulta pericolosa perché danneggia le economie dei paesi arabi e di altri stati petroliferi. A tal punto che il governo saudita sta studiando la possibilità di privatizzare alcuni settori dell’impresa petrolifera nazionale, la Saudi Arabian Oil Co. (Saudi Aramco). Questa è l’unica impresa produttrice di petrolio saudita, possiede le seconde maggiori riserve di petrolio del mondo e controlla la produzione di più del 10% del petrolio mondiale.
In Arabia Saudita il deficit del 2015 ha raggiunto i 98 miliardi di dollari (il doppio del previsto) e i prezzi interni del petrolio sono saliti del 40%. Provvedimenti simili sono stati presi in altri paesi come gli Emirati Arabi e il Venezuela. Gli Stati arabi dell’Opec si trovano ad affrontare i gravi problemi politici che scaturiscono dalla riduzione della spesa sociale statale e l’aumento dei prezzi dei beni di consumo provocato dalla caduta delle entrate fiscali. Tutta la zona si è trasformata in una polveriera. Il ritorno sul mercato dell’offerta iraniana dopo l’eliminazione delle sanzioni commerciali non farà altro che rafforzare la tendenza ai prezzi bassi del petrolio. I primi messaggi lanciati da Teheran confermano i suoi piani di esportare tutto il greggio possibile, il che aumenterà l’eccesso di offerta. L’altra visuale sulla caduta dei prezzi è in relazione non tanto con l’“eccesso di offerta” di greggio, ma piuttosto con la “scarsità di domanda” che trae origine dalla decelerazione dell’economia, particolarmente di Cina, Brasile, Russia e Unione Europea. A questo si aggiunge un inverno mite che ha ridotto la domanda di riscaldamento in Giappone, Europa e Stati Uniti. Si deve rilevare che tutte le materie prime si sono svalutate e non solo il petrolio, manifestando una forte contrazione sui mercati. Attualmente si calcola che l’offerta quotidiana di greggio sia di uno o due milioni di barili al di sopra della domanda. Pertanto, sembra abbastanza verosimile supporre che il prezzo del petrolio sia sceso per la crisi economica più che per speculazioni del potere geopolitico.
Prezzi futuri
Fare pronostici sui prezzi futuri del petrolio è un’avventura. Ci sono troppi fattori che influiscono nel gioco e a dire il vero sono poche le proiezioni che si avverano. Inizialmente c’è da aspettarsi che i bassi prezzi finiscano per aumentare la domanda e vengano liquidate le eccedenze di petrolio, per cui i prezzi potrebbero tornare a salire. Ma questo non dovrebbe succedere quest’anno. D’altro canto ci sono troppi attori governativi interessati a mantenere bassi i prezzi. Abbiamo già citato l’Arabia Saudita e la sua battaglia contro lo scisto statunitense. Ma a differenza di quanto accade in Arabia Saudita dove la proprietà del petrolio e l’impresa sono statali, negli Stati Uniti la proprietà è privata. Bisogna vedere fino a che punto gli interessi interni pesano su quelli geopolitici e fino a dove sarà disposta ad arrivare l’amministrazione Obama per cercare di distruggere altre economie petrolifere come quella di Arabia Saudita, Russia o Venezuela. Peraltro bisogna far notare che l’opinione pubblica statunitense è felicissima per la diminuzione dei prezzi interni della benzina. La Russia da parte sua ha svalutato molto la sua moneta e pertanto le entrate in dollari convertiti in rubli si mantengono relativamente costanti nonostante la caduta del prezzo del petrolio. Qualcosa di simile accade in altri paesi esportatori come il Brasile o il Canada. L’equilibrio tra i costi della svalutazione della moneta e la diminuzione in dollari delle esportazioni ha risultati diversi secondo gli analisti e non si riesce ad avere una risposta unanime. Quel che è certo è che gli investimenti in esplorazioni e sfruttamento del petrolio sono diminuiti del 20% nel 2015 ed erano già scesi del 15% nel 2014. Le “teste perforatrici” (rigs) nel mondo si sono ridotte del 40% nell’ultimo anno e ci sono varie imprese in bancarotta. È possibile che per gli investitori ormai non sia tanto sicuro investire in petrolio come negli anni precedenti. I nuovi investimenti si sono concentrati negli ultimi tempi nel petrolio di scisto (ormai non ci sono quasi più riserve convenzionali da scoprire) e questi ultimi due anni hanno dimostrato la fragilità del settore di fronte alle fluttuazioni dei prezzi del greggio. Il fatto che le compagnie petrolifere stiano fallendo è la miglior prova che l’era del petrolio poco costoso è finita.
Fluttuazioni e meccanismi a catena
I prezzi del petrolio hanno sempre fluttuato. Quando i loro valori sono bassi, l’economia cresce, aumenta la domanda e comincia a salire il prezzo. Quando i prezzi sono sufficientemente alti da danneggiare l’economia, allora comincia la decelerazione e con questa la caduta della domanda, per cui tornano i prezzi bassi del greggio. Questo ciclo si è ripetuto periodicamente negli ultimi cinquant’anni. Tuttavia ora siamo di fronte a un cambiamento strutturale in questo ciclo: il petrolio convenzionale sta finendo (la maggioranza dei giacimenti sono già entrati in declino) e il non convenzionale non può essere estratto a meno di 100 dollari al barile. Questo vuol dire che il nuovo livello base del ciclo del petrolio futuro dovrebbe stare al di sopra di questo valore. Questo “eccesso di offerta” di greggio che oggi viviamo è il risultato di investimenti speculativi nello scisto statunitense che è sopravvissuto e ha prodotto ingenti quantità di volumi mentre il suo prezzo era al di sopra dei 100 dollari al barile. Sotto questa soglia le imprese non sopravvivono. Una volta che i depositi attualmente pieni si saranno svuotati e la domanda riprenderà a crescere, i prezzi torneranno a salire. Ma gli investitori ormai sono sull’avviso. Lo scisto non tollera le fluttuazioni dei prezzi e i saliscendi dell’economia che sopportava il petrolio convenzionale. Le banche sono allertate: non saranno più tanto convincenti le aspettative di profitti relativi ai greggi non convenzionali. Il petrolio inoltre deve affrontare due potenti concorrenti: il progresso delle tecnologie per l’uso di fonti rinnovabili e gli accordi internazionali per limitare il cambiamento climatico. L’attuale caduta dei prezzi è figlia dell’eccesso di offerta combinato con la scarsità di domanda. Una volta tornati in equilibrio i due termini dell’equazione, difficilmente il greggio tornerà ai prezzi bassi. Ma il petrolio non è una merce qualsiasi. È l’energia più versatile e utile per alimentare il motore dell’economia. Il petrolio poco costoso è ciò che ha favorito l’espansione economica globale negli ultimi sessant’anni. E ogni volta che il petrolio è salito o ha scarseggiato l’economia globale ne ha risentito. Non sembra che sarà facile sostenere la crescita economica globale con fonti energetiche meno versatili e più costose. Assicurare la pace e la sostenibilità futura dovrebbe andare di pari passo con un’economia globale meno dipendente dai consumi energetici e, probabilmente, più austera.
Fonte: Rebelión - Traduzione per Senza Soste di Nello Gradirà

GRECIA SVENDESI

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da  http://popoffquotidiano.it/2016/05/23/grecia-svendesi-causa-troika-il-capolavoro-di-tsipras/

Il parlamento greco ha approvato il pacchetto di misure più punitive dall’inizio della crisi.  Tagli alle pensioni e ai salari, più tasse e la svendita di 71.500 pezzi di proprietà pubblica privilegiata

di Giulio AF Buratti
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«Io sono in lutto», ha detto alla fine un deputato di Syriza, Dimaras, per essere stato costretto a sostenere le misure contro le quali dice di essersi battuto tutta la vita. «Questo è quello che può essere chiamato solo miseria».
Dopo il dibattito il Parlamento greco ha votato ieri il disegno di legge che include misure richieste dagli istituti di credito alla Grecia, il pacchetto più punitivo della storia di questa crisi in atto dal 2007. 153 parlamentari hanno votato a favore, 145 hanno votato contro. Si tratta di un pacchetto brutale di misure di austerità: 7500 pagine di privatizzazioni, aumenti delle tasse e tagli su pensioni e salari. Con l’eccezione dell’Acropoli, la Grecia sta per svendere tutto ciò che possiede sotto il sole. Il nuovo fondo di privatizzazione, responsabile del patrimonio immobiliare per i prossimi 99 anni, supervisionerà sotto la guida di funzionari dell’UE la vendita di circa 71.500 pezzi di proprietà pubblica privilegiata.
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Sotto il parlamento, sopra guardie imbarazzate in divise storiche, uno striscione gigantesco: «Il memorandum non passerà». Lo hanno portato nel pomeriggio i militanti di Unità Popolare, la coalizione nata a luglio dalla fuoriuscita della sinistra interna da Syriza, all’indomani della svolta di Tsipras di accondiscendere ai diktat della Troika anziché disobbedire, sull’onda del sostegno popolare, all’imposizione di ulteriori misure di austerità.
Le dimostrazioni popolari si sono riprese le strade di Atene. I sindacati hanno marciato verso piazza Syntagma mentre i mezzi di trasporto erano fermi per lo sciopero di 48 ore iniziato durante il fine settimana. Varie manifestazioni sono state convocate da Gsee, confederazione generale dei lavoratori greci, ADEDY, sindacato dei lavoratori pubblici, il PAME, sindacato vicino al Kke.
Tsipras ha provato a spacciare per un proprio successo il dibattito sull’insostenibilità del debito greco dopo le recenti aperture del Fmi ma solo un partito di “sinistra” – come accaduto in altri paesi, Italia in testa – avrebbe potuto condurre in porto controriforme e austerità. Se la destra fosse stata al potere, Atene sarebbe davvero in fiamme.
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HOFER E I VOTI PROLETARI

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Molti hanno esultato per la sconfitta di Hofer come se si trattasse dell'ultima battaglia mentre non è nemmeno la prima: se vediamo il numero enorme di persone, soprattutto tra le classi subalterne che verranno sempre più impoverite dalle politiche europee, che lo ha votato, capiamo che c'è poco da stare allegri: a meno che non si cada nell'elettoralismo, siamo in una situazione che in prospettiva di breve futuro è tragica. Le sinistre che fanno politiche padronali, la sinistra anticapitalista che non sa sganciarsi dall'appoggio a queste 'sinistre imperiali' e le destre che, in mancanza di un progetto organico che non siano parole d'ordine umanitariste o emergenzialiste, continueranno inevitabilmente a crescere coi voti delle classi subalterne...questo il quadro che abbiamo davanti.




Austria. Il successo dei nazionalisti grazie all’elevato consenso raccolto tra gli operai e i lavoratori non qualificati. Anche se sconfitto, Hofer ha ottenuto il più alto e preoccupante numero di preferenze. Al ballottaggio l’esibizione di una spilla a forma di fiordaliso. Simbolo antisemita del nazionalsocialismo



Malgrado alcuni media europei non abbiano esitato a presentarlo come il «volto gentile della destra xenofoba», Norbert Hofer non ha mai davvero rinunciato a toccare le corde anche più delicate, compresi i riferimenti nostalgici, che hanno fatto nell’ultimo mezzo secolo la fortuna del suo Freiheitlichen Partei Österreichs, Fpö. Al punto che il candidato ultranazionalista, partito come outsider e giunto fin sulla soglia del palazzo dell’Hofburg di Vienna, battuto infine di misura per qualche decina di migliaia di voti, sembra incarnare fino in fondo il profilo sinistro di quella che tra le nuove destre europee è per certi versi la formazione che continua a pagare il debito più vistoso con il passato.
Le ragioni del successo di questo partito, che pur sconfitto fa registrare in questa elezione il suo record da sempre di consensi, sono ovviamente tutte attuali – un inquietante voto “di classe” lo si potrebbe definire, con punte superiori al 70% tra operai e lavoratori non qualificati -, ma sembrano inscriversi in un contesto culturale di lunga durata.
Lo ha rivelato del resto lo stesso Hofer che dopo aver espresso alla vigilia del primo turno la propria sfiducia nei confronti della tenuta dei confini esterni dell’area Schengen, al pari della convinzione che l’Islam fosse estraneo alla cultura austriaca, in vista del ballottaggio ha pensato bene di esibire una spilla a forma di fiordaliso all’occhiello della giacca. Un simbolo che evoca un passato tutt’altro che innocente: era infatti utilizzato come segno di riconoscimento dagli aderenti ai movimenti pangermanisti e antisemiti che sostennero l’ascesa al potere del nazionalsocialismo. Il tutto in un paese che ha spesso evitato di fare i conti con il proprio passato nazista e che solo nel 1986 elesse alla presidenza Kurt Waldheim, candidato dai popolari, malgrado le tante ombre emerse sul suo passato di ufficiale della Wehrmacht tra la Grecia e i Balcani.
Di questa cattiva coscienza del paese, denunciata per tanto tempo da Thomas Bernhard, l’Fpö è stato a lungo il fantasma più inquietante. Nato negli anni Cinquanta da quell’Unione degli Indipendenti che aveva raccolto i consensi e una parte del personale politico degli ex nazisti, ancora nelle elezioni presidenziali del 1986, i liberalnazionali candidavano Otto Scrinzi, ex docente dell’Istituto di biologia delle razze di Innsbruck ed ex Sturmführer, comandante delle squadre d’assalto delle Sa hitleriane.
Proprio la vecchia guardia nostalgica aveva scelto alla fine degli anni Ottanta di affidare le redini del partito ad un giovane, classe 1950, il governatore della Carinzia, Jörg Haider, la cui famiglia si era arricchita durante la guerra mondiale grazie alle leggi di “arianizzazione” che avevano costretto gli ebrei a svendere le loro proprietà. Prima di schiantarsi nel 2008 con la sua berlina di lusso alle porte di Klagenfurt, Haider riuscirà, alla fine degli anni Novanta, a trasformare il partito nella seconda forza politica del paese e a concludere un accordo di governo con i popolari che sarebbe durato fino al 2002. Lo stesso Haider, celebre per aver lodato la politica sociale del Terzo Reich, avrebbe lasciato i liberalnazionali nel 2005, accusando il suo delfino Heinz-Christian Strache, di sostenere una linea troppo radicale.
In realtà, se Haider era stato l’interprete di ciò che i politoligi definiranno come “micronazionalismo alpino”, sostenendo le tesi di una ritrovata identità austriaca, Strache, un odontotecnico viennese con un passato nelle confraternite studentesche pangermaniche, è stato l’inventore della formula del “Die soziale Heimatpartei” più o meno letteralmente il partito patriottico-sociale o nazional-sociale con cui l’Fpö è tornata a mietere consensi dopo una fase di appannamento.
Mentre i nuovi nemici diventavano i musulmani piuttosto che gli immigrati tout court, e la politica di Bruxelles piuttosto che l’Euro, ancora nelle precedenti elezioni presidenziali, quelle del 2010, l’Fpö aveva pensato bene di candidare Barbara Rosenkranz, una vita nella destra ultranazionalista ai confini con il neonazismo, nota per essere contraria alle leggi contro l’apologia dell’epoca hitleriana ma anche per i suoi dieci figli: «ognuno con il nome di un dio germanico».

LA FRANA

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da http://ilmanifesto.info/cattivi-presagi-per-palazzo-chigi/


Scricchiolii. Giù le assunzioni, l’industria, il Lungarno, perfino la stella Boschi non brilla più. Nelle comunali più difficili della storia del Pd, l’«onda lunga» di Renzi teme il riflusso. L’unico punto fermo, per ora, è Angela Merkel



Chissà se Renzi crede nei presagi e teme i segnali celesti oppure se, convinto che i rituali con cui gli Achei chiedevano lumi siano solo un espediente per passare di livello nell’Iliade versione play station, si fida solo degli aridi dati. In entrambi i casi, ieri non deve aver passato una tranquilla nottata.
La voragine che ha ingoiato una ventina d’auto, 5 miliardi e la residua immagine del Paese agli occhi di mezzo mondo, non può certo essere addebitata all’ex primo cittadino della città di Dante, che già da anni si occupa d’altro. Ma un crollo rovinoso proprio nel cuore della sua Firenze avrebbe insospettito Ulisse e consigliato prudenza ad Agamennone, senza neppure bisogno di consultare l’oracolo.
Certi segnali si spiegano da soli.
È improbabile che il ragazzo di Rignano permetta alla magia di inquietarlo più che tanto. Ma non è che sul fronte della razionalità le cose ieri fossero messe molto meglio.
Nei titoli la medesima parola, «crollo», era adoperata per indicare la frana fiorentina e quella della produzione nazionale. Il 3,6% in meno rispetto all’anno scorso non è poco ma il dato disaggregato, secondo cui a trascinare verso il basso è il settore principe dell’auto, che flette addirittura del 6,5%, è peggio.
Non succedeva dal dicembre 2013 e un indovino potrebbe leggere anche in questo un segnale poco roseo: proprio dopo quel dicembre iniziò infatti, tra annunci trionfali e promesse folgoranti, l’era Renzi e con essa una lentissima ma indiscutibile ripresa.
Craxi chiamava questo tipo di successo «onda lunga». Quando, nel 1992, rifluì per la prima volta la prese malissimo. Sei mesi dopo era un ex leader.
L’intera truppa renziana ha fatto muro, ieri, contro chiunque intravedesse nel crollo, quello dell’industria, non quello del lungarno, un fallimento del «magnifico»: una rondine non fa primavera e un corvaccio non fa inverno.
Però qui i corvi sono almeno due: sono passati pochi giorni da quando la parola maledetta campeggiava a proposito della picchiata delle assunzioni, inabissatesi con gli incentivi. Non occorrono gli aruspici per stabilire che la somma tra il crollo della produzione e quello delle assunzioni difficilmente la si può contrabbandare per risultato confortante sull’unico fronte che agli italiani davvero preme.
A guardare bene, qualche altro crollo che dovrebbe preoccupare l’inquilino di palazzo Chigi si è già dato.
La sua ministra preferita è stata per mesi l’unica, nel pattuglione femminile messo in campo dal gran capo, a poter vantare qualcosa in più di una cieca fedeltà e della capacità di assaporare con gusto degno dei trionfi berlusconiani la formuletta «il presidente Renzi». Se non proprio simpatica, dote che nell’entourage del rottamatore è più rara del platino, Maria Elena Boschi era la sola ad apparire fredda, lucida e persino preparata. Sarà per la pressione di chi vede gli esami avvicinarsi, sarà perché in famiglia qualche guaio serio forse c’è, ma nelle ultime settimane, tra una topica e l’altra, tra CasaPound e i partigiani arruolati a forza, anche quell’immagine è precipitata.
Al momento Renzi può vantare a buon diritto un solo indiscutibile successo: la benevolenza di Angela Merkel, che ne ha fatto il favorito di corte e ha pertanto rovesciato come un guanto la disposizione tedesca nei confronti dell’Italia, dall’arcigna ostilità con cui trattava Berlusconi al sorriso condiscendente con cui ora permette all’Europa di aprire i cordoni della borsa a nostro vantaggio come mai in precedenza.
È un risultato importante, anche prezioso, dovuto in parte al fatto che i tedeschi sono rigidi ma non stupidi, e quando la casa è in fiamme sono in grado pure loro di avvertire il puzzo di bruciato, ma in parte anche alla sapiente alternanza di grinta e disponibilità con la quale il fiorentino ha saputo sedurli. Neppure i favori dell’imperatrice però sono una cambiale in bianco: dipenderanno da se i dati di ieri verranno smentiti o confermati nei prossimi mesi.
C’è però un possibile dissesto che Renzi teme molto più di quelli su elencati. Se dopo le comunali i giornali dovessero titolare «Crollo del Pd», nemmeno la sua proverbiale faccia tosta basterebbe a far credere che il fattaccio non riguarda il governo.

FRANCIA: IL GOVERNO TREMA

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da http://popoffquotidiano.it/2016/05/26/la-francia-contro-il-jobs-act-e-il-governo-trema/

Ottava giornata di azione intersindacale generale. Blocchi della produzione e barricate in tutta la Francia. Scontri a Parigi e Amiens. Il governo trema

di Giampaolo Martinotti
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Sulla scia della grande mobilitazione in atto in tutta la Francia, e dopo l’annuncio della CGT, la Confédération générale du travail, a proposito dello sciopero illimitato che dovrebbe riguardare le ferrovie dello stato e la rete metropolitana della capitale a partire dal 2 giugno, s’inasprisce pesantemente la lotta contro la loi El Khomri. Oltre a porti, aeroporti e alle principali arterie autostradali, da circa una settimana sei delle otto raffinerie che la Francia annovera sono bloccate o marciano a rilento. Il blocco della produzione riguarda in particolare gli stabilimenti di Feyzin, Gonfreville, Grandpuits, Donges e La Mède, mentre nella giornata di mercoledì il grande deposito di carburante di Douchy-les-Mines, nel nord del paese, è stato teatro di veementi scontri tra gli operai in sciopero e la CRS inviata dal governo per liberare Total-mente gli accessi al sito. La multinazionale petrolifera infatti, in ottimi rapporti anche con il governo Renzi, è di fatto la più colpita dalla sollevazione. Violenti scontri sono stati registrati anche a Fos-sur-Mer e nei pressi di Valenciennes dove poco meno di un centinaio di metalmeccanici hanno richiesto l’intervento di ben venti furgoni delle unità antisommossa. In questo contesto decisamente teso, si è arrivati all’ottava giornata di azione intersindacale generale.
La giornata di oggi
In Francia si combatte per i diritti che in Italia ci hanno già tolto. Per PhilippeMartinez, segretario generale della CGT, «il presidente François Hollande non ha più la maggioranza»Secondo i sindacati in questo momento 500 mila personeprendono parte all’odierna giornata d’azione intersindacale in tutto il paese. Force ouvrière (FO) all’interno di EDF, la compagnia elettrica francese, conferma la volontà di far diminuire la produzione di elettricità bloccando se necessario anche le centrali nucleari. Due militanti risultano feriti dopo che rispettivi automezzi hanno tentato di forzare gli sbarramenti degli scioperanti a Fos-sur-Mer eVitrollesManifestazioni accese a Limoges, Poitiers, Toulouse e Brest. Scaramucce tra polizia e manifestanti a RennesIngenti forze di sicurezza dispiegate a Nantesdove il centro è stato paralizzato. Pneumatici bruciati e gas lacrimogeni ad Amiens. Incidenti si registrano a Strasbourg, Marsiglia e Caen. Cortei in corso a BordeauxPerpignan, Rouen, Saint-EtienneGrenoble,Tolone, Avignone e Tours. A Lione, i manifestanti hanno pensato di rallegrare la grigia giornata della CRS con il lancio di palloncini ripieni di vernice dai colori sgargianti. Nei pressi di Querqueville, nell’ovest del paese, un’automobile avrebbe travolto la moto di Hervé Renet, uccidendo il sindaco Front de Gauchedi Sainte-Croix-Hague e ferendo il suo passeggero Thierry Lacombe, segretario della locale sezione CGT. L’incidente non sarebbe legato ai blocchi stradali. AParigi, il grande corteo partito alle 14 da Place de la Bastille è finalmente arrivato a Nation dopo essere stato fermato dalla polizia su boulevard Diderot. Durante il tragitto, alcuni casseurs incappucciati hanno abbandonato il corteo frantumando alcune vetrine e provocando l’intervento delle forze dell’ordine. Al momento, la metropolitana di Place de la Nation è chiusa e si registra l’ormai tradizionale lancio di gas lacrimogeni sui manifestanti da parte della CRS.
La mobilitazione
Nel suo insieme la mobilitazione contro la loi Travail, la riforma del diritto del lavoro in senso puramente neoliberista, va avanti da più di due mesi e mezzo. Le proteste iniziali, alimentate in un primo momento dai movimenti studenteschi(UNEF, Fidl, UNL), hanno immediatamente coinvolto i sindacati dei lavoratoripiù rappresentativi (CGT, FO, Solidaires, FSU) e le forze della sinistra anticapitalista e radicale (NPA, PCF, PG) per poi allargarsi al movimento popolare nato spontaneamente con le Nuit deboutScioperi e manifestazioni hanno dunque portato in piazza senza sosta centinaia di migliaia di persone in tutta la Francia. Ma il 12 maggio, non curante delle forti proteste e di un’opposizione alla riforma che conta ancora sul favore del 70% dei francesi, il governo socialista diretto da Manuel Valls ha imposto la riforma senza voto parlamentare grazie all’utilizzo dell’articolo 49.3 della Costituzione francese, lo stesso che nel 2006 venne definito “un diniego di democrazia” proprio dal presidente FrançoisHollandeUn colpo di stato in piena regola, un atto tanto vile quanto vergognoso da parte di un esecutivo fragile e delegittimato, al quale i sindacati più combattivi hanno deciso di rispondere con una strategia di blocco della produzione nei settori chiave dell’economia francese. Questo percorso coraggioso intrapreso dai lavoratori e dalla dirigenza sindacale, appoggiati dagli studenti, dai militanti anticapitalisti e da una parte importante della popolazione, sta spingendo il paese verso una carenza energetica e una interruzione dei servizi pubblici che, dopo aver lasciato il premier socialista letteralmente in riserva, si traduce con la paralisi graduale ma generalizzata alla quale stiamo assistendo. La risposta allarmata del governo risulta decisamente familiare a noi italiani. Menzogne, demagogia e mistificazioni fanno da cornice alla strategia repressiva avviata da Hollande all’indomani degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015.
La risposta del governo
Prolungato dal Senato fino al mese di luglio, l’état d’urgence è diventato il miglior alleato del governo anche per mettere in pratica la strategia della tensione adottata ai bordi di ogni manifestazione contro il Jobs Act francese e denunciata da sindacalisti e rappresentanti della sinistra anticapitalista. La palese strumentalizzazione dello stato di emergenza al fine di implementare le fallimentari politiche di austerità si è presto trasformata in una brutale repressione della lotta in difesa dei diritti, dei salari e delle condizioni di lavoro delle generazioni odierne e future. L’appoggio del governo Valls-Medef(confindustria francese), e il conseguente annullamento dei diritti civili, hanno lasciato campo libero ai numerosi arresti sommari in nome della sicurezza nazionale e agli abusi di polizia perpetrati dalla CRS, la Compagnies Républicaines de Sécurité, e dalla BAC, la famigerata Brigade anti-criminalité. I sempre più frequenti débordements, gli scontri provocati nel bel mezzo delle manifestazioni più pacificheda sedicenti casseurs, violenti incappucciati e pertanto non identificabili, fanno parte delle provocazionifondamentalmente funzionali allarepressione dei movimenti di protesta popolare. Una violentissima macchina repressiva, composta da agenti in borghese sprovvisti dei segni di riconoscimento ma muniti di bastoni telescopici, celerini nelle università e unità antisommossa equipaggiate con manganelli, idranti, gas lacrimogeni, granate assordanti, spray irritanti e fucili a pallettoni di caoutchouc (tra gli altri, uno studente ventenne haperso un occhio a Rennes). Insomma, stigmatizzazione mediatica della protesta, divieto di manifestare, aumento dei controlli e l’uso della forza più inaudita per imporre la catastrofica distruzione del codice del lavoro.
porcodio
Cosa prevede in breve il Jobs Act
La riforma del diritto del lavoro che prende il nome dalla sua firmataria, la ministra del Lavoro Myriam El Khomri, è una riforma aggressiva che punta a cambiare radicalmente il codice del lavoro a svantaggio dei lavoratori. Il Jobs Act alla francese prevede licenziamenti più facili e meno costosi per le società, liberalizzazioni, diminuzione dei ricorsi davanti al giudice, aumento delle ore di lavoro e della flessibilità, limitazione delle indennità e tagli alla remunerazionedegli straordinari, eliminazione della garanzia di congedo in caso di malattia di un familiare. Ma fanno parte del progetto di legge anche i nuovi dispositivi che permetteranno a certe misure aziendali di essere imposte con un semplice referendum seppur venga riscontrato il parere contrario del 70% dei sindacati,  mentre gli accordi interni (al ribasso) avranno priorità sulle intese di categoria. Questa è una riforma di stampo neoliberista chiaramente a favore degli interessi del grande capitale e degli imprenditori.
La lotta continua
La riforma del diritto del lavoro imposta dal premier socialista Manuel Valls, e dal presidente François Hollande, ha raccolto la protesta di un movimento popolare che può contare sull’orgoglio di metalmeccanici, camionisti, portuali, chimici, impiegati pubblici, studenti, precari, disoccupati, pensionati, artisti e intellettuali. Un fronte d’opposizione eterogeneo che il Medef ritiene addirittura responsabile della crisi economica e sociale di un paesemilitarizzato che sta sprofondando nel baratro grazie all’inadeguatezza delle sue tragicomiche classi dominanti. Mentre i media “mainstream” francesi si soffermano sugli sparuti attacchi all’indirizzo delle sedi del Parti socialiste al potere, non c’è spazio mediatico per parlare di disuguaglianze e povertà in aumento, razzismo, islamofobia e dell’insostenibile marginalizzazione dei cittadini costretti a vivere nelle periferie più degradate dai dogmi del sistema capitalista. La grande manifestazione nazionale prevista per il 14 giugno a Parigi, giorno in cui la legge esordirà in aula al Senato, sarà una tappa fondamentale per uno scontro che deve continuare e che, come per il Belgio, potrebbe allargarsi agli altri paesi europei. La lotta del popolo francese è una lotta contro le politiche di austerità, i diktat deiburocrati di Bruxelles, l’arroganza delle organizzazioni padronali e deigoverni neoliberisti.
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WEEK END MAGAZINE

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VOCE DI VEDETTA MORTA



C’è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia, affiorante
sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni,
tu, uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l’uomo
e la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte, dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
soffiale che nulla del mondo
redimerà ciò che è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t’ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.

(Clemente Rebora)

LAVORATORI E ROBOT

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da http://www.senzasoste.it/tecnologie/foxconn-dimezza-i-dipendenti-avanti-con-i-robot

Man sets up factory to mass produce noodle robots, Beijing, China - 23 Aug 2012...Mandatory Credit: Photo by Quirky China News / Rex Features (1824822c)  Cui Runquan with some of the noodle robots  Man sets up factory to mass produce noodle robots, Beijing, China - 23 Aug 2012  A Chinese chef has set up a company to mass produce noodle robots and claims to have already sold 3,000 units. Cui Runquan came up with the robot idea in 2006 when he was a noodle chef in a restaurant in Beijing. Cui designed and made the robot himself after several months of research and repeated experiments. The robot is able to slice 130 noodles a minute - much faster than a human. Cui comments: "It doesn't need salary or rest. By pressing a button it can serve you all the time. It's the best worker

Fino a dieci anni fa o giù di lì, per capire dove stava andando il capitalismo occorreva guardare a quel che avveniva negli Stati Uniti. Ora bisogna guardare a quel che avviene in Cina. Per lo meno per quel che riguarda l’evoluzione della produzione manifatturiera (altra cosa sono i mercati finanziari, saldamente incentrati sull’asse New York-Londra).
La Cina è diventata la manifattura del mondo grazie a un costo del lavoro (40 anni fa) ai minimi mondiali, per una forte concentrazione politica del potere (il sindacato è un’espressione del partito, quindi ha per baricentro la realizzazione degli obiettivi di piano, non la rappresentanza puntuale dei lavoratori), per l’apertura agli investimenti stranieri sia pur mediata dall’obbligo della condivisione del know how.
Centinaia di milioni di persone hanno così smesso di essere contadini in esubero per trasformarsi in operai industriali, assicurando un tasso di crescita del Pil superiore al 10% per oltre venti anni e facendo conquistare al paese il ruolo di seconda potenza industriale del pianeta.
Ogni favola ha una fine, anche e soprattutto quelle capitalistiche.
La notizia che dà il segno certo della svolta è questa: la Foxconn, azienda taiwanese che produce la metà delle componenti dei dispositivi elettronici di consumo venduti nel mondo, “ha ridotto la propria forza lavoro da 110 mila a 50 mila persone grazie all’introduzione dei robot e ha segnato un successo nella riduzione del costo del lavoro”.
La Foxconn era anche conosciuta per l’alto tasso di suicidi tra i suoi lavoratori, schiacciati da ritmi infernali. Quindi non si può davvero dire che non avesse di mira la massima “produttività”. Ma i robot fanno meglio, più velocemente, senza soste fisiologiche, 24 ore su 24. Non si lamentano, non pretendono adeguamenti salariali, bon si ammalano, non scioperano mai e non rischiano di farlo in futuro. Al massimo si rompono e vanno aggiustati.
Inutile aggiungere che decine di altre aziende operanti in Cina stanno per fare lo stesso, magari su scala dimensionale anche superiore al 50% del personale (dipende dal tipo di processo produttivo e dai prodotti).
L’automazione della produzione sta del resto conquistando tutte le fabbriche del pianeta e i “futurologi” stanno già sfornando elenchi di mansioni lavorative a rischio scomparsa e percentuali da capogiro nella sostituzione di uomini e donne con macchine. Tutto ciò che è seriale può esser fatto meglio, con più precisione e senza soste da un robot. Sia a livello manuale che “cognitivo”. Non c’è impiegato “di concetto” che possa sentirsi al sicuro. Solo le professioni “creative” possono – entro certi limiti, comunque – essere risparmiate da questa corsa alla robotizzazione.
La “quarta rivoluzione industriale” ha per orizzonte la produzione senza lavoro umano o quasi (resteranno, seppur molto più limitate, solo le attività di installazione, manutenzione e programmazione dei robot), sia sulle linee che negli uffici. Miliardi di esseri umani non avranno più un’occupazione, né potranno riciclarsi in altre attività in espansione, perché non avranno le cognizioni di base per fare il salto da una all’altra.
Qualche esempio per capirsi? Un tecnico, per quanto bravissimo, non può diventare un ingegnere informatico o elettromeccanico. Se perde il lavoro, mettiamo, intorno a 40 anni, con famiglia e figli a carico, non può tornare all’università per i cinque sei anni necessari a fare l’upgrade delle sue conoscenze. In ogni caso, serviranno assai meno ingegneri di quanti tecnici si troveranno a spasso. Un impiegato di banca non può diventare un finanziere o un broker, ed in ogni caso ci sono molti più bancari di quanti saranno i broker in attività.
Non parliamo nemmeno delle mansioni meno qualificate, sostituibili a decine con click… Un esempio? I poliziotti “indispensabili” saranno solo quelli necessari per le scorte e il controllo delle manifestazioni di piazza, oltre a informatici e analisti video. Gli “investigatori”, dopo la commissione di un reato, si limitabo già a controllare le registrazioni video del luogo, risalendo fino al punto in cui il colpevole apparirà con volto, nome e cognome. Si interviene a valle, senza problemi, o su “soffiata”…
La domanda, epocale, è persino disperatamente semplice. Che fine faranno quei miliardi di esseri umani senza possibilità di guadagnarsi da vivere vendendo la propria forza lavoro?
La risposta capitalistica è una presa in giro (“usciranno fuori altri lavori”).
Se la produzione può esser fatta ormai con un minimo apporto di lavoro umano, o si uccidono miliardi di uomini o si elimina la proprietà privata del mezzi industriali che servono a produrre.
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