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SUNDAY MAGAZINE

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SPECCHIO




Ed ecco sul tronco
si rompono gemme:
un verde più nuovo dell'erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.
E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell'acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c'era.


(Salvatore Quasimodo)

7 MAGGIO CONTRO IL TTIP

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da http://ilmanifesto.info/7-maggio-contro-il-ttip/


di Marco Bersani

Nuova finanza pubblica. Dopo la grande manifestazione di ottobre a Berlino, con oltre 250.000 persone, dopo la consegna, sempre a ottobre, di oltre 3 milioni di firme all’Unione Europea e data la fase in cui sta entrando il negoziato, la campagna Stop Ttip Italia ha deciso di convocare un grande appuntamento nazionale sabato 7 maggio a Roma



A quasi tre anni dall’avvio, il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (Ttip), in corso di negoziazione tra Usa e Ue, sta entrando in una fase decisiva.

Nonostante i ripetuti tentativi, dapprima di mantenerlo segreto, e poi di presentarlo come un accordo «tecnico», è ormai più che evidente di come in realtà si sia di fronte ad un pericoloso attacco ai diritti e alla democrazia. Sono in gioco il cibo e la sicurezza alimentare, l’acqua, i beni comuni e i servizi pubblici, l’istruzione e la sanità, i diritti del lavoro e l’occupazione, la tutela ambientale e sociale, e sono a rischio interi comparti produttivi delle piccole e medie imprese.

Ma è a rischio soprattutto la democrazia, con la possibilità per le imprese multinazionali di chiamare in giudizio i governi e le autorità pubbliche per normative che ostacolino i loro investimenti e relativi profitti.

Nei prossimi mesi i negoziati entreranno in una fase di accelerazione. Infatti, nonostante gli incontri negoziali siano ben lungi dall’aver trovato un accordo su molti dei punti in agenda, esiste una forte pressione per produrre una sintesi prima che le elezioni statunitensi entrino nel vivo, con il rischio di regalare ai cittadini un esito molto pericoloso: un accordo quadro generico, che permetta a Usa e Ue di sbandierare il risultato raggiunto, per poi procedere alla sua applicazione dettagliata attraverso tavoli «tecnici», che opereranno con ancor più segretezza e opacità di quelle che da tempo i movimenti sociali denunciano.

È l’ennesimo tentativo di depotenziare una protesta che in questi tre anni si è estesa a macchia d’olio su entrambe le sponde dell’Atlantico, mettendo assieme comitati, associazioni di movimento, organizzazioni contadine e sindacali, consumatori, cittadine e cittadini, che hanno rivendicato trasparenza e sfidato la segretezza che ha circondato tutto il negoziato sul Ttip.

Una campagna che denuncia il delinearsi di un nuovo quadro giuridico pericoloso per i diritti e la democrazia, nel quale i profitti delle lobby finanziarie e delle grandi multinazionali prevarrebbero sui diritti individuali e sociali, sulla tutela dei consumatori, sui beni comuni e sui servizi pubblici, negando ogni possibilità a un altro modello sociale che non sia quello liberista, nell’epoca della finanziarizzazione della società e dell’intera vita delle persone.

In questi tre anni, anche in Italia è nata e si è diffusa la campagna Stop Ttip, costruendo – territorio per territorio – informazione, sensibilizzazione e mobilitazione sociale.

Dopo la grande manifestazione di ottobre a Berlino, con oltre 250.000 persone, dopo la consegna, sempre a ottobre, di oltre 3 milioni di firme all’Unione Europea e data la fase in cui sta entrando il negoziato, la campagna Stop Ttip Italia ha deciso di convocare un grande appuntamento nazionale sabato 7 maggio a Roma.

Una giornata con manifestazione nazionale, che chiede a tutte le donne e gli uomini da sempre attivi in difesa dei diritti e dei beni comuni, ai sindaci, ai comitati, alle reti di movimento, alle organizzazioni sindacali, alle associazioni contadine e dei consumatori, agli ambientalisti, al mondo degli agricoltori e delle piccole imprese e a tutti quanti hanno a cuore la democrazia, di essere presenti per dimostrare concretamente il rigetto del Ttip e la rivendicazione di un altro modello sociale, più giusto e solidale.

Governi e lobby economico-finanziarie considerano ineluttabili le politiche liberiste e di austerità e chiedono rassegnazione. E’ venuto il momento di rispondere con la partecipazione, per dire forte e chiaro che il futuro non si vende.

Tutte e tutti insieme è possibile.

CAMPAGNA STOP TTIP ITALIA
web: stop-ttip.italia.net

facebook: www.facebook.com/StopTTIPItalia/

twitter: StopTTIP_Italia

email: stopttipitalia@gmail.com

FALLISCE IL VERTICE DI DOHA: IL PETROLIO NON RISALIRA'

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da  http://www.senzasoste.it/economia/fallisce-il-vertice-di-doha-il-petrolio-non-risalira

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C'è un detto che dice che noi votiamo ogni tanto, mentre in borsa votano tutti i giorni. E allora ecco il vero referendum di ieri sul petrolio che ha buttato giù le borse. Con il petrolio a queste cifre, la fase di superamento dei combustibili fossili sarà più lunga. E anche a questo giro i sauditi ci hanno messo del loro, per strategie geopolitiche che stanno iniziando a fare innervosire anche gli alleati saldi e di lungo corso come gli USA. Di seguito un articolo che spiega cosa è successo a Doha domenica.redazione, 18 aprile 2016
Claudio Conti - tratto da http://contropiano.org
Il mondo capitalistico funziona ormai al contrario. L’ennesima prova, non finanziaria, è arrivata con il fallimento del vertice di Doha tra i grandi produttori di petrolio, che riuniva sia i membri dell’Opec che quelli non appartenenti allo storico cartello.
In tempi normali, infatti, questo fallimento foriero di un ribasso dei prezzi del greggio avrebbe spinto all’insù le quotazioni azionarie dato fiato alle aspettative di una più rapida crescita dell’economia globale.
In questo caso, invece, si sperava in un accordo per il congelamento della produzione di greggio, che avrebbe favorito un rialzo dei prezzi. E la reazione dei mercati, negativa, non si è fatta attendere.
Nel merito, la questione appare relativamente semplice. L’Arabia Saudita aveva dato il via, quasi due anni fa, a un aumento della produzione tale da abbattere rapidamente il prezzo internazionale del greggio. Gli obiettivi erano espliciti: far fuori i produttori americani di shale oil, che ha prezzi di produzione alti, tra i 50 e gli 80 dollari al barile, e contemporaneamente provocare la crisi di Russia e Iran, alleati con Assad.
Un obiettivo a scadenza, insomma, perché un duraturo tracollo del prezzo del petrolio – da oltre 100 a quasi 30 dollari al barile – non era ovviamente neanche negli interessi della monarchia saudita. La quale ha infatti pagato cara la scelta, fino al punto da dover varare per il 2016 una legge finanziaria all’insegna… dell’austerità.
L’Iran ha raggiunto invece un accordo storico con l’Occidente sul nucleare e sta soltanto ora riprendendo a far crescere la sua produzione di petrolio come conseguenza della fine dell’embargo. La Russia, in qualche modo, ha tenuto botta. Mentre tutti i produttori, sia Opec che non, stanno cercando di compensare la dimunzione delle entrate petrolifere tirando la produzione fino al limite del possibile. Una strategia evidentemente suicida, ancorché obbligata, perché in questo modo il prezzo non può più risalire.
Il vertice di Doha doveva almento congelare i livelli produttivi di tutti i paesi ai livelli non bassissimi di gennaio. Ma nonostante un prolungamento di dieci ore della riunione, non si è arrivati a nessuna conclusione. Per colpa dell’Arabia Saudita, soprattutto, che aveva preteso come precondizione che anche l’Iran congelasse la produzione… al livello di quando era sotto embargo. Naturalmente la pretesa è stata rinviata al mittente, tanto che l’Iran non si è neanche presentato alla riunione.
Questo significa che il prezzo del petrolio crollerà a livelli da inizio millennio?
Difficile crederlo. In primo luogo perché i prezzi bassi impediscono nuovi investimenti. Per esempio buona parte di quelli che si attendeva l’Iran per poter ammodernare i propri impianti e risalire velocemente nei livelli produttivi. In secondo luogo perché i produttori statunitensi dello shale oilcominciano a fallire uno dopo l’altro, inguaiando pesantemente la finanza Usa, che aveva largheggiato in prestiti quando il prezzo era sopra i 100 dollari e il ritorno sembrava un gioco da ragazzi. In terzo, perché la guerra in Iraq, Siria e Libia non è affatto finita – o iniziata davvero – e quindi riduce comunque la produzione possibile in questi tre paesi.
18 aprile 2016

ESCALATION NUCLEARE IN EUROPA

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da  http://www.senzasoste.it/internazionale/escalation-nucleare-in-europa
Un prototipo di bomba B61-12
La Casa Bianca è «preoccupata» perché caccia russi hanno sorvolato a distanza ravvicinata una nave Usa nel Baltico, effettuando un «attacco simulato»: così riportano le nostre agenzie di informazione. Non informano però di quale nave si trattasse e perché fosse nel Baltico.
È la USS Donald Cook, una delle quattro unità lanciamissili dislocate dalla U.S. Navy per la «difesa missilistica Nato in Europa».
Tali unità, che saranno aumentate, sono dotate del radar Aegis e di missili intercettori SM-3, ma allo stesso tempo di missili da crociera Tomahawk a duplice capacità convenzionale e nucleare. In altre parole, sono unità da attacco nucleare, dotate di uno «scudo» destinato a neutralizzare la risposta nemica.
La Donald Cook, partendo l’11 aprile dal porto polacco di Gdynia, incrociava per due giorni ad appena 70 km dalla base navale russa di Kaliningrad, ed è stata per questo sorvolata da caccia ed elicotteri russi.
Oltre che le navi lanciamissili, lo «scudo» Usa/Nato in Europa comprende, nella conformazione attuale, un radar «su base avanzata» in Turchia, una batteria missilistica terrestre Usa in Romania, composta da 24 missili SM-3, e una analoga che sarà installata in Polonia.
Mosca avverte che queste batterie terrestri, essendo in grado di lanciare anche missili nucleari Tomahawk, costituiscono una chiara violazione del Trattato Inf, che proibisce lo schieramento in Europa di missili nucleari a medio raggio.
Che cosa farebbero gli Stati uniti – che accusano la Russia di provocare con i sorvoli «una inutile escalation di tensioni» – se la Russia inviasse unità lanciamissili lungo le coste statunitensi e installasse batterie missilistiche a Cuba e in Messico?
Nessuno se lo chiede sui grandi media, che continuano a mistificare la realtà.
Ultima notizia nascosta: il trasferimento di F-22 Raptors, i più avanzati cacciabombardieri Usa da attacco nucleare, dalla base di Tyndall in Florida a quella di Lakenheath in Inghilterra, annunciato l’11 aprile dal Comando europeo degli Stati uniti. Dall’Inghilterra gli F-22 Raptors saranno «dispiegati in altre basi Nato, in posizione avanzata per massimizzare le possibilità di addestramento ed esercitare la deterrenza di fronte a qualsiasi azione destabilizzi la sicurezza europea».
È la preparazione all’imminente schieramento in Europa, Italia compresa, delle nuove bombe nucleari Usa B61-12 che, lanciate a circa 100 km di distanza, colpiscono l’obiettivo con una testata «a quattro opzioni di potenza selezionabili». Questa nuova arma rientra nel programma di potenziamento delle forze nucleari, lanciato dall’amministrazione Obama, che prevede tra l’altro la costruzione di altri 12 sottomarini da attacco (7 miliardi di dollari l’uno, il primo già in cantiere), armato ciascuno di 200 testate nucleari.
È in sviluppo, riporta il New York Times (17 aprile), un nuovo tipo di testata, il «veicolo planante ipersonico» che, al rientro nell’atmosfera, manovra per evitare i missili intercettori, dirigendosi sull’obiettivo a oltre 27000 km orari. Russia e Cina seguono, sviluppando armi analoghe.
Intanto Washington raccoglie i frutti.
Trasformando l’Europa in prima linea del confronto nucleare, sabota (con l’aiuto degli stessi governi europei) le relazioni economiche Ue-Russia, con l’obiettivo di legare indissolubilmente la Ue agli Usa tramite il Ttip. Spinge allo stesso tempo gli alleati europei ad accrescere la spesa militare, avvantaggiando le industrie belliche Usa le cui esportazioni sono aumentate del 60% negli ultimi cinque anni, divenendo la maggiore voce dell’export statunitense.
Chi ha detto che la guerra non paga?
19 aprile 2016

UN BUON VIATICO CONTRO IL JOBS ACT

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da  http://ilmanifesto.info/un-buon-viatico-contro-il-jobs-act/



Malgrado il cono d’ombra della vigilia, ieri mattina sono tornati in scena i metalmeccanici. Hanno manifestato unitariamente con cortei e presidi un po’ ovunque in tutta Italia. Spesso con una presenza significativa di lavoratori precari.
Dopo otto anni di separazione Fim, Fiom, Uilm, hanno proclamato assieme uno sciopero di quattro ore – andato bene, ma c’è la solita guerra dei numeri – per il rinnovo di un contratto che riguarda un milione e seicentomila lavoratori. Per smuovere una vertenza di fronte alla quale la Federmeccanica si è presentata fin dall’inizio con una propria contropiattaforma che mira ad esaltare il contratto aziendale e a deprimere, quando non cancellare, quello nazionale. E che conta sullo spalleggiamento da parte di un governo, che cita i lavoratori solo quando fa comodo, come nelle dichiarazioni di Renzi post-referendum di domenica scorsa, salvo destrutturare il diritto del lavoro e i diritti nel lavoro.
La prova unitaria di oggi avrà il suo peso nell’atteggiamento padronale? E’ possibile, non solo auspicabile. Soprattutto perché i risultati ottenuti dalla Fiom nei mesi scorsi, nelle elezioni interne ai luoghi di lavoro, hanno dimostrato sia al padronato che a una parte della dirigenza sindacale nostalgica delle politiche concertative, che la strategia della divisione non paga e che contratti firmati da chi, alla prova dei fatti, è meno rappresentativo di quanto non si sperasse, sono più favorevoli sulla carta ma ingestibili nella pratica.
Il contratto nazionale torna a svolgere, all’atto stesso della rivendicazione del suo rinnovo, una funzione unificante all’interno del mondo del lavoro. Un buon viatico anche per la campagna referendaria contro il jobs act. E una funzione di stimolo ad una economia che non può risollevarsi a colpi di liquidità iniettata – e lì finita – nel sistema bancario, se non riparte una domanda sostenuta da un minimo di capacità di spesa.
Il pensiero mainstream fa acqua da tutte le parti. Al punto che a livello europeo si è affacciata la teoria dell’helicopter money, ovvero della distribuzione di denaro direttamente ai cittadini, che solo poco tempo fa sarebbe stata considerata una folle eresia. Fa bene la sinistra ad approfittare di queste crepe, per lanciare la sua proposta di un Quantitative Easing for the people.
Ma tutto ciò ha un senso e una possibilità pratica solo se riparte la lotta per la ridistribuzione della ricchezza là dove essa si forma, cioè nei luoghi di lavoro e di produzione. E’ lì, dopo decenni di spostamento dei redditi dal lavoro ai profitti, che deve ripartire una migliore e più equa distribuzione. Dopo è troppo tardi.
Solo così, con maggiore occupazione e retribuzione, si può difendere il futuro di questa generazione, che non vorremmo rassegnarci a vedere perduta. Per questo motivo appare stonata la polemica che si è aperta fra il presidente dell’Inps Tito Boeri e Susanna Camusso. La leader della Cgil lo accusa di fornire un quadro talmente deprimente da finire per scoraggiare tutti, i giovani in primis. Ma la realtà è quella che è.
Quando Boeri dice che la generazione degli anni ’80 rischia di essere costretta a lavorare fino a 75 anni e ricevere un assegno inferiore di un quarto, non racconta fole. E’ semplicemente l’effetto delle norme introdotte a suo tempo dalla legge Fornero-Monti, per cui chi va in pensione con il sistema contributivo – avendo iniziato a lavorare dopo il 1996 – può ritirarsi dal lavoro solo se rispetta un certo limite di reddito. Più questo è basso, più discontinuo e precario è il lavoro, più tardi avrà la possibilità di lasciarlo. La giustificazione fu quella di evitare pensioni misere. Pura ipocrisia, che adesso esplode, venendo il tempo in cui c’è chi ha la prospettiva di andare in pensione con il solo contributivo.
In realtà è proprio quest’ultimo che andrebbe messo sotto accusa. Sono i meccanismi perversi che esso ha instaurato a minacciare nel profondo il diritto a un’equa pensione e a spezzare la solidarietà generazionale, funzionale al mantra dei vecchi che rubano il futuro ai giovani tanto caro ai governi di centrodestra come di centrosinistra in tutti questi anni. E questo ovviamente Boeri non lo fa. Ma allora è sul versante della mancata coerenza che andrebbe criticato. Non certo per eccesso di allarmismo.
Per quanto si possa comprendere che avendo le organizzazioni sindacali aperto una certa conflittualità, anche se per ora a troppo bassa intensità, sul tema delle pensioni – possano lecitamente temere che il governo si avvantaggi della presenza in campo di ulteriori posizioni e soggetti per sviare il confronto, la mossa più saggia è sempre quella di fare proprie le denunce altrui, purché fondate. Tanto più se, al fondo, ti danno ragione.

BREVE STORIA MATERIALE DEL GARANTISMO

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da  http://www.senzasoste.it/nazionale/il-garantismo-da-beccaria-a-verdini-una-breve-storia-materiale

Vanitas Claesz
Il discorso di Renzi al senato, durante di dibattito sulla sfiducia al governo, dedicato alla “barbarie giustizialista” suggerisce qualche riflessione sul garantismo. O, meglio, sulla sua versione ventunesimo secolo. Tanto più che, scomparso dalla società italiana ogni tangibile riferimento al superamento del carcere, del prigionismo, del mito della pena anche il garantismo non viene più percepito nei suoi aspetti paradossali. E stiamo parlando di paradossi che investono le politiche e la concretezza quotidiana.
Prendiamo Beccaria, citato invariabilmente come alla radice di ogni garantismo per il concetto di proporzionalità della pena. Oggi sfugge e non di poco, la materialità del discorso di Beccaria. Quella che, invece, Foucault aveva fissato –in Sorvegliare e punire come ne La società punitiva- come elemento cardine della nuova economia del disciplinamento. E la parola economia non è certo, qui, spesa a caso. Per Foucault infatti, la nuova economia settecentesca del grano, quella che lui leggeva dall’analisi storiografica dell’andamento dei prezzi dei mercati parigini dell’epoca, influenza direttamente il discorso di Beccaria. Si trascura spesso l’importanza dell’economia del grano, e del raccolto, nel mondo contemporaneo. Ad esempio, nella pratica di stipulare assicurazioni sul prezzo del raccolto futuro, è alla base della nascita dei futures di borsa così come li conosciamo. Beccaria, in Foucault, influenzato da questo modo di costruire i concetti, costruisce un nuovo approccio disciplinare, un nuovo dispositivo della docilità dei corpi, che si basa su tre livelli: giuridico (la modalità di fare e pensare le leggi), disciplinare in senso stretto (cosa rendere docile e come, attraverso istituzioni concrete) e governamentale (quale rete di potere attivare, e come, nelle istituzioni disciplinari). Qualcosa di molto diverso dal Beccaria pensato come difensore nei confronti degli abusi dello stato. Perché per Foucault, Beccaria applica al disciplinamento le regole della nuova economia del grano legittimando per la pena solo i principi elementari, e universalistici, di punizione e correzione. In questo modo il sistema della penalità, così come un’agricoltura ormai razionalizzata, si libera di comportamenti anacronistici (come la gogna) e antieconomici. Ed è pronto al grande salto dell’universalizzazione: agile, economico è in grado ormai di produrre leggi, disciplinamento e governamentalità in ogni interstizio sociale. Quando si dice che economia e filosofia del diritto si guardano sul serio, insomma. Saltano inoltre due miti con l’impostazione foucaultiana su Beccaria: quello della protezione dell’individuo col garantismo, il controllo passa dalla sua fase brutale a quella della forza microfisica e diffusa del soft power, e quello della legalità. L’idea che la legge sia garanzia in quanto legge viene vista qui nella sua ottica reale: la legge disciplina quindi è in grado di attivare, altro che la libertà, una forte reticolarità universale di controllo. Tanto più è legittimata in quanto legge, tanto più controlla sul piano microfisico, tanto più è implacabile. Quando Renzi parla chiede garantismo, mettendo tra parentesi il fatto che guarda a Verdini e non certo al miglior formalismo giuridico, serve quindi una modalità di controllo, di messa a docilità, di potere gerarchico appena sterilizzato dalla norma giuridica. Ovviamente, quando si parla di garantismo, da Beccaria a Verdini è cambiato qualcosa, non solo in termini di evoluzione delle società di controllo nè, naturalmente, solo in quelli di statura dei personaggi. Stiamo parlando del passaggio da un garantismo tarato sull’economicità, sull’evoluzione della nuova economia agricola, pronto per farsi dispositivo universale di disciplinamento ad un altro genere di garantismo. Quello basato sulla tutela della mano libera delle reti di affari neotribali del liberismo. Così, la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio non vale, tanto, per l’accusato politico (la cui presunzione di innocenza viene azzerata dai media che suggeriscono immediate politiche di contenimento). Vale soprattutto per una rete di affari di cui un individuo fa parte che, in questo modo, rimane intatta quanto possibile nelle cariche istituzionali occupate, nella possibilità di commerciare, guadagnando tempo. E in un modo, quello garantista attuale, che spacca l’universalità del diritto. Mentre, in Beccaria il nuovo regime disciplinare universalistico superava un sistema duale del diritto, tipico dell’Ancien Régime, il garantismo attuale, Verdini style, lo reintroduce. Perché Beccaria guardava al capitalismo nascente e il garantismo di oggi guarda a quello del mondo delle bolle finanziarie: dove le reti di potere vanno tutelate nell’esercizio, pieno di rischi di ogni tipo, delle loro azioni. Certo, essendo ancora formalmente universalistico, facendosi ancora forza del vecchio rapporto tra disciplinamento, docilità e diritti universali, il concetto di garantismo può ancora essere preso in mano da molti soggetti. Ma l’egemonia, nell’uso del concetto di garantismo, è in mano a coloro che praticano una concezione duale del diritto. Come, a livello globale, fanno i Soros che di finanza e diritto internazionale ne sanno qualcosa. E cosa dire del concetto di garantismo in senso stretto? Coniato da Fourier, lo stesso filosofo che ha direttamente ispirato la costruzione della divisione in lotti del quartiere Paolo VI di Taranto, vicino alle acciaierie: in questo senso origine del garantismo, utopia urbanistica, disastro sociale, economico e ambientale sembrano guardarsi direttamente in faccia.
Ma c’è un altro elemento al quale, nel concetto di garantismo che ha compiuto il passaggio da Beccaria a Verdini, si vogliono spezzare le dita: i media. I quali, avendo capacità di far sentire la pressione sociale, se si alleano con una pratica universalistica del diritto, non solo riproducono una società disciplinare di nuovo tipo (su questo Deleuze è una pietra miliare) ma mettono in discussione proprio il garantismo che nasconde questa concezione duale del diritto. Perchè la concezione duale del diritto, in questo caso davvero erede dell’Ancien Régime, ha bisogno di discrezione non di show. Vuole governare lo spettacolo, non esserne governata. Per questo Renzi, in Senato, ha parlato di 25 anni di “barbarie giustizialista”. La barbarie, per i Renzi, è finire in tv trattati come notizia quanto il delitto di Avetrana, un gommone avvistato a Pantelleria o l’ultima carambola stradale. Ci dovrebbe essere, si sottindende, una discrezionalità del potere che i media dovrebbero rispettare. Altrimenti, come si vede, è denuncia di barbarie. Quella di Renzi è una denuncia di barbarie che teme le telecamere non i cannibali.
Ma dal 1992 ad oggi lo scontro tra settori della magistratura e del ceto politico si gioca tutto su un piano di conclamata materialità. Altro che “magistrati politicizzati”, formula berlusconiana coniata per suggerire un rapporto tra politica e lotta di fazione irrazionale. C’è un nesso politica, appalti, grandi (e piccole) opere che, dall’inizio degli anni ’90, ha incontrato l’intervento regolatore della magistratura. Ed è anche il nesso dove c’è la grande politica, tutta, le banche, le reti neotribali della negoziazione affaristica. Basta guardare alla biografia di Impregilo, per dirne una. Stiamo parlando di arterie vitali del potere italiano che, nell’ultimo quarto di secolo, ha mollato la rappresentanza sociale dedicandosi esclusivamente alla diplomazia del business-to-business. Ma tanto più questo nesso politica-appalti, ha dovuto incontrare le enormi mutazioni del settore dei lavori pubblici, tanto più si è scontrato con l’intervento regolatore della magistratura. Senza entrare in dettagli infiniti, quanto infinatamente interessanti, tanto più la politica si identifica con le esigenze del privato, facendosi sopratutto mediazione di business, tanto più lo spazio vuoto del politico è occupato dalle istituzioni, e dai poteri, della regolazione, quindi della magistratura. Naturalmente la magistratura sostiene formalmente un concetto di garantismo alla Beccaria, per legittimare il rinnovarsi di un dispositivo che si vuole universalizzante, quindi esteso, di potere. Mentre il garantismo alla Renzi di filosofi ne usa pochi, usa soprattutto Verdini per sostenere una concezione, di fatto, duale del garantismo. Quella per chi è in grado di godere di immunità, avvocati, allungare i tempi dei processi e quelli per agire in discrezione. Quella che serve al potere neotribale della mediazione business-to-business all’italiana per continuare ad esistere sul settore, molto incerto ma strategico, delle grandi opere. Se dietro a Beccaria c’era la nascente economia produttiva, dietro Verdini c’è un settore di grandi appalti in tumultuosa, e incerta, trasformazione. Ad ognuno la sua base materiale.
Le difficoltà della politica, di tutte le colorazioni della sinistra, stanno nell’aver perso contatto con la materialità delle ristrutturazioni, non solo delle concezioni del diritto ma anche delle modalità di estrazione della ricchezza. Per cui si passa dall’uso delle inchieste della magistratura come surrogato di inchieste che la politica non sa più fare; dalle parole arcaiche di Tangentopoli sui processi e sulle manette, a una concezione del garantismo che non sa bene cosa sta riproducendo. Se una concezione che serve ad un nuovo disciplinamento della società, oggi giocoforza tecnologicamente innervato, oppure una che aiuta una concezione duale del diritto. Il punto è che non esistendo egemonia di una concezione, una pratica, una politica del diritto e dell’economia vediamo, a sinistra e non solo, agitarsi personaggi che recitano a soggetto. Perchè un pragmatismo politico privo di una conoscenza della natura delle nostre società porta ad impugnare oggi qualche parola di garantismo, domani qualche frase di denuncia degli abusi sui lavori pubblici e dopodomani si vedrà. Dimenticando che, proprio rimanendo al tema delle grandi opere, il garantismo invocato non è certo stato poi raccolto nei confronti delle lotte sociali, vedi caso Tav, ma soprattuto per i Verdini. In una, appunto, concezione duale del diritto e delle garanzie.
Quindi, quando si parla di garantismo, piuttosto che a Beccaria o a Filangieri –un altro che sul rapporto tra nuova scienza del disciplinamento e nascente economia capitalistica ha saputo dire molto, prima che la cultura italiana lo beatificasse- è meglio guardare a cosa, in tutto questo corpo del discorso, si intravede davvero. Ad una nuova universalizzazione del disciplinamento, dove l’assoggettamento si dà poi sempre un un piano nuovo, nel caso di chi sostiene, a spada tratta, ogni comportamento della magistratura. Oppure ad una concezione duale del diritto che, una volta tolta la retorica del potere, bada a garantire reti neotribali di potere entro una mediazione business-to-business che non vuole intralci. E’ chiaro che a sinistra qui ci sono due grandi ostacoli culturali a) la mancanza di abitudine a guardare a questi piani strategici b) la vertigine provocata da tutto ciò che non risulta traducibile in un post o in un tweet c) l’enorme difficoltà a tradurre questi problemi in termini politici e di comunicazione.
Visto poi che, in ogni caso, la versione del garantismo alla Verdini piace solo ai diretti interessati, è bene capire verso quale versione del garantismo, matura, di fatto ci si sta rivolgendo. Quella che, a suo tempo, ha trovato trionfo nell’Italia unitaria e liberale rintracciabile in una figura del primo ottocento, Gian Domenico Romagnosi. Si tratta di un autore che, per le competenze dell’epoca, riuniva diritto, garanzie individuali ed economia. Si guardi alla sua Collezione degli articoli di economia politica e statistica e civile. E’ costellata di un garantismo che invoca la libera impresa e il laissez-faire liberista. D’altronde, all’epoca, si andava verso la prima globalizzazione, la cui versione liberale italiana portò danni non da poco alle masse dell’Italia unitaria. Oggi, nella seconda globalizzazione, disorientati dalla velocità, e dalla consistenza, di quanto accade si imbracciano formule simili, culturalmente eredi di quel passato. I danni, di questa sorta di social-liberismo ovviamente, verranno messi in conto ad altri. Ci mancherebbe.
Per Senza Soste, nique la police

ACQUA, IL RE E' NUDO

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da http://www.senzasoste.it/ambiente/acqua-il-re-e-nudo

acqua soldi

Non sono passati più di tre giorni dalla rivendicazione da parte di Renzi dell’astensionismo nel referendum sulle trivellazioni (“referendum inutile”, come certamente hanno capito gli abitanti di Genova), che il governo e il Pd compiono l’ulteriore atto di disprezzo della volontà popolare.
Il tema questa volta è l’acqua e la legge d’iniziativa popolare, presentata dai movimenti nove anni fa, dopo aver raccolto oltre 400.000 firme. Una legge dimenticata nei cassetti delle commissioni parlamentari fino alla sua decadenza e ripresentata, aggiornata, in questa legislatura dall’intergruppo parlamentare in accordo con il Forum italiano dei movimenti per l’acqua.
La legge è stata approvata ieri alla Camera, fra le contestazioni dei movimenti e dei deputati di M5S e SI, dopo che il suo testo è stato letteralmente stravolto dagli emendamenti del Partito Democratico e del governo, al punto che gli stessi parlamentari che lo avevano proposto hanno ritirato da tempo le loro firme in calce alla legge.
Nel frattempo, procede a passo spedito l’iter del decreto Madia (Testo unico sui servizi pubblici locali) che prevede l’obbligo di gestione dei servizi a rete (acqua compresa) tramite società per azioni e reintroduce in tariffa l’”adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, ovvero i profitti, nell’esatta dicitura abrogata dal voto referendario.
Un attacco concentrico, con il quale il governo Renzi prova a chiudere un cerchio: quello aperto dalla straordinaria vittoria referendaria sull'acqua del giugno 2011 (oltre 26 milioni di “demagoghi” secondo la narrazione renziana), sulla quale i diversi governi succedutisi non avevano potuto andare oltre all'ostacolarne l'esito, all'incentivarne la non applicazione, ad impedirne l'attuazione.
Il rilancio della privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici risponde a precisi interessi delle grandi lobby finanziarie che non vedono l'ora di potersi sedere alla tavola imbandita di business regolati da tariffe, flussi di cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, titoli tendenzialmente poco volatili e molto generosi in termini di dividendi: un banchetto perfetto, che Partito Democratico, Governo Renzi e Ministro Madia hanno deciso di apparecchiare per loro.
Ma poiché la spoliazione delle comunità locali attraverso la mercificazione dell’acqua e dei beni comuni, necessita una drastica sottrazione di democrazia, ecco che lo stravolgimento della legge d’iniziativa popolare sull’acqua e lo schiaffo al vittorioso referendum del 2011 non rappresentano semplici effetti collaterali di quanto sta accadendo, bensì ne costituiscono il cuore e l'anima.
A tutto questo occorre rispondere con una vera e propria sollevazione dal basso, con iniziative di contrasto in tutti i territori e l’inondazione di firme in calce alla petizione popolare per il ritiro del decreto Madia, promossa dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua all’interno della stagione appena aperta dei referendum sociali.
Oggi più che mai, si scrive acqua e si legge democrazia.
Marco Bersani (Forum italiano dei movimenti per l’acqua)

SUNDAY MAGAZINE. IL 25 APRILE

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Domani, 25 aprile, il blog si prende un giorno di ferie e vi saluta con questa poesia, che -pensiamo- coniuga lo spirito del magazine letterario domenicale con quello che ha animato l'intelletto e la volontà di molte persone in quei giorni e che di quei giorni dovrebbe rimanere vivo oggi.



TEBE DALLE SETTE PORTE


Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì ?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò ? In quali case, 
di Lima lucente d’ oro, abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande
è piena d’ archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide,
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’ India
da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse quando la flotta 
gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi
oltre a lui l’ ha vinta?
Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand’ uomo.
Chi ne pagò le spese ?

Quante vicende,
tante domande.

(Bertolt Brecht)

LE CONSEGUENZE AUSTRIACHE

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da http://www.senzasoste.it/internazionale/come-il-terremoto-in-austria-puo-investire-un-italia-assonnata-e-docile

austria italiaLo diciamo spesso e fa sempre bene ricordarlo: questo paese vive in un loop politico vecchio di un quarto di secolo. Si tratta di un dato di fatto che, dopo la pietrificazione degli anni '80 e in piena disfunzione globale, lo rende incapace di affrontare i pericoli. Anche in questo periodo infatti scorrono gli stessi titoli di tg dei primi anni '90: polemiche sulle inchieste della magistratura, sulle riforme costituzionali, sulle pensioni. Sappiamo come andò a finire allora: tra l'estate e l'autunno del 1992 la realtà (cioè la nascente governance europea, il sistema monetario continentale che conteneva un dna dello squilibrio poi trasmesso all''euro, i soliti mercati finanziari che vivono di speculazioni al ribasso) presentò pesantemente il conto. Soprattutto lo presentò agli italiani: da quella stagione, statistiche alla mano, il livello dei salari, e del potere di acquisto dei redditi da lavoro, non è mai risalito. Ha fatto alti e bassi senza mai toccare il punto di caduta del 1992. Stesso destino per il Pil, in caduta tendenziale da allora. Qualcosa di simile, compresa l'incapacità delle sinistre (per non parlare dei sindacati..) di aggredire positivamente i nodi sistemici, è accaduto poi dopo Lehman Brothers, causando un -5% del Pil italiano nel 2009, e dopo la crisi del debito sovrano 2011-2012 che ha portato tre recessioni consecutive, il crollo delle economie che ruotavano attorno alle autonomie locali, degli investimenti e l'attuale stagnazione (che solo il presidente del consiglio, con discorsi pubblici a metà tra Orwell e il mercatino di San Casciano val di Pesa, prova a vendere come rinascita).
La questione oggi da considerare è che il terremoto austriaco, specie se quella di domenica è solo la prima scossa, può produrre, in Italia, una stagione di disastri simile a quelle del passato. Non solo per la questione migranti, strozzando la circolazione dei profughi su un'arteria di passaggio fondamentale verso il nord, ma per almeno tre questioni sistemiche: stato della governance europea, dell'euro e del sistema bancario. Una cosina da nulla insomma, con effetti che possono essere, a catena, in tutta Europa. Del resto Vienna c'è abituata: al tempo della prima globalizzazione, nella seconda metà dell'ottocento, il crollo della sua borsa del maggio 1873 scatenò una depressione salariale che, in Europa e negli Usa, durò oltre un ventennio. Oggi, con un'Austria sensibilmente più piccola, rispetto al periodo in cui Vienna era il cuore dell'impero austro-ungarico, può accadere qualcosa di comparabile. In nessun luogo, come in Europa, il passato può tornare sotto la veste della novità e della sorpresa. Basta conoscere le vesti diverse con le quali questo passato, si manifesta.
Ma andiamo per gradi. Nel primo turno delle elezioni presidenziali di domenica scorsa, tra la sorpresa di molti sondaggisti, ha vinto il candidato della FPÖ Norbert Hofer. 36% al primo turno con circa 16 punti di distacco sul candidato dei verdi. Se il primo terremoto è questo, mai un candidato del partito che fu di Haider aveva raggiunto un simile livello, il secondo è rappresentato dal crollo dei partiti austriaci tradizionali (popolari e socialdemocratici). Se l'Austria infatti, dal 1945, è stata di fatto governata, tranne la parentesi dell'alleanza di centro destra tra popolari e FPÖ di Haider, da una concertazione tra centrodestra e centrosinistra questo mondo è finito in un turno elettorale. A maggio ci sarà il secondo turno ed è bene ricordarsi questa scadenza. Perchè la FPÖ, il cui candidato presidente in caso di vittoria potrebbe sciogliere presto il parlamento, non è solo alleata della Lega Nord e del Front National della Le Pen. E' euroscettica, capace di incrinare, da destra non da sinistra come sarebbe accaduto se Syriza avesse piegato la Merkel, la governance europea. Inoltre siede su una bomba del debito, e su un ordigno bancario, niente affatto da sottovalutare. Infine, cosa sottovalutata, è in grado di influenzare Berlino con i propri comportamenti. Vediamo i cinque punti che possono alimentare un terremoto in Europa se Hofer vince il secondo turno elettorale.
- Politiche migratorie. Hofer ha definito l'immigrazione come una "invasione islamica" tout court. In caso di vittoria come presidente farà forte pressione sul parlamento, peraltro già incline a favorire queste pratiche, per la blindatura delle frontiere austriache. Schengen, di cui l'Austria fa parte, salterebbe velocemente. Con conseguenze pesanti non solo sulla libertà di circolazione ma anche sull'economia europea (per non parlare di cosa può accadere in quegli ordigni che sono i mercati finanziari in caso di collasso di Schengen). La Merkel, proprio recentemente, ha parlato del diritto dell'Austria a chiudere le frontiere. Vienna, come si vede, influenza anche oggi Berlino. Nel mezzo, ondate di profughi o bloccate in terre di nessuno oppure espulse verso zone di rischio.
- Euro e politiche di bilancio. La FPÖ, basta dare un'occhiata al suo sito mostra idee chiare: si batte per un vero e proprio smantellamento della governance europea per come la conosciamo. Per una rinazionalizzazione delle competenze su bilancio, economia e sostegno alle imprese. Per il ritorno alle monete nazionali o, in alternativa, per una moneta unica fortemente ancorata alle esigenze nazionali. Dopo aver espulso dall'eurozona un bel pò di paesi, s'intende. Una simile posizione, se portata avanti in modo da mettere in difficoltà il funzionamento dei vertici e delle politiche europee (specie nei vertici in cui è richiesta l'unanimità) può risultare esplosiva. Specie se l'impasse della governance europea fa, come è già accaduto, cortocircuito con i mercati finanziari. Altra potenziale dinamite per i mercati finanziari. Nel 2015, solo sulla pubblicistica specializzata però, si parlava di Austria come potenziale Grecia del prossimo futuro, capace di sinistrare l'Euro pur essendo piccola. Rischiamo di arrivare velocemente al momento in cui le ipotesi si verificano, o meno, con i fatti.
- Economia, banche, debito. La crisi Lehman di ormai otto anni fa si è fatta sentire anche in Austria. Oltretutto negli ultimi tre anni, nonostante le previsioni l'economia è rimasta pressocché al palo. Con consumi stagnanti, l'export penalizzato dalla vicenda Ucraina (altra storia che lega Austria e Germania) poi risalito con la svalutazione dell'euro e l'occupazione ferma. E l'immancabile riforma delle pensioni che ha aumentato l'età pensionabile comprimendo consumi, economia e ricambio generazionale. E' evidente che questa situazione di disagio, che anche l'Italia conosce da vicino, ha inciso sulla crescita della FPÖ. Ma c'è di più. L'Austria è seduta su una bomba del debito che può incidere in Europa. Bomba che lega banche, debito e istituzioni regionali. Il buco della Hypo Alpe Adria, banca austriaca con partecipazione tedesca, fin dal 2015 era stimato, da Bloomberg, come qualcosa che poteva coinvolgere seriamente il sistema finanziario austriaco e tedesco. Oggi l'Austria sta facendo, come recentemente ben spiegato dalla Neue Zuercher Zeitung, da apripista per le nuove regole sul bail-in bancario europeo (quelle che in forma morbida, e già hanno fatto disastri, sono state applicate per Banca Etruria) proprio su Hypo Alpe Adria. C'è però un problema: la regione della Carinzia, di importanza strategica per l'Austria, secondo diverse stime deve pagare, per il fallimento di Hypo, dagli 11 ai 6,4 miliardi di euro. E tutto il bilancio della regione Carinzia è di soli 2 miliardi di euro. Se la FPÖ vincerà le presidenziali, e si consoliderà poi al potere, il modo con il quale tratterà due problemi esplosivi, la questione Carinzia e il primo vero bail-in bancario dopo le nuove norme valide dal primo gennaio, farà da precedente in Europa. Tanto più che sistema bancario, e finanziario, tedesco e austriaco sono legati. Cosa da osservare parecchio visto la crisi del sistema bancario europeo, e quello italiano, irrisolta dal 2008. Nonostante le ristrutturazioni del settore e le migliaia di miliardi di euro immesse da Draghi nel sistema bancario continentale.
- Austria e Germania. Di conseguenza emergono i delicati, per l'Europa, legami sistemici tra Germania, il paese chiave dell'Europa, e Austria. Politici ed economici. Cominciamo dai primi. Vista la posizione della Merkel sui migranti, favorevole a eventuale chiusura frontiere del Brennero, si capisce che non mancano i condizionamenti a Berlino sui temi che trovano sensibile l'Austria. In Germania infatti al CSU bavarese è vicina ai temi "austriaci" sull'immigrazione nonché legata all'Austria su questioni bancarie. C'è poi il legame tra vittoria FPÖ in Austria e crescita della Afd, liberista e nazionalista assieme, in Germania. Per la CDU della Merkel tutto questo non è trascurabile: rischia una spaccatura col partito bavarese se non lo segue e un travaso verso Afd di un'elettorato che vede con favore politiche all'austriaca (magari tradotte in modi tedeschi). Un bel problema per la Merkel che, con la recente visita di Obama ad Hannover, ha invece mostrato interesse per un qualcosa che può mettere in crisi il proprio elettorato, quello della Csu e far fuggire voti verso Afd: il prosieguo dei round del TTIP, il trattato superliberista del commercio tra Usa ed Europa. Ma, lasciando la Merkel ai suoi problemi politici, l'Austria, il cui sistema bancario è collegato con quello tedesco (e con le sue montagne di titoli tossici), può servire come strumento per orientare le politiche bancarie. Oggi il sistema finanziario tedesco è spaccato, con conseguenze serie sull'Europa: da una parte le banche soffrono il tasso di interesse zero, dall'altra il Dax ha ripreso a camminare (tanto che per la borsa tedesca si prevedono anche dei record per il 2016). L'Austria, con il suoi problemi bancari, può servire come arma di ricatto alle banche tedesche per ricomporre, a danno dei paesi del sud, questa spaccatura. E se la crisi bancaria austriaca si sommasse con l'impasse della governance europea, grazie al comportamento ostruttivo di Vienna, non mancherebbe certo la noia in Europa.
- Possibile effetto domino in Europa. L'ultimo punto, come da lessico del Dottor Stranamore, è da bomba fine di mondo. La descrizione di questo scenario possibile è breve quanto chiara. Una eventuale vittoria della FPÖ alle presidenziali può nutrire il giubilo di tutto l'euroscettismo, e il protezionismo, europeo. C'è un di più: il 23 giugno c'è il referendum sulla Brexit, sulla permanenza o meno della Gran Bretagna nella Ue. Per adesso la permanenza in Ue è in leggero vantaggio. Una forte eco di una eventuale vittoria di Hofer potrebbe influenzare il referendum britannico. Anche perché, se l'Austria si rifiuta, da destra, di far funzionare l'eurozona per come la conosciamo c'è sempre la Grecia, con tutti i gravissimi problemi irrisolti dallo scorso anno, che potrebbe fare sinergia da sinistra. Non pagando più il debito e causando, di fatto, una forte incrinatura nella governance europea. Questo scenario può fare contagio in Gran Bretagna e favorire, sull'onda degli eventi, la Brexit. In quel caso in borsa, per capirsi, sarebbe Armageddon.
Perchè la borsa è un mondo dove il problema (e la speculazione), infatti, non avviene tanto se i sistemi cambiano. Ma se esplodono. A differenza della politica dove ci si adatta all'esplosione dei sistemi e il cambiamento è soprattutto una forma retorica da mantenere viva.
Tutto questo accadrà certamente? La politica è fatta di possibilità. Alcune accadono altre no. In conseguenza di una vittora di Hofer alcune di queste ipotesi possono accadere. Primo appuntamento, per una verifica dei problemi, al secondo turno delle presidenziali. Certo una vittoria dei verdi austriaci al secondo turno attutirebbe, e di molto lo scenario. Ma, già da oggi, guardandola dall'Austria, si capisce in quali difficoltà si dibatte l'Europa. Il disastro del liberismo, e della politica della Bce di sostegno alle banche, è sotto gli occhi di tutti. Solo che a destra ne hanno tratto le conseguenze proponendo messaggi che, negli elettori dei vari paesi, trovano consenso. Nelle sinistre mancano ormai sia una critica che un contrasto reale alla globalizzazione economica e finanziaria. Coglionescamente tutto questo viene chiamato "nostalgia sovranista", quando la globalizzazione economica e finanziaria -dove l'egemonia è di chi detiene capitali, dispositivi di governance e banche centrali- è sfacciatamente di destra, fatta per dominio dei pochi sui molti. E nel frattempo la destra populista prospera scommettendo una rinazionalizzazione delle competenze economiche a vantaggio dei pochi, sfruttando la rabbia dei molti. Scommettendo quindi su quello che è apparentemente un piccolo paese di frontiera mentre, invece, rivela tutta la sua pericolosità sistemica. Chi, su questi temi, parla di assenza della divisione destra-sinistra, parla giusto per fare da decorazione bizzarra a quanto accade. La globalizzazione economico-finanziaria, spesso confusa con quella delle comunicazione o con l'integrazione dei trasporti, è di destra. Si combatte solo da sinistra. Nel mezzo ci sono solo parole, legittime per carità, ma prive di riscontri reali.
Certo sono tutti temi che dicono poco a chi si infervora, con la centralità politica dell'analisi delle differenze di posizioni, nelle affinità e differenze tra associazione nazionale dei magistrati e consiglio superiore della magistratura. Figuriamoci per gli appassionati, per altro sempre meno, delle gesta del presidente del consiglio. Oppure a coloro che quando hanno ripetuto la retorica del "più Europa", sono convinti anche di aver detto qualcosa. Ma sono temi che suggeriscono che la politica in questo paese, certo non solo quella di ciò che è rimasto delle sinistre, è veramente fuori centro. Incapace di far entrare la globalizzazione come problema interno e capace solo di interrogarsi noiosamente sulla propria autoreferenzialità per poi, se arriva, farsi travolgere dalla marea. Certo, secondo molti, e non a torto in una ottica di lungo periodo, stiamo di fatto vivendo gli effetti della crisi del sistema monetario internazionale mostratasi durante la seconda metà degli anni '70. Già all'epoca per molte sinistre la realtà volò via come un aereo a decollo verticale. Per quelle di oggi, fino a questo momento, non c'è stata neanche la possibilità di assistere a questo genere di decollo.
redazione, 25 aprile 2016


SANITA' PUBBLICA E PASSO DEL GAMBERO

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da  http://www.senzasoste.it/politica/gambero-italia-sempre-meno-spesa-pubblica-per-la-sanita
gamberoItalia
Gavino Maciocco - tratto da http://www.saluteinternazionale.info
I sistemi sanitari single-payer, come quello italiano,  sono più economici e sostenibili di quelli basati sul mercato assicurativo, e anche con migliori risultati di salute. Per questo andavano affossati.  Il fronte anti single-payer sembra averla vinta. Del resto bisognava preparare il campo – cioè svuotarlo da una forte presenza del settore sanitario pubblico – in vista della prossima approvazione del TTIP, il partenariato transatlantico sul commercio e gli investimenti che consentirà lo sbarco in Europa dell’industria sanitaria e assicurativa americana.

Nella classifica dei sistemi sanitari più costosi, è ben noto che gli USA occupano stabilmente da decenni la posizione più alta, con una spesa sanitaria che rappresenta il 16,4%  del PIL e con una spesa sanitaria pro-capite di 8.713 dollari. I gradini più bassi del podio dei sistemi sanitari “ricchi” sono occupati da Svizzera (11,1% del PIL e 6,325 $ procapite) e Olanda (11,1% del PIL e 5,862 $ procapite). L’Italia, come si nota nelle Figure 1 e 2, è molto distanziata dai primi: 8,8% del PIL e 3.017 $ procapite.
Figura 1.  Spesa sanitaria pro-capite (dollari). 2013.  Paesi OCSE
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Figura 2. Spesa sanitaria come % del PIL.  2013. Paesi OCSE 
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I motivi dell’eccessiva spesa sanitaria USA sono stati ampiamente studiati e si possono riassumere nei seguenti punti (vedi post La spesa sanitaria americana): la frammentazione del sistema in una miriade di assicurazioni e di provider; l’uso, spesso inappropriato,  di alte tecnologie;  l’eccessiva enfasi riposta sulle specialità e lo scarso ricorso ai servizi di cure primarie; gli alti prezzi dei farmaci e le alte tariffe delle prestazioni sanitarie; gli esorbitanti  costi delle attività amministrative; l’eccesso di morbosità nella popolazione USA (obesità, diabete, etc).  Svizzera eOlanda, che hanno il pregio, a differenza degli USA, di avere un sistema sanitario universalistico e solidale, condividono con la nazione a stelle e strisce alcune caratteristiche: un sistema assicurativo privato frammentato e altamente competitivo, un forte carico di attività amministrative (marketing compreso), l’ampio ricorso al pagamento a prestazione (fee-for-service) come metodo di remunerazione dei professionisti.
Va notato che tra i 10 paesi che, dopo gli USA, spendono di più per l’assistenza sanitaria in rapporto al PIL (oltre il 10%) ben 7 appartengono al modello Bismarck (sistemi universalistici basati su una molteplicità di assicurazioni private o sociali, a seconda dei paesi) – Svizzera, Olanda, Germania, Francia, Giappone, Belgio e Austria – e solo 3 al modello Beveridge (sistemi universalistici basati su un assicuratore unico e pubblico – single-payer) – Svezia, Danimarca e Canada -.
Per completare il quadro va infine osservato che complessivamente la maggioranza dei sistemi sanitari Beveridge – dall’Australia all’Islanda, dall’Italia al Regno Unito e all’Irlanda – si trovano nelle retrovie della classifica della spesa sanitaria rispetto al PIL, al di sotto della media OCSE. A conferma della tesi che i sistemi sanitari single-payer sono più economici e sostenibili di quelli basati sul mercato assicurativo, e anche con migliori risultati di salute, vedi speranza di vita alla nascita e mortalità evitabile (Figura 3).    
Figura 3. Indicatori di spesa sanitaria e di salute – Paesi selezionati – Anno 2012 – Fonte OCSE
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Single-Payer: Bernie Sanders vs Hillary Clinton
Inaspettatamente il tema del sistema sanitario single-payer ha fatto irruzione nella campagna elettorale americana, in particolare nelle elezioni primarie in campo democratico, che oppongono l’inossidabile Hillary Clinton all’outsider Bernie Sanders.  Quest’ultimo infatti sta conducendo una battaglia a favore di un’assicurazione sanitaria unica, single-payer appunto, magari estendendo a tutti i benefici di Medicare (l’attuale assicurazione pubblica a tutela della popolazione anziana), raccogliendo un alto consenso proprio su questo punto (Medicare for All) tra l’elettorato democratico (Figura 4).
Figura 4. Opinione dei Democratici su Medicare-for-All
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La rivista New England Journal of Medicine dedica un lungo articolo al rilancio del tema “single-payer” in sanità[1]. Un tema che è emerso più volte nella storia della politica sanitaria americana, e altrettante volte è stato affossato dall’invincibile armata della lobby delle assicurazioni. Per la prima volta subito dopo la seconda guerra mondiale, nel 1945, da parte del Presidente democratico Truman, poi negli anni 70 con la proposta del senatore Ted Kennedy, infine lo stesso Obama con la sua proposta di riforma sanitaria aveva previsto l’istituzione di un’assicurazione pubblica (public option) che sarebbe entrata in competizione con le assicurazioni pubbliche. Questo progetto fu affossato per la feroce opposizione della lobby assicurativa che influenzò non solo i parlamentari repubblicani (operazione scontata), ma anche una parte di quelli democratici (operazione meno scontata). Alla fine Obama, in minoranza, dovette rinunciare a quel progetto che la lobby assicurativa temeva più di ogni altra cosa, considerandolo una sorta di cavallo di troia, come l’anticamera di un sistema sanitario single-payer.
“In un paese dove circa 30 milioni di persone sono prive di assicurazione – si legge nell’articolo delNEJM -, dove le assicurazioni sono sempre più avare a causa dei crescenti livelli di franchigia e di co-pagamenti, dove anche i pazienti assicurati possono andare incontro a enormi spese e al rischio di bancarotta familiare, dove una miriade di assicurazioni e di differenti sistemi di pagamento genera una strabiliante complessità, e dove il denaro è speso più nell’amministrazione che nella cura delle malattie cardiache e nel cancro, non deve sorprendere di udire la richiesta di un cambiamento radicale.” Poiché Bernie Sanders mette di continuo a confronto il modello USA con quello single-payer canadese, l’autore aggiunge: “ Le lezioni che vengono dal sistema sanitario canadese sono tanto chiare, quanto poco considerate. Avere un’unica assicurazione governativa riduce enormemente i costi amministrativi e la complessità. Concentra il potere di acquisto riducendo i prezzi, consente un controllo di bilancio sulla spesa sanitaria e garantisce a tutti i residenti – indipendentemente dall’età, dallo stato di salute, dal reddito e dall’occupazione – una copertura per i servizi sanitari essenziali. Medicare (questo il nome dell’assicurazione pubblica canadese) non impone né franchigie, né ticket agli assistiti. L’esperienza canadese dimostra che  Il controllo della spesa non richiede la partecipazione alla spesa dei pazienti. Il sistema canadese non è certo perfetto. Come tutti i paesi deve fare i conti con le tensioni che riguardano i costi, l’accesso ai servizi e la qualità delle cure. Attualmente il Canada è alle prese con la pressione fiscale, le liste di attesa e le rimostranze del pubblico. Tutto ciò tuttavia impallidisce rispetto ai problemi degli USA.”
Contro “Medicare for All”, proposto da Bernie Sanders, si è schierato l’intero fronte anti single-payer, dalle assicurazioni all’industria biomedica, e alla fine anche Hillary Clinton, che dapprima si era dichiarata possibilista, si è schierata apertamente contro, dichiarando la proposta “unrealistic”.   Il cambiamento di rotta (la Clinton in passato era stata una sostenitrice del modello single-payer) è motivato, secondo alcuni, dalla massa di finanziamenti ricevuti da parte dell’industria sanitaria per la sua campagna elettorale (vedi Hillary Clinton single payer).
In Europa i sistemi sanitari single-payer sono nel mirino
In Europa il fronte anti-single-payer è in piena attività. Nel mirino ci sono finiti i sistemi universalistici, medello Beveridge, come quello spagnolo, britannico e italiano, cha hanno fortemente sofferto a causa delle politiche di austerità. Ma – come hanno scritto Martin McKee e David Stuckler[2] – la crisi è stata l’occasione, il pretesto per dare una spallata al sistema. Come è successo in Spagna, dove nell’aprile del 2012 con un decreto reale il sistema universalistico basato sulla fiscalità generale è stato sostituito con un sistema assicurativo[3]. Come sta succedendo in Inghilterra e in Italia. Si parte dal definanziamento del servizio pubblico, se ne riduce l’efficienza, si allungano le liste di attesa, si innalzano i ticket. Una crescente parte degli assistiti è costretta a pagare per ricevere una prestazione sanitaria, una parte rinuncia a curarsi, altri ancora si muniscono di un’assicurazione privata.
In Inghilterra la British Medical Association (BMA, che è anche proprietaria della rivista medicaBMJ) sta offrendo una polizza sanitaria privata al suo staff, suscitando la reazione scandalizzata di uno degli autori di punta della rivista, Des Spence, medico di famiglia di Glasgow. “Polizze sanitarie private sono offerte ai dipendenti da molte organizzazioni come il General Medical Council e il quotidiano The Guardian, storico difensore del NHS – scrive Des Spence. E non è accettabile la giustificazione che rivolgendosi al privato si riduce la pressione sul NHS, che può così dedicarsi ai ceti meno abbienti.  No: quando importanti istituzioni si allontanano dall’assistenza “standard” ciò mina le fondamenta del NHS. Solo chi ha influenza ha il potere di assicurare che le liste di attesa siano tenute sotto controllo e che il NHS debba rendere conto a tutti i cittadini. Ognuno deve avere l’interesse che il NHS è al lavoro per tutti.  Supportando la medicina privata, la BMA perde legittimazione e credibilità quando si pone in difesa del NHS. La medicina privata inoltre offre cure non necessarie, abusa nell’overdiagnosi, e non sottostà alla supervisione e al controllo del NHS. I medici che lavorano sia nel settore pubblico sia in quello privato sono in potenziale conflitto d’interessi nel mantenimento delle liste d’attesa. Ancora molti della destra politica (e, pare, anche The Guardian) sembrano ciechi su queste conseguenze. Come può la BMA sostenere la pratica privata?”[4].
Figura 5. Spesa sanitaria pubblica come % del PIL.  2013.  Paesi selezionati (+ Italia 2019 e Inghilterra 2020)
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La Figura 5 mostra il divario, o meglio l’abisso, che separa i sistemi sanitari single-payer (la Spagna non più..) da quelli basati sulle assicurazioni riguardo alla spesa sanitaria pubblica (quella cioè pagata da cittadini e imprese sotto forma di tasse o di contributi) come percentuale del PIL. Il divario, o meglio l’abisso, è di circa due punti % di PIL. Significa, ad esempio, che se l’Italia avesse la stessa percentuale della Francia la sua spesa sanitaria pubblica passerebbe dagli attuali 111 miliardi di euro agli oltre 130 miliardi di euro.
E la situazione è destinata a peggiorareJohn Appleby del King’s Fund prevede per l’Inghilterra che la spesa sanitaria pubblica come % del PIL si riduca fino al 6,6% nel 2020[5]. La politica del gambero vale anche per l’Italia dove il recente Documento di Economia e Finanza ha stabilito che la la spesa sanitaria pubblica come % del PIL si riduca fino al 6,5% nel 2019[6].
Insomma, il fronte anti single-payer sembra averla vinta. Del resto bisognava preparare il campo – cioè svuotarlo da una forte presenza del settore sanitario pubblico – in vista della prossima approvazione del TTIP[7,8,9] (vedi Risorse), il trattato che consentirà lo sbarco in Europa dell’industria sanitaria e assicurativa americana.
26 aprile 2016
Risorse
De Vogli R, Renzetti N. Il potenziale impatto del partenariato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP) sulla salute pubblica [PDF: 220 Kb]. Epidemiologia e prevenzione doi: 10.19191/EP16.2.AD01.037
Bibliografia
  1. Oberlander  J. The Virtues and Vices of Single-Payer Health Care. N Engl J Med 2016; 374: 1401-1403.
  2. McKee M, Stuckler D. The assault on universalism. BMJ 2011; 343:1314-17.
  3. Garcia Rada A. New legislation transforms Spain’s health system from universal access to one based on employment. BMJ 2012; 344:e3196.
  4. Des Spence. The BMA and its staff’s private health cover. BMJ 2013, 347:f5199.
  5. Appleby J. How does NHS spending compare with health spending internationally? Kingsfund.org.uk, 20.01.2016
  6. DEF 2016: da una perfetta sintonia tra Stato e Regioni sempre meno risorse per la Sanità Pubblica. Comunicato stampa, 11 aprile 2016
  7. Stefano Guicciardi. TTIP e TISA: la salute in vendita. Saluteinternazionale.info, 18.03.2015
  8. Maciocco Gavino. TTIP e dintorni. Il liberismo in sanità: per chi suona la campana
    Saluteinternazionale.info, 29.10.2014
  9. Federico Vola e Sara Barsanti. La sanità e il TTIP (trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti). Saluteinternazionale.info, 24.10.2014
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NO TAV E IL TEOREMA DEL TERRORISMO

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da http://popoffquotidiano.it/2016/04/27/no-tav-perche-la-procura-insiste-col-teorema-del-terrorismo/

Battuta sei volte in aula, al Riesame  e in Cassazione, la Procura di Torino continua a brandire i fantasmi di Caselli e prova a perseguitare un movimento popolare che resiste

di Francesco Ruggeri
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Dopo aver perso la battaglia già sei volte, quattro nel merito al Riesame e due in Cassazione, la pubblica accusa non demorde e ricorre ancora alla Suprema Corte per dire che l’attacco al cantiere di Chiomonte nella notte tra il 13 e il 14 maggio del 2013 “fu terrorismo”. Lo ha deciso per la procura generale di Torino il magistrato Francesco Saluzzo che ha ereditato il ruolo di Marcello Maddalena andato in pensione subito dopo aver perso in appello. I giudici di secondo grado infatti confermavano l’assoluzione dall’accusa di terrorismo condannando i 4 militanti NoTav solo per i reati minori. Una notizia tratta da Giustiziami, sito milanese di cronisti di giudiziaria rilanciato dai siti No Tav.
Per la terza volta dunque la Cassazione si dovrà occupare di quell’ormai famosocompressore bruciacchiato dalle bottiglie molotov che nel teorema Caselli, procuratore all’epoca dei fatti, era diventato una sorta di rapimento Moro del terzo millennio.
Gli imputati e le parti civili che impugnano sentenze sfavorevoli lo fanno pagando di tasca loro, la pubblica accusa no. A pagare le spese siamo infatti noi contribuenti e questo vale anche per i ricorsi “a schiovere” come dicono a Napoli.
La procura generale di Torino sa benissimo che andrà incontro a un altro no secco in Cassazione, ma purtroppo i processi non si celebrano solo nelle aule. All’accusa il ricorso serve per provare a indebolire un reale movimento popolare continuando ad agitare nell’opinione pubblica quello spettro, “il terrorismo”, per ribadire il messaggio che non ci si può ribellare nemmeno davanti a un’opera utile esclusivamente a devastare un territorio una volta incontaminato e, ovviamente a far girare soldi. Tutto ciò nell’interesse di grandi aziende e delle banche che controllano direttamente o indirettamente i giornali, grandi sostenitori dell’affare alta velocità. «E’ la magistratura che fa politica – conclude Franck Cimini, il cronista – ma in questo caso di garantisti in giro se ne vedono davvero pochi. Qui magistratura e politica vanno a braccetto. Anche perché sugli appalti dell’alta velocità in Val Susa nessun fascicolo è stato aperto.
Intanto Niccolò, Claudio e Mattia a seguito di istanza di scarcerazione sono liberi da febbraio mentre è in corso il processo d’appello. Parallelamente anche Lucio, Graziano e Francesco hanno fatto istanza e il giudice del loro procedimento ha deciso di liberarli, ma con la misura non detentiva dell’obbligo di dimora, a Milano e Lecce. La situazione di Chiara invece è un po’ più complicata visto che alcuni mesi fa le è stata applicata dal tribunale di Teramo la sorveglianza speciale che diventerebbe esecutiva qualora finisse gli attuali arresti domiciliari. Loro sette sono coinvolti nei due diversi procedimenti con i quali la procura torinese avrebbe voluto far vincere il teorema del terrorismo.
Per quattro di loro, a dicembre del 2014, era caduta l’accusa di terrorismo e  con essa tutto l’impianto accusatorio formulato dai “pm con l’elmetto” Padalino e Rinaudo. Ma Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi per danneggiamento aggravato, porto d’arma da guerra e violenza a pubblico ufficiale. C’è anche una multa di 5000 euro a testa e un risarcimento, del quale non si conosce la cifra, a Ltf mentre sono stati negati quelli richiesti dall’avvocatura dello stato e dal Sap, sindacato di polizia legato alla destra e famoso per la standing ovation clamorosa tributata ai quattro assassini di Federico Aldrovandi. Il ridimensionamento delle accuse è un fatto positivo, perché sgretola il castello imbastito dai pm, già smontato dalla Cassazione, ma riapplicato nel caso di Lucio, Francesco e Graziano. Ma la lotta continua.
Il leader del partito Yes Tav, senatore del Pd, Esposito, s’è scandalizzato per l’intervento di una delle mamme No Tav dal palco del festival del jazz durante le celebrazioni del 25 aprile proprio mentre la magistratura ha scoperto l’ennesima collusione tra suoi colleghi di partito e Clan dei Casalesi. La legalità, per personaggi come lui, è solo quella che protegge possenti interessi economici consentendo lo scempio delle vite di chi lavora e dei territori.

CONTADINI EUROPEI IN SVENDITA

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da http://popoffquotidiano.it/2016/04/28/contadini-europei-in-svendita-il-nuovo-report-stopttip/



Pubblicato oggi in 17 Paesi europei il rapporto “Contadini europei in svendita – I rischi del Ttip per l’agricoltura europea” redatto da Friends of the Earth Europe in collaborazione con l’associazione Fairwatch 
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Il controverso accordo commerciale TTIP in fase di negoziazione tra l’UE e gli Stati Uniti potrebbe portare al disastro l’agricoltura europea. E’ la conclusione del nuovo rapporto  “Contadini europei in svendita – I rischi del Ttip per l’agricoltura europea” redatto da Friends of the Earth Europe e pubblicato in Italia in collaborazione con l’associazione Fairwatch. Il rapporto analizza tutti gli studi più recenti di impatto economico del Trattato di partenariato transatlantico TTIP sul settore agroalimentare europeo, e rivela come il TTIP possa rappresentare per esso una vera e propria minaccia. Il TTIP aumenterà le importazioni dagli Stati Uniti, con un vantaggio per le grandi imprese Usa fino a 4 miliardi di euro, 1 mentre avrà pochi benefici e e per pochissimi grandi produttori europei, la maggior parte del settore industriale
Lo studio, lanciato il 28 aprile, mostra come mentre il contributo dell’agricoltura al Pil europeo potrebbe diminuire dello 0,8%, con conseguente perdita di posti di lavoro, quello statunitense aumenterebbe dell’1,9%. Una vera e propria ristrutturazione del mercato che avrebbe effetti anche sulla gestione del territorio e sulle caratteristiche del tessuto produttivo agricolo europeo e italiano.
“Si prevede, infatti, che il TTIP porterà molti agricoltori in tutta l’UE a confrontarsi con una maggiore concorrenza e prezzi più bassi da parte dei competitor Usa – spiega la coordinatrice del rapporto per l’Italia Monica Di Sisto di Fairwatch, tra i portavoce della Campagna Stop TTIP in Italia –  minacciando le aziende agricole di tutta Europa, oltre ad avere un impatto negativo sulle aree rurali e sugli interessi dei consumatori”.
Per questo la Campagna Stop TTIP Italia sarà in piazza a Roma il 7 Maggio a partire dalle 14.00 (Concentramento Piazza della Repubblica) con una forte rappresentanza di associazioni di produttori, dei lavoratoti dei settori potenzialmente colpiti, e di consumatori, e organizzerà in città un “Free TTIP Market” dove sarà possibile assaggiare e acquistare il buon cibo tipico del nostro Paese, e parlare con i produttori dei rischi del TTIP
Per info https://stop-ttip-italia.net/7-maggio /
Mute Schimpf, responsabile delle ricerche sull’agrifood di Friends of the Earth Europe, spiega: “La nostra preoccupazione concreta è che l’agricoltura europea, nelle dinamiche negoziali, venga sacrificata per chiudere l’ accordo TTIP a tutti i costi. Il rapporto rivela anche che le lobby agroindustriali, sia negli Stati Uniti sia in Europa, stanno spingendo per un maggiore accesso ai rispettivi mercati agricoli”.
Gli Stati Uniti, in particolare, mirano ad abbattere gli standard di sicurezza alimentari e di benessere degli animali in genere superiori in Europa.
“Tuttavia, anche se si mantenessero gli standard in vigore nell’UE, l’aumento delle importazioni dagli Stati Uniti inonderà i mercati europei, garantendo enormi opportunità di esportazione e di profitti per le aziende alimentari e gli allevamenti Usa a scapito di quelli europei, e facendo diventare per questi ultimi assolutamente antieconomico rispettare le regole in vigore.
Alcune previsioni di settore
DOP
Il danno commerciale previsto con il TTIP potrà essere compensato dalla difesa delle nostre DOP? Sembrerebbe proprio di no. Al di là della chiara opposizione statunitense a ogni tipo di risultato ambizioso in questo settore, la lista proposta di prodotti DOPe  DOC da tutelare (poco più di 200 su quasi 1500 protette dall’Unione europea, di cui 41 italiane su 269 riconosciute dal nostro Ministero delle politiche Agricole e Forestali e attive) non solo è insufficiente, ma prevede chela maggior parte dei prodotti “italian sounding” già sul mercato Usa non possano venire ritirati e che anzi, per il principio della reciprocità commerciale, circolino tranquillamente in Europa come mai è potuto succedere fino ad oggi
CARNI
Tutti gli studi analizzati prevedono che, se le tariffe dell’UE saranno eliminate come previsto, ci saranno aumenti significativi delle importazioni di carne bovina statunitense verso l’Europa, che varranno fino a $ 3,20 miliardi. Gli allevamenti di manzo europei che producono carne di alta qualità, sono considerati particolarmente a rischio
LATTE E LATTICINI
In questo settore le esportazioni Usa si prevede che aumentino fino a 5,4 miliardi di dollari in più, mentre quelle europee al massimo di 3,7 miliardi di dollari. Per tutti i produttori di latte europei di verificherà una ulteriore caduta dei prezzi interni
POLLAME
Al momento c’è molto poco commercio di prodotti avicoli o uova tra Stati Uniti e UE 39, ma i gruppi di pressione degli Stati Uniti vogliono usare il TTIP per aprire il mercato UE abbattendone gli standard di sicurezza alimentare.
SUINI
La produzione di carne di maiale europea è il doppio di quella degli Stati Uniti, e ha regole più severe sul benessere degli animali. Il vero nodo è la ractopamina: tra il 60% e l’ 80% dei suini negli Usa è trattato con questo ormone vietato da noi perché danneggia il sistema endocrino umano. Gruppi di pressione degli Stati Uniti stanno premendo per l’eliminazione di questo,  oltre che per la completa eliminazione delle tariffe.

LA RABBIA DEGNA

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da http://popoffquotidiano.it/2016/04/29/parigi-fotoracconto-di-una-rivolta/

Scioperi e manifestazioni in tutto il paese. Provocazioni e cariche della polizia. Sindacati, movimenti studenteschi e sinistra anticapitalista ancora in piazza a Parigi per chiedere il ritiro della loi El Khomri




In Francia non si arresta la grande lotta contro la loi El Khomri, la riforma del diritto del lavoro con la quale François Hollande e Manuel Valls vorebbero erodere i diritti dei lavoratori seguendo alla lettera i peggiori diktat del neoliberismo più aggressivo. Dopo il successo dello sciopero generale del 31 marzo, che aveva portato in strada più di un milione di persone, continua dunque la mobilitazione che i sindacati (CGT, FO, FSU, Solidaires), i movimenti studenteschi (UNEF, Fidl, UNL) e la sinistra anticapitalista e radicale (NPA, PCF, PG) stanno ormai portando avanti a oltranza.
Secondo la Cgt, la Confédération générale du travail, il 28 aprile più di mezzo milione di manifestanti hanno sfidato lo stato di emergenza scendendo in piazza in tutto il paese. A Parigi il corteo partito da Place Denfert-Rochereau in direzione di Nation ha radunato circa 60 mila persone. Nella capitale ci sono stativiolenti scontri con la polizia, prima sul Pont d’Austerlitz, sulla rive gauche della Senna, e poi nei pressi di Place de la Nation, dove la famigerata BAC, la Brigade anti-criminalité,  ha effettuato arresti e controlli d’identità all’ingresso della metropolitana. Tra i diversi feriti ci sarebbe anche un poliziotto in borghese, forse colpito dai suoi stessi colleghi. Durante il tragitto i manifestanti, prima di essere storditi dalle granate assordanti, hanno scandito a gran voce uno slogan che riassume la situazione in modo esplicito: “police partout, justice nulle part!”. Gas lacrimogeni e manganellate anche a Nantes e Lione, mentre a Marsiglia sono una sessantina le persone arrestate durante la manifestazione. Diversi delegati sindacali hanno parlato di una “strategia della tensione” e di “provocazioni da parte delle forze di sicurezza condotte al fine di far degenerare i cortei”. A Rennesuno studente di vent’anni è stato gravemente ferito da un tiro di “flashball” da parte della CRS, la Compagnies Républicaines de Sécurité, e rischia ora di perdere un occhio.
Proprio gli studenti, dopo essere stati ricevuti in delegazione dalla ministra dell’Education nationale Najat Vallaud-Belkacem, hanno ribadito con la loro presenza come “persistano profondi disaccordi” nelle reciproche visioni sul futuro dei giovani all’interno del mondo del lavoro, legando le proprie rivendicazioni di giustizia sociale alla dichiarazione congiunta presentata da tutte le organizzazioni in previsione della giornata di ieri. “Il testo del disegno di legge non rispetta i diritti, le condizioni di lavoro e di vita delle generazioni attuali e future, perché laflessibilità e la precarietà non hanno mai rappresentato un fattore di progresso e di occupazione”, recita il comunicato.
Il presidente Hollande, dopo aver strumentalizzato lo “stato di emergenza” perreprimere la protesta, utilizzando la retorica del “paese in guerra” per convincere i francesi a sottomettersi alle sciagurate politiche di austerità, ha tentato disperatamente di dividere il fronte intersindacale offrendo in maniera elusiva un accordo per soddisfare parzialmente alcune delle richieste dei movimenti studenteschi. La manovra del governo però, essenzialmente strumentale alle finalità della Confindustria francese, è stata prontamente respinta, come lo erano state in precedenza le modifiche marginali che il premier Valls e la commissione per gli Affari sociali di Palais Bourbon avevano apportato al testo, certi di poter così ottonere il blocco dell’opposizione grazie al vecchio trucco “del bastone e della carota”.
Ma la verità è che né la repressione né le ridicole concessioni del governo hanno allentato la pressione della mobilitazione. François Hollande, al contrario di Matteo Renzi, si è senz’altro reso conto di sostenere una riforma assolutamente impopolare e teme che il suo governo non sarà in grado di raccogliere la maggioranza in parlamento nel momento decisivo. A tale proposito, una petizionelanciata sul web, e firmata da oltre 1 milione e 300 mila cittadini, chiede proprio ai deputati di rigettare questo Jobs Act alla francese in tutte le sue parti. Oltretutto, con le elezioni presidenziali in programma per quest’anno, un inatteso “sgambetto” da parte dei deputati della destra all’irresponsabile presidente marziale potrebbe risultare piuttosto deleterio per il governo.
La precarizzazione del lavoro che le impopolari politiche governative vogliono imporre ai francesi viene denunciata quotidianamente, dagli scioperi allemanifestazioni che si susseguono in tutto il paese, passando per le Nuit deboutdi Place de la République. In questo contesto, risulta fondamentale il processo di unificazione di tutte le categorie sociali e professionali che sta avvenendo in Francia da oltre un mese: “Tutte le organizzazioni sindacali riaffermano con fermezza le rivendicazioni nei confronti del governo per chiedere il ritiro di questo progetto di regressione sociale. La determinazione della protesta è intatta ed è sostenuta in maniera massiccia dall’opinione pubblica”.
Per il Nouveau Parti Anticapitaliste questa nuova giornata di lotta si inserisce in una dinamica di cambiamento ancora più ampia: “Come nel maggio del ’68 è necessario portare avanti una lotta senza sosta. Piccoli imprenditori e dipendenti si mobilitano contro i licenziamenti e la chiusura delle loro attività, o contro i tagli nella pubblica amministrazione. I ferrovieri sono in sciopero, mentre gliintermittents du spectacle hanno occupato il teatro Odéon di Parigi. Gli studenti sono in piazza al fianco dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati e dei pensionati. Oggi finalmente abbiamo la possibilità di unire le forze e porre fine al dispotismo del governo e del Medef. Insomma, questa volta possiamo vincere!”.
Martedì 3 maggio il testo approderà in commissione all’Assemblée nationale e le forze di opposizione promettono di continuare la mobilitazione con ulteriori azioni a tutti i livelli, finché la voce delle migliaia di manifestanti, e della maggior parte dell’opinione pubblica francese, non verrà finalmente ascoltata. Nel frattempo, chissà se il vento della rivolta che soffia oltralpe riuscirà a portare una seppur tenue folata di novità verso l’Italia. Per le forze che si oppongono allefallimentari politiche del governo Renzi la situazione nel nostro malandato “belpaese” è certamente critica, con la Cgil piegata da tempo immemorabile al volere degli sciamani del pensiero unico e una Fiom che sopprime il dissenso in maniera autoritaria e con estrema nonchalance, proprio mentre l’aumento incontrastato dell’utilizzo dei voucher legalizza di fatto il lavoro nero e lo sfruttamento di milioni di lavoratori. Rivitalizzare il conflitto sociale e unificare le lotte, è forse questo l’unico vero vaccino per contrastare efficacemente la più feroce metastasi che minaccia la vita di tutti, il neoliberismo.

SUNDAY MAGAZINE. PRIMO MAGGIO.

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IL VECCHIO MURATORE
Ho girato mezzo mondo
con la cazzuola e il filo di piombo,
ho fabbricato con le mie mani
cento palazzi di dieci piani:
tutti in fila li vedo qua
e mi fanno una grande città.
Ma per me e per la mia vecchia
non ho che questa catapecchia.
Sono di legno le pareti,
le finestre non hanno vetri
e dal tetto di paglia e di latta
piove in tutta la baracca.
Dalla città che ho costruito,
non so perchè sono stato bandito.
Ho lavorato per tutti: perché
nessuno ha lavorato per me?

(Gianni Rodari)

JOBS RE ACTIONS

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da  http://ilmanifesto.info/jobs-re-actions/


Diritti. L'uso di dati e cifre spesso smentite dai fatti è funzionale a politiche di riduzione dei diritti del lavoro che, invece, si vogliono spacciare per provvedimenti innovativi e capaci di creare nuovo lavoro. Ma non serve a nascondere il fallimento




Il flop del Jobs Act del governo Renzi non è il semplice effetto di un obiettivo mancato. Il continuo maneggio di dati e cifre poi contraddette dai fatti, non serve a nascondere un fallimento inaspettato. Esso è funzionale a politiche di riduzione dei diritti del lavoro che, invece, si vogliono spacciare per provvedimenti innovativi e capaci di creare nuovo lavoro.
Il «contratto a tutele crescenti», perno del Jobs Act, si basa su una stridente contraddizione. Da un lato, lo Stato eroga contributi alle imprese perché stipulino contratti a tempo indeterminato, modificando quelli a termine già esistenti o per i neoassunti. Dall’altro, si ammette la libertà di licenziare i lavoratori in qualsiasi momento e con qualunque motivazione. Il che rappresenta il massimo della precarietà. Infatti, si sta verificando che i nuovi contratti crescono in misura strettamente dipendente dai contributi versati agli imprenditori, mentre continuano a crescere i lavori precari. A cominciare da quelli part time (presenti anche nei nuovi contratti) fino al dilagare delle forme di massima precarietà come quella del ticket-lavoro, che nel primo bimestre di quest’anno è aumentata del 45% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (per un totale di 19,6 milioni di voucher).
In realtà si tratta di una sostanziale subordinazione delle politiche del lavoro ai dettami del neoliberismo imperante. Ed ha ragione Renzi a dirsi erede di Blair o a sottolineare la connessione tra i suoi provvedimenti e quelli propugnati dalla commissione Hartz nella Germania di Schröder. Sono stati, infatti, proprio loro e gli altri becchini di quel che restava della socialdemocrazia europea a piegare le politiche del lavoro alle esigenze del neoliberismo imperante.
La svolta conservatrice è stata battezzata con l’ingannevole definizione di «politiche attive del lavoro». Tale definizione ricorre nelle controriforme del lavoro introdotte nei maggiori paesi europei dalla fine degli anni ’90 ad oggi.
La prima, varata da Blair nel 1998, si proponeva di ridurre i diritti dei lavoratori e le prestazioni di welfare ad essi connesse. Secondo lui, i cittadini dovevano uscire dalla «dipendenza e pigrizia» determinate dai provvedimenti di assistenza sociale e diventare responsabili del proprio destino ricercando attivamente un lavoro. La motivazione era la stessa sostenuta dalla Thatcher e da Reagan. In realtà, i provvedimenti previsti avevano lo scopo di spingere i cittadini ad accettare un lavoro qualsiasi, anche pesante e malpagato. In questo modo si tagliavano drasticamente le spese sociali e si favoriva la competizione al ribasso nel mercato del lavoro. Lo stesso principio è stato adottato dalla commissione Hartz istituita in Germania nel 2002. Anche il governo del socialista Jospin in Francia, che, pure, è stato più avveduto nella revisione del sistema di welfare, si è conformato al paradigma delle «politiche attive del lavoro» promulgando, nel 2002, provvedimenti affatto simili a quelli adottati in Gran Bretagna e Germania. In Italia, misure analoghe hanno trovato facile sponda nel liberismo populista dei governi Berlusconi. Né sono state efficacemente osteggiate dalle coalizioni di centro sinistra, peraltro caratterizzate da paralizzanti tensioni interne.
Il sempre più accentuato spostamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, dovuto alle strategie economiche e politiche neoliberiste, ha trovato rispondenza in altri due obiettivi complementari al precedente e perseguiti con pari tenacia.
Il primo riguarda la sempre maggiore libertà di licenziamento accordata agli imprenditori e praticabile per semplice convenienza economica. In Gran Bretagna il terreno già arato in questo senso dai governi Thatcher e Major ha reso più agevole a Blair superare i vincoli normativi. In Germania, dove essi erano più rigidi, sono stati aggirati nella pratica e con la tolleranza del governo. In Francia e in Italia la resistenza sindacale è stata più tenace su questo punto, anche se gli imprenditori si sono valsi della più ampia e crescente flessibilità nelle norme e tipologie contrattuali, con la conseguente proliferazione delle forme di lavoro precario.
L’altro obiettivo riguarda l’incoraggiamento dato alla contrattazione aziendale rispetto a quella nazionale. Perseguito per prima da Margaret Thatcher, esso è stato riaffermato, in completa continuità, dal New Labour di Blair. Anche in questo caso l’intento è quello di indebolire la capacità contrattuale di lavoratori e sindacati.
Peraltro, il perseguimento di tali obiettivi non è disgiungibile dalla parallela opera di decostruzione dello Stato sociale. Infatti, i provvedimenti citati sono stati regolarmente accompagnati, in tutti i paesi cui ci siamo riferiti, da drastici ridimensionamenti delle pensioni, da tempo sganciate dal reddito raggiunto in età lavorativa. Parallelamente, sono stati fatti tagli sempre più impietosi ai sistemi sanitari. In questo e altri settori sono stati adottati criteri di gestione quasi-market, ovvero ancorati a budget prefissati. Le varie forme di assistenza sono state limitate ai «realmente bisognosi» sulla base di ristretti accertamenti dei mezzi. Mentre l’intero sistema è stato contrassegnato da privatizzazioni crescenti e da assicurazioni private, specie in ambito pensionistico e sanitario.
Tutto ciò non ha fatto altro che ridurre il salario reale e con esso i margini di una sia pur minima redistribuzione della ricchezza. Sull’altro versante, invece, è stata costante la riduzione della tassazione sulle imprese e i redditi, con chiaro vantaggio dei più alti.
In questo quadro di generale contrazione delle politiche sociali, il perseguimento dei tre obiettivi principali che hanno caratterizzato la legislazione sul lavoro ha avuto effetti sociali sempre più pesanti. Ed essi hanno caratterizzato in modo, se possibile, ancor più determinato i provvedimenti successivi alla crisi del 2008. Oggi, le misure di Cameron, il Jobs Act di Renzi, come la Loi Travail proposta dal governo francese rappresentano una sorta di completamento di un lungo percorso che ha contribuito non poco all’aumento delle diseguaglianze sociali. Tuttavia, il nuovo indirizzo dato al Labour Party da Jeremy Corbyn e la forte resistenza che sta incontrando la legge proposta dal governo francese mostrano che cambiamenti di rotta sono possibili, oltre che necessari.

TTIP LEAKS: ECCO TUTTI GLI IMBROGLI!

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da http://popoffquotidiano.it/2016/05/02/greenpeace-ecco-tutti-gli-imbrogli-del-ttip/

#TTIPleaks trafugati da GreenPeace svelano il pressing degli Usa per cancellare il principio di precauzione e stravolgere gli standard ambientali in nome del libero scambio. Sabato 7 tutti in piazza a Roma

di Checchino Antonini
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Ttip, così il pressing degli States per una corsa al ribasso negli standard ambientali, della salute e della tutela dei consumatori. Ragioni ulteriori perché sabato prossimo sia enorme la partecipazione al corteo nazionale StopTtip in programma a Roma.
I negoziati per progetto di trattato di libero scambio fra Stati Uniti e Unione europea (Ttip), in corso da oltre tre anni, vanno a rilento per differenze «inconciliabili» in molti settori, mentre la parte statunitense fa pressioni sulla controparte europea perché abbassi o aggiri i suoi paletti regolamentari sui temi della salute e della tutela dell’ambiente: è quanto sostiene anche l’organizzazione ecologista Greenpeace, che afferma di essere venuta in possesso di bozze e dichiarazioni negoziali riservate della difficile quanto vasta trattativa. Documenti che sono stati visionati da vari media, fra cui il britannico The Guardian e il francese Le Monde. Dalle 11 di stamane sono su un sito web della sezione olandese di Greenpeace, con l’hashtag #TTIPleaks (scarica)

I “Ttip papers”, per un totale di 248 pagine, sono stati dati in visione a un gruppo selezionato di media europei (Askanews in esclusiva per l’Italia), prima della loro pubblicazione. I documenti – che risalgono al marzo scorso e non sono aggiornati, dunque, con i risultati dell’ultimo “round”  negoziale di New York, la settimana scorsa – coprono più di due terzi del totale dei testi del Ttip, e svelano per la prima volta, sulla maggior parte dei settori in discussione, la posizione negoziale degli Usa, che finora era stata mantenuta sempre confidenziale (a differenza della posizione europea, in gran parte pubblica). Il Trattato serve ad abbassare, quando non a smantellare, gli standard attuali e futuri di protezione dell’ambiente e della salute applicati in Europa, e a dare alle lobby industriali e commerciali il diritto di accedere, influenzandoli pesantemente, ai meccanismi di decisione delle norme Ue fin dalle sue fasi preliminari, con un rischio evidente di stravolgimento del gioco democratico. “Una porta aperta per le lobby delle corporation” secondo Greenpeace. Evidente che gli americani sono particolarmente aggressivi e determinati nel loro tentativo di costringere l’Ue a rinunciare al “principio di precauzione” come base per la gestione del rischio nell’approccio normativo riguardo alle politiche di protezione dell’ambiente e della salute, e in particolare per la  regolamentazione delle sostanze chimiche, dei pesticidi, degli Organismi geneticamente modificati (che vengono citati nei documenti con il termine “moderne tecnologie in agricoltura” e mai con la loro sigla Ogm) etc.
“Per gli Usa, se una sostanza sul mercato presenta un rischio, quel rischio va gestito. Per l’Ue, invece, quella sostanza va evitata, e, quando è possibile, sostituita con una sostanza alternativa meno rischiosa”, ha spiegato il direttore dell’Ufficio europeo di Greenpeace, Jorgo Riss, sottolineando che “il principio di precauzione è iscritto nei Trattati Ue. Ma, sorprendentemente, non viene citato neanche una volta in queste 248 pagine, come se all’Ue non interessasse difenderlo. Così come – ha notato ancora Riss – non viene mai menzionata neanche la clausola delle ‘Eccezioni generali’ che da quasi 70 anni è predente nei trattati commerciali internazionali (art. XX Gatt/Wto), e che consente agli Stati di decidere restrizioni al commercio ‘per proteggere la vita o la salute umana, degli animali e delle piante’, e per ‘la conservazione delle risorse naturali esauribili’”. Infine, Greenpace accusa i negoziatori di entrambe le parti di avere totalmente ignorato la protezione del clima e l’accordo internazionale di Parigi scaturito dalla conferenza Onu “Cop 21″, che ha fissato l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura media globale sotto 1,5 gradi centigradi.
Jorgo Riss, direttore di Greenpeace per l’Unione europea, ha dichiarato: «Questi documenti trapelati ci consentono uno sguardo senza precedenti sull’ampiezza delle richieste americane, che vogliono che l’Ue abbassi o aggiri le sue tutele dell’ambiente e della salute pubblica nell’ambito del Ttip». Secondo l’esponente ecologista, citato dal Guardian, «la posizione europea è brutta, ma quella americana è terribile» e, secondo lui, «si sta spianando la strada a una gara al ribasso negli standard ambientali, della salute e della tutela dei consumatori». Il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Agreement) fra l’Unione europea e gli Stati Uniti, di cui si è da poco concluso il 12mo round negoziale a New York, è concepito per essere un ambizioso trattato di libero scambio di merci, servizi e investimenti fra i due lati dell’Atlantico. Un trattato che, se andrà in porto, creerà la più grande area di libero scambio del pianeta, sommando due economie che insieme, rappresentando oltre 800 milioni di persone, ammontano già oggi al oltre il 46% del Pil dell’intero pianeta. Un trattato in cui il commercio sarebbe solo la parte minore e le cui conseguenze sarebbero gigantesche e inciderebbero radicalmente sulla vita di entrambi i continenti. Ma sul quale vi sono differenze radicali fra i due continenti nei rispettivi regolamenti in molte aree, dall’ambiente alle regole del mercato del lavoro, dalla proprietà intellettuale ai servizi finanziari.
Dai documenti, confermati nella loro autenticità da funzionari impegnati nelle trattative, emerge la rigida tattica adottata dagli americani: «Mentre l’Ue rende pubbliche le sue proposte, gli Usa si ostinano a mantenere segrete le posizioni, garantendosi così uno spazio di manovra tattico», scrive la tedesca Sueddeutsche. In un documento riservato si legge che «il governo americano si affretta a chiarire che i progressi sui componenti di auto sono possibili solo se l’Ue si muove sulle dogane per i prodotti agrari», riferisce ancora la Sueddeutsche.
L’accordo commerciale Ttip in fase di negoziazione tra l’Ue e gli Stati Uniti potrebbe portare al disastro l’agricoltura europea, ha spiegato un nuovo rapporto «Contadini europei in svendita – I rischi del Ttip per l’agricoltura europea», redatto da Friends of the Earth Europe e pubblicato in Italia in collaborazione con l’associazione Fairwatch. Il rapporto analizza tutti gli studi più recenti di impatto economico del Trattato di partenariato transatlantico sul settore agroalimentare europeo e osserva come il Ttip possa rappresentare per esso una vera e propria minaccia. Il Ttip, secondo il rapporto, aumenterà le importazioni dagli Stati Uniti, con un vantaggio per le grandi imprese Usa fino a 4 miliardi di euro, mentre avrà pochi benefici e per pochissimi grandi produttori europei, la maggior parte del settore industriale Secondo lo studio, mentre il contributo dell’agricoltura al Pil europeo potrebbe diminuire dello 0,8%, con conseguente perdita di posti di lavoro, quello statunitense aumenterebbe dell’1,9%.
Per questo la Campagna stop Ttip Italia sarà in piazza a Roma il 7 maggio a partire dalle 14.00 (Concentramento Piazza della Repubblica) e organizzerà in città un «Free Ttip Market» dove sarà possibile assaggiare e acquistare il cibo tipico delle regioni italiane.

Roma 7 maggio 2016
ore 14.00 ritrovo in Piazza della Repubblica

dalla mattina in PIAZZA SAN GIOVANNI

TTIP FREE BIO&ECO MARKET, LEZIONI IN PIAZZA, INFO

e per finire… CONCERTONE!

Per informazioni e adesioni
stopttipitalia@gmail.com
Aiutaci a sostenere la campagna di finanziamento dal basso #StopTTIP

IL FENOMENO HOFER

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da http://popoffquotidiano.it/2016/05/03/maschio-giovane-ignorante-ecco-chi-vota-il-nazi-in-austria/

Chi è Norbert Hofer che rischia di diventare presidente in Austria e chi sono i suoi elettori. Il fallimento della «Grande coalizione», un avvertimento per l’Europa

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L’uomo è sorridente ed è abituato a controllare le emozioni. Dopo una degenza in ospedale di oltre un anno a causa di un incidente col parapendio, ha imparato a essere paziente. Ma non è un moderato, e nemmeno un arrivista della politica. Norbert Hofer, 45 anni, è un ideologo, uno di quelli veri. È uno dei principali quadri del FPÖ [Freiheitliche Partei Österreichs, Partito della libertà d’Austria], un partito d’estrema destra di cui fa parte sin dall’adolescenza.
Domenica 24 aprile 2016 [nelle elezioni presidenziali, Hofer] ha ottenuto il 35,1 % dei voti, con una partecipazione del 68,5 % [1]. Nel suo comune natale, Pinkafeld, nella regione del Burgenland, ha ottenuto il 60,7 %…, e non si tratta nemmeno del risultato locale più elevato, poiché ha superato il 64 % a Wiesenfeld. La regione del Burgenland, d’altronde, è da ormai un anno governata da una coalizione formata dal FPÖ (che nel Parlamento europeo è nello stesso gruppo del Front national francese), e dalla … socialdemocrazia locale. L’Austria, Paese solitamente più conosciuto per la bellezza dei suoi paesaggi e per la sua gastronomia, è anche questo…
Ed è qui, a Pinkafeld, che Hofer sì è iniziato alla politica, reclutato da un professore della cerchia Deutschnational (pangermanista). Una cerchia compatta, composta da appartenenti alle Burschenschaften, le corporazioni studentesche d’estrema destra e armate (praticano i duelli alla spada); una cerchia, anche, piuttosto anticlericale in una regione prevalentemente cattolica, e una parte della quale nasconde a fatica le proprie affinità con il nazismo, storico e attuale. A 23 anni, Norbert Hofer ha cominciato a fare politica a livello regionale, poi nazionale, attratto dall’ascesa di Jörg Haider, il capo della FPÖ dal 1986 sino a quando se ne è scisso nel 2005 (morendo poi in un incidente nel 2008): ma sempre mantenendo una certa distanza da lui, che giudicava poco serio, con convinzioni non sufficientemente solide, ideologicamente non abbastanza fermo.
Non è dunque un dettaglio di scarsa importanza il fatto che Norbert Hofer, un duro di questa estrema destra austriaca che aveva già fatto parte del governo federale dal 2000 al 2005 (o al 2006, se si conta anche la scissione «moderata» che aveva seguito Haider), sia arrivato in testa nelle elezioni presidenziali, il cui secondo turno si svolgerà il 22 maggio.
Certo, il presidente federale austriaco non ha che poteri limitati, con un ruolo più che altro protocollare. Il vero potere politico è concentrato nelle mani del cancelliere, capo del governo formato dalla maggioranza parlamentare. Ma il candidato Hofer ha detto che potrebbe licenziare il governo in carica – una «Grande coalizione» fra la socialdemocrazia (SPÖ, Sozialdemokratische Partei Österreichs) e la destra democristiana della ÖVP (Österreichische Volkspartei, Partito del popolo austriaco) – se questo «lavora male», convocando elezioni anticipate. E nel clima attuale, la FPÖ potrebbe sicuramente superare il 30 % dei voti, con un aumento di circa il 10 %.
L’inconsistenza dei partiti della «Grande coalizione» – una coppia sprovvista d’immaginazione e della minima creatività politica – si è ben riflessa nei risultati dei suoi due candidati. Mentre nelle ultime elezioni legislative [2013] i partiti socialdemocratico e democristiano avevano messo assieme complessivamente il 60 % circa dei voti, i loro candidati alla presidenza (Rudolf Hundstorfer e Andreas Kohl) ottengono al primo turno rispettivamente l’11,3 % e l’11,1 %. Si può così vedere come l’estrema destra abbia letteralmente spazzato via i rappresentanti dei due grandi partiti al potere.
È il candidato dei Verdi [Die Grünen], Alexander van der Bellen (piuttosto centrista, del tipo democratico-umanista), che se l’è cavata meglio: con il 21,3 % dei voti, è lui che sfiderà il rappresentante dell’estrema destra al secondo turno [2]. Si può prevedere che i partiti di centrosinistra e di centrodestra [SPÖ e ÖVP] finiranno con l’appoggiare il candidato dei Verdi. Invece una candidata «indipendente», Irmgard Griss, già giudice della Corte suprema, e che ha ottenuto il 18,9 %, non ha sino a ora fornito indicazioni di voto: poiché però la sua campagna elettorale s’è centrata contro un preteso lassismo del governo in tema d’immigrazione, ci si può aspettare che i suoi elettori si orienteranno in parte verso il candidato della FPÖ.
La politica sull’immigrazione è stata al centro di dibattiti per gran parte della campagna elettorale. L’Austria – che sino a ora era stata soprattutto un Paese di transito verso la Germania e la Scandinavia per i migranti del Medio Oriente che attraversavano i Balcani – non riceve ormai più molti rifugiati da Est, da quando la «strada dei Balcani» è stata bloccata dalle barriere e dal filo spinato alle frontiere macedoni, ungheresi o bulgare. Ma, in previsione di un nuovo flusso di migranti provenienti dalla Libia attraverso l’Italia e diretto verso l’Europa del Nord, ha annunciato (12 aprile) la sigillatura della frontiera con l’Italia, con il ripristino dei controlli d’identità. La costruzione d’una barriera attorno al passo del Brennero è iniziata, e sarà conclusa «al più tardi nel giugno prossimo». Ai grandi partiti non è dunque mancata la volontà di chiudere le frontiere, anche se questa era una rivendicazione dell’estrema destra, ribadita durante tutta la campagna elettorale…
L’elettorato di Norbert Hofer sarebbe formato in maggioranza da uomini – le donne sarebbero meno favorevoli -, piuttosto giovani e meno istruiti della media. Secondo i dati di due istituti di sondaggio pubblicati dalla televisione pubblica ORF, il 45 % degli elettori maschi (e il 27 % delle donne) avrebbe votato per Hofer ma fra chi ha meno di 29 anni la percentuale sale al 51 %. Fra i pensionati il candidato dell’estrema destra avrebbe ottenuto il 34 %, un po’ al di sotto della media. Tuttavia, la percentuale salirebbe al 51 % negli apprendisti e al 72 % negli… operai. Ricordiamo che in Austria la sinistra (Partito comunista compreso e socialdemocrazia esclusa) è molto ridotta e marginalizzata [3] e che il movimento operaio controllato dalla socialdemocrazia è stato a lungo importante ma anche totalmente integrato nello Stato. Oggi, con una socialdemocrazia partecipe di un governo che promuove «riforme» più o meno del tipo di quelle che vediamo in tutta Europa, la classe dei salariati si trova ampiamente disarmata dal punto di vista politico.
Soltanto a Vienna, storico bastione della socialdemocrazia e della sinistra, l’elettorato resiste un po’ meglio all’estrema destra rispetto al resto del Paese. Qui il candidato della FPÖ ha ottenuto il 27,7 %, contro il 32,7 % di Alexander van der Bellen.
Non c’è ancora la certezza che Norbert Hofer venga eletto il 22 maggio prossimo. Ma anche se ciò non dovesse accadere, questo suo risultato costituisce non solo uno shock politico ma anche una lezione su cui riflettere in tutta Europa.

NOTE DEL TRADUTTORE
(1) L’articolo originale è stato scritto prima delle divulgazione dei dati ufficiali. Le cifre provvisorie riportate sono state sostituite con quelle definitive.
(2) È il caso di precisare che Van der Bellen si presentava con l’etichetta di “indipendente”, con l’appoggio dei Verdi. Si è trattato di una sua scelta precisa, per evitare di dover passare attraverso il meccanismo delle primarie…
(3) La marginalizzazione della sinistra può essere riassunta dal dato elettorale del Partito comunista nelle ultime elezioni legislative nel 2013: 1,03 %, cui si possono aggiungere lo … 0,02 % di un Sozialistische LinksPartei e, a voler abbondare nella definizione di sinistra, uno 0,77 % del Piratenpartei. Ovviamente, nessun candidato di sinistra si è presentato alle presidenziali.

BRASILE: LA POSTA IN GIOCO

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da http://www.senzasoste.it/internazionale/brasile-un-milione-di-attivisti-dice-no-al-golpe-al-ritorno-del-liberismo-all-imperialismo

20160417_protesto_anti_golpe_brasil_brasilia

Uno dei direttori del Centro di Ricerche Economiche di Washington, Mark Weisbrot, ha dichiarato a “Democracy Now” (una TV Web indipendente), che gli Stati Uniti stanno appoggiando il golpe istituzionale alla stessa maniera di come fecero in Honduras.
La festa del Primo Maggio, celebrata in tutte le grandi e piccole città del Brasile, ha segnato l’inizio di un nuovo corso politico per le forze del movimento popolare che dovranno prepararsi per affrontare in uno scontro frontale non solo la destra, le oligarchie, le differenti famiglie della borghesia imprenditoriale, le “branch” del capitalismo nazionale e multinazionale e le sette evangeliche, ma anche quei settori della classe media, dei lavoratori e dei disoccupati che sono rimasti in casa a vedere le manifestazioni del Primo maggio in tv non perché hanno scelto di essere i nuovi alleati del golpismo. Oggi, purtroppo come in passato, questa parte di popolo ha avuto paura di scendere in piazza e di affrontare l’altra faccia dello Stato, cioè quell’armata, quella che bastona, che spara e che arresta! Quella faccia dello stato, che il governo del PT, purtroppo, non hanno avuto il coraggio o la forza di cambiare!
Una paura che, comunque, è cresciuta a macchia d’olio quando in Parlamento sono riecheggiati gli applausi per il colpo di stato del 1964, con parlamentari che inneggiavano ai torturatori e agli arbitri commessi negli Anni di Piombo. E’ una paura che, riflette la violenza gratuita perpetuata nelle favelas, nelle università, nei campi e nelle strade delle grandi città dagli agenti della Polizia Civile, della Polizia Militare e della Polizia Federale. Una violenza che i media esaltano, la borghesia applaude e la magistratura – salvo poche eccezioni – fa finta di niente o nei casi flagranti insabbiano il tutto e rimandano le indagini alle calende greche!
Nonostante il clima teso, il movimento popolare ha scelto la celebrazione del Primo Maggio per dare una risposta politica alla FIESP (Confindustria brasiliana), alle multinazionali e alla borghesia imprenditoriale , proprio a Sao Paulo, la città dove la cospirazione ha mosso i primi passi. Infatti il “Vale di Anhangabau” si è riempito con più di 100.000 militanti, convocati dalle cinque confederazioni sindacali, dai partiti della sinistra e, soprattutto dai gruppi del movimento popolare, primo fra tutti il Movimento dei Sen Terra (MST), che, nel novembre del 2015 lanciò la proposta del Fronte Popolare Brasiliano per opporsi al tentativo di golpe bianco.
Per questo, il movimento ha, finalmente, capito che la questione dell’Impeachment nei confronti della presidentessa Dilma Rousseff, in realtà, è il nuovo capitolo della lotta che il movimento popolare dovrà affrontare contro il nuovo modello di “Ordem e Progresso” che la destra, il mercato e gli USA voglio imporre adesso nel Brasile, senza dover aspettare l’esito delle elezioni del 2018. Un elemento che la presidentessa, Dilma Roussef, ha finalmente capito e per questo c’è stato un effettivo spostamento a sinistra del suo governo. Per cominciare questo nuovo corso Dilma ha garantito ai 100.000 riuniti nel Vale di Anhangabau, che nei prossimi giorni firmerà due decreti legge, in cui il primo aumenta del 9% il valore della “Bolsa Familia” per i 43 milioni di brasiliani considerati poveri e il secondo eleva in 5% i massimali per la dichiarazione dei redditi.
Anche a Rio di Janeiro, Florianopolis, Porto Alegre, Salvador, Joao Pessoa, Curitiba, Goiania, Belém, Belo Horizonte, le manifestazioni organizzate dalla CUT, insieme alle altre quattro confederazioni sindacali, hanno dimostrato che quello che sta in gioco non è appena la sorte della presidentessa Dilma o del candidato del PT, Inazio Lula da Silva. In pratica, le manifestazioni del Primo Maggio hanno messo a fuoco l’immagine reale di un nuovo fronte politico, in cui stanno convergendo tutti i gruppi del movimento popolare, per evitare che con l’impeachment gli uomini del mercato stravolgano in pochi mesi la Costituzione del1988, le leggi che regolano le relazioni tra capitale e lavoro, ben come quelle che stabiliscono i limiti nelle attività (speculative) del mercato finanziario. In pratica le forze politiche del movimento popolare e quello sindacale sono decise a impedire il ritorno del Brasile nel regime di dipendenza degli Stati Uniti.
Sempre più evidente la presenza degli agenti USA nella cospirazione golpista
Dopo aver sottoscritto nella sede dell’ONU il testo dell’Accordo di Parigi sui Cambiamenti Climatici, la presidentessa del Brasile, Dilma Roussef ha rifiutato incontrare l’emissario della Casa Bianca, Thomas A. Shannon, Jr., Sotto Segretario del Dipartimento di Stato ed ex-ambasciatore degli USA in Brasile. Però ha concesso un’intervista che negli Stati Uniti solo il “New York Times” ha pubblicato in prima pagina, con il titolo “…In Brasile l’Impeachment è un golpe!” – per poi porre l’accento sulle parole di Dilma, secondo cui – “…In passato i colpi di stato erano fatti con mitragliatrici, carri armati e armi. Oggi, invece per farlo basta la firma d’individui che non hanno scrupoli e vogliono stravolgere la Costituzione!”
Nonostante le accuse fatte dalla presidentessa nel suo intervento nell’assemblea delle Nazioni Unite, la stampa statunitense, come tra l’altro quella europea, hanno in sostanza sposato la tesi dell’impeachment e soltanto il New York Times – forse nel tentativo di convincere le “eccellenze” della Casa Bianca – continua a pubblicare articoli che stanno scuotendo l’opinione pubblica statunitense per rivelare la completa disonestà dei mentori dell’impeachment. Infatti il 27/04, riprendendo il reportage di Glenn Greenwald, pubblicato nel nuovo giornale on line statunitense “The Intercept”, il NYT rivelava che i capi dei partiti che appoggiano l’impeachment, guidati da Eduardo Cunha, poco prima della votazione nella Camera dei Deputati, si sono incontrati con il presidente del Supremo Tribunale Federale (STF), Ricado Lewandowski, promettendogli di far approvare “rapidamente” gli aumenti di salario per i giudici e i funzionari del Ministero di Giustizia, nonostante i giudici avessero già ricevuto dal governo due sostanziosi “bonus per l’affitto e per l’istruzione”.
In seguito il NYT rivelava che il commissario della Polizia Federale, Armando Coelho Neto, ex-presidente dell’Associazione dei Commissari della PF aveva detto che “…nell’operazione Lava Jato non c’è nessuna strategia per combattere la corruzione nella Petrobrás, perché si tratta invece di una guerra sotterranea fatta per distruggere il PT e la candidatura di Lula e nello stesso tempo coprire i veri corrotti legati al partito PSDB!”
Un’accusa gravissima che si somma a quella del “Blog Boato” (Sito delle Dicerie), in cui riprende le parole di un altro graduato della Polizia Federale, secondo cui il giudice Sergio Moro “…per 5 milioni di reali (1,280.000 euro) avrebbe venduto alla TV Globo tutte le registrazioni illegali fatte mentre la presidentessa Dilma, parlava con Lula e poi con il suo avvocato, Roberto Texeira”. Una denuncia che ha rovinato la festa che la rivista The Times, aveva organizzato in Washington per premiare il giudice Sergio Moro, con il titolo di”… settimo uomo più influente nel mondo!”
Un’ influenza che, comunque, Sergio Moro dovrà spiegare ai giudici del Tribunale Superiore Federale, poiché il gruppo televisivo Record pretende aprire nei suoi confronti un processo nel TSF ed anche nella Commissione Nazionale di Giustizia. Inoltre, il 30 aprile, in Porto Alegre, è stata formalizzata la denuncia dell’OAB-RGS – firmata da cento rappresentanti della società civile – nei confronti del giudice Sergio Moro per questi aver violato una serie di articoli della Costituzione e altri quattro del codice penale.
In seguito, il 31 aprile la WebTV “Democracy Now” trasmetteva un servizio che smentisce le dichiarazioni del vice-presidente cospiratore, Michel Temer, dimostrando, quindi, che avrebbe mentito spudoratamente per coprire il collegamento dei cospiratori con le “eccellenze della Casa Bianca. Infatti, Michel Temer il 27 aprile aveva affermato al giornale brasiliano “Folha de Sao Paulo”, di aver inviato negli USA il senatore del PSDB  Aloysio Nunes per “…realizzare incontri con l’obiettivo di proteggere l’immagine del Parlamento subito dopo la votazione per l’Impeachment nella Camera dei Deputati…”. Invece “Democracy Now” il 30/04, rivelava che il senatore Aloysio Nunes era andato a Washington per incontrarsi in particolare con il Sottosegretario del Dipartimento di Stato, Thomas A. Shannon, Jr, che è il braccio destro e il consulente per l’America Latina del Segretario di Stato, John Kerry.
In realtà, il senatore Aloysio Nunes si è incontrato con Thomas A. Shannon, Jr “…per riferire l’accordo tra il vice-presidente, Michel Temer del PMDB e il triumvirato del PSDB (Fernando Henrique Cardoso, Aécio Neves e Tasso Jereissati) sul nuovo governo che Temer dovrebbe guidare e i decreti legge che saranno proposte in regime di urgenza per la modifica della Costituzione…” Cioè quello che la Casa Bianca e i conglomerati di Wall Street sognano fin dai tempi di George Bush!
L’aspetto drammatico in tutto questo è che, anche in Italia ci sono giornali, televisioni e soprattutto giornalisti che continuano a dire che “…l’ Impeachment contro la presidentessa Dilma Rousseff è un procedimento giuridico regolare!
2 maggio 2016
Achille Lollo è corrispondente in Italia del giornale “Brasil De Fato”, articolista del giornale web “Correio da Cidadania” e editor del programma TV “Contrappunto Internazionale”. Collabora con “Contropiano” e con  la rivista “Nuestra America”.

IL MADE IN ITALY DI SUCCESSO...

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da http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/05/04/armi-triplica-vendita-del-made-in-italy-e-tra-gli-intermediari-spunta-banca-etruria/2692759/


La relazione annuale del governo sull’export militare italiano 2015 - appena trasmessa al Parlamento e anticipata da Nigrizia - mostra un aumento del 200% per le autorizzazioni all’esportazione di armamenti il cui valore complessivo è salito a 7,9 miliardi dai 2,6 del 2014. Boom verso Paesi in guerra, in violazione, attraverso vari escamotage, della legge 185/1990: il volume di vendite autorizzato verso l’Arabia Saudita è salito a 257 milioni dai 163 del 2014: +58%. Cresce il ruolo delle banche, Unicredit la più attiva

Armi, triplica vendita del made in Italy. E tra gli intermediari spunta Banca Etruria

Nell’ultimo anno è triplicata la vendita di armi italiane all’estero e sono aumentate le forniture verso Paesi in guerra: in particolare quelle verso l’Arabia Saudita, condannata dall’Onu per crimini di guerra nel conflitto in Yemen e per la quale il Parlamento europeo ha chiesto un embargo sulla vendita di armamenti. Cresce anche l’intermediazione finanziaria delle principale banche italiane,Intesa e Unicredit, e tra i piccoli istituti coinvolti compare ancoraBanca Etruria e una banca libica.
La relazione annuale del governo sull’export militare italiano 2015 – appena trasmesso al Parlamento e il cui contenuto è stato anticipato da Nigrizia – mostra un aumento del 200% per le autorizzazioni all’esportazione definitiva di armamenti il cui valore complessivo è salito a 7,9 miliardi dai 2,6 miliardi del 2014. Un dato senza precedenti che, come osserva il governo nel documento con soddisfatto understatement, testimonia la “consolidata ripresa del settore della Difesa a livello internazionale”.Come si legge nella relazione, “i settori più rappresentativi dell’attività d’esportazione sono stati l’aeronautica, l’elicotteristica, l’elettronica per la difesa (avionica, radar, comunicazioni, apparati di guerra elettronica), lacantieristica navale ed i sistemi d’arma (missili, artiglierie), che hanno visto, nell’ordine:Alenia Aermacchi, Agusta Westland, GE AVIO, Selex ES, Elettronica, Oto Melara, Intermarine, Piaggio Aero Industries, MBDA Italia e Industrie Bitossi ai primi dieci posti per valore contrattuale delle operazioni autorizzate. La maggior parte di queste aziende sono di proprietà o in varia misura partecipate dal Gruppo Finmeccanica”.
Ma il dato politicamente più importante è il boom di vendite verso Paesi in guerra, in violazione, attraverso escamotage, della legge 185/1990 che vieta l’esportazione e il transito di armamenti verso Paesi in stato di conflitto e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Un sotterfugio che un ex ministro della Difesa di nomeSergio Mattarella denunciò anni fa come “un grave svuotamento delle disposizioni contenute nella legge 185”: il governo può aggirare il divieto di forniture militari a un paese in guerra se con esso ha stipulato un accordo intergovernativo nel campo della difesa e dell’import-export dei sistemi d’arma. Il caso più grave riguarda le forniture belliche alle forze aeree del regime Saudita, che da oltre un anno conducono bombardamenti indiscriminati su città, scuole e ospedali in Yemen che finora hanno provocato almeno 2mila morti civili, per un quarto bambini. Crimini di guerra ripetutamente condannati dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che a febbraio hanno spinto il Parlamento europeo ha chiedere un embargo sulla vendita di armi a Riyad.
Il valore dell’export di armi ‘made in Italy’ verso l’Arabia Saudita autorizzato nel 2015 è salito a 257 milioni dai 163 milioni del 2014. Un aumento del 58% attribuibile in gran parte alle tonnellate dibombe aeree prodotte nello stabilimento sardo di Domusnovasdella Rwm Italia S.p.a. e spedite via aerea e navale da Cagliari tra le proteste e le denunce – anche alla magistratura – di parlamentari e pacifisti. Consegne confermate dalla relazione: 600 bombe Paveway da 500 libbre (per 8,1 milioni di euro), 564 bombe Mk82 da 500 e 2000 libre (3,6 milioni), 50 bombe Blu109 da 2000 libre (3,6 milioni) e cento chili di esplosivo da carica Pbxn-109 (50mila euro).
A questo si aggiunge il forte incremento del valore delle esportazioni italiane verso l’Arabia Saudita che rientrano tra i programmi intergovernativi dicooperazione militare, saliti nel 2015 a 212 milioni dai 172 milioni del 2014. Il principale programma riguarda i cacciabombardieri Eurofighter usati ogni giorno dalla Royal Saudi Air Force nei suoi raid in Yemen. La fornitura, iniziata anni fa, riguarda l’Italia non solo per la sua partnership industriale nel consorzio europeo (con Finmeccanica), ma anche perché questi aerei, assemblati negli stabilimenti inglesi della Bae System, vengono consegnati facendo scalo all’aeroporto bolognese di Caselle. Nonostante la legge 185/90 vieti anche iltransito di armi destinate a Paesi in guerra.
Anche le forniture belliche italiane verso gli altri paesi che partecipano alla guerra in Yemen a fianco dei sauditi sono proseguite o aumentate: gli Emirati si confermano il principale cliente mediorientale (con 304 milioni come l’anno prima), mentre c’è stato un forte incremento di vendite al Bahrein (da 24 a 54 milioni) e soprattutto al Qatar (da 1,6 a 35 milioni). Il Kuwait, nel 2015 ancora tra i clienti minori, è destinato a scalare la classifica dopo la firma, poche settimane fa, di un contratto multimiliardario per la fornitura di 28 cacciabombardieri prodotti da Finmeccanica.
Ma è boom di export verso tutti i Paesi in guerra, a cominciare da un clamorosa new-entry: l’Iraq, finora mai comparso tra i clienti italiani, esordisce nel 2015 con vendite per 14 milioni (armi leggere e munizioni, quindi Beretta). Impennata di vendite verso laTurchia (da 53 a 129 milioni) che bombarda i curdi fuori e dentro i suoi confini con gli elicotteri T129 costruiti su licenza Finmeccanica; verso la Russia (da 4 a 25 milioni) che continua a ricevere blindati Lince della Fiat-Iveco nonostante l’embargo post-Ucraina, verso ilPakistan (da 16 a 120 milioni) in perenne conflitto con talebani, indipendentisti baluci e con l’India (anch’essa con forniture belliche italiane in aumento da 57 a 85 nonostante la crisi dei maròe la guerra contro la ribellione contadina naxalita). Nota a margine: nel 2015 sono incrementate le vendite all’Egitto pre-caso Regeni (da 32 a 37 milioni), comprese le armi leggere e i lacrimogeni usati dalla polizia del Cairo nelle repressioni di piazza.
Ultimo dato importante che emerge dalla relazione è l’aumento del ruolo d’intermediazione finanziaria delle banche italiane nel business delle forniture belliche. Se la parte del leone rimane alle banche straniere (Deutsche Bank e Crédit Agricole sopra tutte) si fanno strada sia Unicredit (passata dal 9 al 12% delle operazioni) che Intesa Sanpaolo (dal 2 al 7,4%) che Unicredit (dal 9 al 12%). Seguono con percentuali minori Bnl, Ubi (Banco di Brescia, Popolare Commercio e Industria, Regionale Europea) e una sfilza di “popolari” in ordine discendente (Emilia Romagna, Carispezia, Banco Popolare, Valsabbina, Sondrio, Carige, Etruria, Parma e Piacenza, Credito Cooperativo Cernusco S.N. e Versilia e Lunigiana, Spoleto, Friuladria, Bpm) e perfino Poste Italiane.
Nonostante pochi milioni di euro di operazioni, comunque in aumento rispetto all’anno precedente, merita una menzione particolare Banca Ubae: istituto controllato dalla Libyan Foreign Bank (banca offshore specializzata in esportazioni di petrolio dalla Libia) e nel cui azionariato figurano Unicredit, Intesa Sanpaolo, Montepaschi ed Eni.
(Foto – Aeroporto di Cagliari 29 ottobre 2015, carico di bombe prodotte dalla Rwm Italia S.p.a. destinate all’Arabia Saudita – di Massimo Manca)

LA RISTRUTTURAZIONE SAUDITA

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da  http://www.senzasoste.it/internazionale/rivoluzione-l-arabia-saudita-lancia-la-sfida-globale

bin-Salman

Austerità più modernizzazione più proiezione internazionale: è questa la sfida che la casa reale saudita e la nuova classe dirigente del paese hanno lanciato annunciando un piano di ristrutturazione dell’economia davvero rivoluzionario. Consci che l’esaurimento del petrolio, che per più di un secolo ha garantito la prosperità della casa regnante e dei cittadini, potrebbe mettere in ginocchio un paese che aspira invece a scalare le classifiche mondiali delle grandi potenze, i Saud vogliono letteralmente rivoltare “come un calzino” il paese trainante del Polo Sunnita.
Le riforme sono contenute nel piano denominato “Visione 2030” presentato alla fine di aprile da Mohamed Bin Salman, detto ‘il temerario’, figlio dell’ottuagenario sovrano salito al trono nel gennaio del 2015 e uomo forte del regime a soli 31 anni.
Il progetto si basa su tre pilastri: cancellare la dipendenza dal petrolio (anche se si calcola che sotto le sabbie e i fondali marini del paese ci siano ancora riserve per 260 miliardi di barili), stimolare l’economia privata e renderla competitiva con gli standard internazionali, ridurre significativamente gli aiuti economici statali ai cittadini ad esempio per quanto riguarda le bollette dell’acqua o dell’elettricità.
Un piano troppo ambizioso, affermano alcuni analisti, che associa una completa ristrutturazione economica del paese ad una serie di cambiamenti strutturali. Ai quali il paese, se vuole tramutare in realtà le sue aspirazioni di grande potenza, non può sottrarsi.
Il progetto presentato il 25 aprile mira in primo luogo a superare la dipendenza dal petrolio e a diversificare l’economia del regno. Visione 2030 prevede quindi la vendita del 5% del gigante petrolifero Saudi Aramco e la creazione del più consistente fondo sovrano del mondo, stimato in 2 mila miliardi di dollari (circa 1700 miliardi di euro), che dovrebbe servire nei piani di Mohamed Bin Salman a sostituire entro il 2020 gli ingenti investimenti che Riad si assicurava finora grazie ai proventi delle esportazioni di greggio. Il fondo includerà anche i 600 milioni del Sama Foreign Holdings, numerosi immobili e zone industriali di proprietà dello stato. “I primi dati indicano che il fondo controllerà almeno il 10% della capacità d’investimento mondiale” assicurano a Riad. D’altronde negli ultimi due anni l’economia saudita, che dipende all’80% dalle esportazioni del petrolio, vive momenti difficili. Anche perché il regime saudita per colpire i suoi concorrenti geopolitici produttori di greggio – Russia, Iran, Venezuela e Nigeria – e per affondare l’industria dello shale oil statunitense, ha puntato a far tracollare il prezzo del petrolio, causando gravi danni ai target della sua spregiudicata politica ma anche alla sua stessa economia.
Per l’anno in corso il Fondo Monetario Internazionale ha stimato una crescita del Pil pari solo all’1.2% contro il 3.5 del 2015. E così il governo è stato costretto, per ridurre il deficit da 100 miliardi di dollari a 87, a congelare numerosi progetti economici e a sopprimere un certo numero di sussidi che finora il ‘generoso’ stato concedeva ai 21 milioni di cittadini. Tagli tali che i media internazionali hanno addirittura parlato di austerity in salsa saudita.
“Abbiamo sviluppato una vera e propria dipendenza dal petrolio e questo ha sviato lo sviluppo di molti settori negli ultimi anni” ha spiegato il giovane e potente principe alla catena televisiva Al Arabiya, di proprietà della famiglia reale saudita. Il Consiglio dei Ministri ha dato quindi il via libera ad una parziale privatizzazione dell’impresa petrolifera statale, che ha una capacità di estrazione superiore ai 12 milioni di barili al giorno (il doppio delle altre maggiori compagnie mondiali) nell’ottica di trasformarla in una holding energetica quotata in borsa con l’obiettivo di attrarre investitori interni e stranieri. Il che, assicura il principe, convertirà l’Arabia Saudita in un’economia stimolata dagli investimenti rendendo il paese “un attore globale”.
Alla crescita e alla modernizzazione del proprio sistema economico il principe vuole unire la creazione di un complesso militar-industriale saudita, per diminuire la dipendenza dalle importazioni di armi straniere (qualche potenza concorrente potrebbe prima o poi chiudere i rubinetti…e le relazioni con gli Stati Uniti non sono state mai così pessime). Solo nel 2015 Riad ha speso in armi 78 miliardi di euro stando ai dati forniti dal Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), quattro volte di più che nel 2001.
“Com’è possibile che un paese che è in terza posizione a livello mondiale per acquisto di armi non possieda un’industria militare?” si è retoricamente chiesto MBS che ha annunciato la volontà di costruire in tempi stretti, già a partire dal 2017 con una offerta di azioni sul mercato, un’impresa di produzione di armamenti inizialmente di proprietà statale. “Da ora in poi il Ministero della Difesa e gli altri dipartimenti di sicurezza compreranno armi da fabbricanti stranieri solo se questi sono legati ad una industria locale” ha annunciato l’erede al trono nonché ministro della Difesa.
Ma non basta. Nei prossimi mesi Mohamed Bin Salman ha in programma la presentazione di un Piano di Trasformazione Nazionale che include tagli alla spesa, introduzione di nuove imposte – sul valore aggiunto, sui beni di lusso, sui pedaggi stradali e sulla benzina – la privatizzazione dei servizi pubblici nel settore della Sanità e dell’Istruzione, una maggiore partecipazione delle donne all’economia del paese. Nessuna svolta democratica, sia chiaro. Misure di modernizzazione che il principe considera irrimandabili e necessarie ma che potrebbero, insieme alle misure di austerity varate finora – in particolare il taglio ai sussidi – costargli l’ostracismo di alcuni pezzi degli apparati statali e dell’opinione pubblica. Ma MBS promette che i sacrifici chiesti ai sauditi verranno presto ricompensati: “siamo decisi a costruire un paese prospero nel quale tutti i cittadini possano realizzare i propri sogni, le proprie speranze e ambizioni” ha spiegato presentando il documento di 82 pagine che condensa il suo piano di ristrutturazione dell’Arabia Saudita. Concentrati su una fonte di ricchezza apparentemente inesauribile e facile da estrarre, i sauditi hanno scarsamente sfruttato altre fonti di ricchezza: oro, zinco, fosfati, il 6% delle riserve mondiali di uranio, «un altro petrolio che non abbiamo ancora sfruttato» nelle parole del principe MBS.
“Visione 2030” punta a far diventare l’Arabia Saudita una delle prime 15 potenze economiche al mondo – attualmente è in diciannovesima posizione – a far entrare tre città del paese nelle cento più importanti del pianeta, ad elevare la speranza di vita da 74 a 80 anni, ad aumentare la spesa statale per la cultura e l’intrattenimento e a raddoppiare il numero di siti archeologici e monumentali dichiarati patrimonio mondiale dall’Unesco. MBS vuole trasformare il suo paese in una metà turistica facendo passare i visitatori annui da 8 a 30 milioni, un flusso che stimolerebbe consistenti investimenti.
Una sfida al mondo ma anche ad una popolazione che, nonostante l’età media molto bassa e livelli d’istruzione superiori, rimane ancorata a rapporti sociali assai conservatori, ad un certo isolazionismo e ad una visione del mondo basata su modelli culturali in contrasto con la modernizzazione, la crescita economica e una pur ricercata proiezione egemonica internazionale.
I cambiamenti in programma sono davvero draconiani. A livello interno, finora, il patto non scritto era che la famiglia reale si sarebbe occupata delle necessità dei sudditi ricevendo in cambio una totale obbedienza. Ma per diventare una potenza dalle ambizioni globali c’è bisogno che i sauditi aumentino la propria partecipazione alla vita economica di un paese in cui attualmente sono dieci milioni di lavoratori stranieri – in gran parte provenienti dall’Asia – a tirare la carretta.
Nei piani del governo c’è anche la “creazione di un sistema d’istruzione e formazione allineato alle necessità del mercato”. Metà degli abitanti del regno ha attualmente meno di 25 anni, e programmi scolastici basati fondamentalmente sullo studio delle tradizioni e del Corano non aiuteranno i giovani sauditi a trovare un lavoro nei prossimi anni. Un problema non da poco visto che già ora tra i minori di 30 anni il tasso di disoccupazione tocca quota 29%. Nei prossimi anni lo stato dovrà incaricarsi di creare milioni di posti di lavoro. Il piano di trasformazione dl paese richiede una rivoluzione nella mentalità dei cittadini, impiegati quasi esclusivamente nel settore pubblico e praticamente assenti nel settore privato in cui, come detto, lavorano per lo più stranieri: immigrati in condizione di semischiavitù per quanto riguarda le mansioni meno appetibili, tecnici anche occidentali per quanto riguarda la fascia alta dei servizi. Come faceva notare Ugo Tramballi su Il Sole 24 Ore di qualche giorno fa, “milioni di sauditi sono sotto-occupati (pagati per non fare nulla) e (…) la maggioranza della metà della popolazione – le donne – non produce ricchezza”.
Ma il piano lanciato dalla famiglia reale avrà delle implicazioni notevoli, rivoluzionarie, anche dal punto di vista delle relazioni internazionali e dei rapporti di forza mondiali. Per più di un secolo l’Arabia Saudita e gli altri emirati hanno rappresentato un’inesauribile fonte energetica a disposizione delle potenze imperialiste – soprattutto gli Stati Uniti – che in cambio hanno concesso alla nobiltà locale carta bianca sul piano interno ma una scarsissima voce in capitolo dal punto di vista politico e militare.
Ovviamente gli ambiziosi piani di Mohamed Bin Salman vogliono sottrarre l’Arabia Saudita alla tradizionale subalternità nei confronti di Washington e di Bruxelles per rendere Riad il motore trainante di un nuovo polo geopolitico già costituito attraverso il Consiglio di Cooperazione del Golfo (il ‘Polo Sunnita’) oggettivamente in competizione con le altre potenze regionali e mondiali.
Negli anni scorsi i piani di integrazione della penisola arabica hanno già reso Riad la capofila di un nuovo blocco che ha cominciato ad allungare i suoi tentacoli sempre più lontano –  dalla destabilizzazione della Siria, dell’Iraq e del Libano, all’invasione dello Yemen, dal sostegno al regime militare egiziano ad una alleanza de facto con Israele – entrando quindi in rotta di collisione con gli Stati Uniti e i suoi interessi.
Il problema è che, allo stato, l’Arabia Saudita sembra aver fatto il ‘passo più lungo della gamba’ e il fallimento della campagna militare in Yemen contro i ribelli sciiti, l’accordo sul nucleare tra Washington e Teheran, l’intervento militare russo in Siria rappresentano una serie di passi falsi e di stop che rischiano di tramutare in un incubo i sogni di gloria delle nuove classi dirigenti saudite.
Oggi l’Arabia Saudita è un gigante dai piedi d’argilla, troppo dipendente da una risorsa in via d’esaurimento, con una economia scarsamente finanziarizzata e competitiva e con una popolazione scarsamente coinvolta nel settore produttivo ed eccessivamente ‘assistita’. Un handicap al quale il giovane e ambizioso principe Mohamed Bin Salman vuole porre rimedio a passo di carica, a costo di dare uno storico scossone ad una struttura sociale ultraconservatrice. Il Wahabismo – versione estremamente reazionaria dell’Islam – se da un lato costituisce un collante sociale ed un elemento di legittimazione del potere della casa reale, rappresenta anche un ostacolo alle ambizioni di modernizzazione del paese. Per questo l’alleanza siglata nel XVIII secolo dai regnanti con l’ultraortodosso Mohamed Abdel Wahab, e che permise la fondazione nel 1932 del regno saudita, deve essere sottoposta ad una consistente revisione, diminuendo il potere del clero e degli sceicchi discendenti di Wahab che controllano tuttora le istituzioni religiose e la cui influenza si estende a tutti gli aspetti della società. Le recenti limitazioni ai poteri e alle funzioni della ‘polizia religiosa’ ordinate dal governo devono essere letti in quest’ottica. Il che non vuol dire che la nuova classe dirigente si farà promotrice di una laicizzazione del paese. Il Wahabismo, come detto, costituisce una utilissima ideologia di stato e oltretutto rappresenta un elemento di legittimazione della proiezione degli interessi sauditi in tutto il mondo arabo-islamico. Gli ingenti investimenti economici necessari a promuovere la versione saudita del culto musulmano dai Balcani alla Turchia, dall’Indonesia all’Africa centro-settentrionale stanno lì a dimostrare quanto anche i modernizzatori sauditi puntino su questo elemento di proiezione egemonica.
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