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EASTER MAGAZINE (27-28 APRILE)

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Primavera 1938

Oggi, domenica di Pasqua, presto
un’improvvisa tempesta di neve
si è abbattuta sull’isola.
Tra i cespugli verdeggianti c’era neve. Il mio ragazzo
mi ha portato verso un piccolo albicocco attaccato alla casa
strappandomi ad un verso in cui puntavo il dito contro coloro
che stanno preparando una guerra che
può cancellare
il continente, quest’isola, il mio popolo,
la mia famiglia e me stesso. In silenzio
abbiamo messo un sacco
sopra all’albero tremante di freddo

                              
(Bertolt Brecht)

LA FORZA DEL WAHHABISMO SI CHIAMA PETROLIO

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da http://ilmanifesto.info/abd-al-wahhab-alla-conquista-dellislam/


Medio Oriente/Europa. Il wahhabismo sta prendendo il controllo della fede islamica diffondendo tra i giovani musulmani il rifiuto della diversità e della tolleranza. Si propaga grazie ai miliardi di dollari che l'Arabia saudita investe nella costruzione ovunque di moschee, scuole coraniche e centri culturali gestiti da imam pagati da Riyadh. L'Occidente ha usato il wahhabismo per i suoi interessi, oggi ne paga le conseguenze.



Se il pensiero dell’oscuro predicatore Muhammad ibn Abd al Wahhab, due secoli e mezzo dopo il patto siglato nel deserto del Najd con Muhammad ibn Saud, è lanciato alla conquista dell’Islam, lo si deve alla Gran Bretagna e al petrolio. Desiderosi di abbattere l’impero Ottomano, i britannici prima usarono il wahhabismo per fini geopolitici e, successivamente, nel 1932, consentirono ad Abd al Aziz al Saud di dare vita al regno dell’Arabia saudita. Permisero, per i loro interessi, la nascita di una entità che un secolo prima altri musulmani agli ordini di Muhammad Ali Pascià avevano distrutto con varie spedizioni in seguito ai massacri e le distruzioni che l’alleanza wahhabita-saudita aveva compiuto tra l’Hijaz e le città sante sciite di Kerbala e Najaf in nome dell’«Islam puro» e contro l’apostasia. I Saud adottarono il wahhabismo come dottrina ufficiale del nuovo Stato e presero possesso dei due più importanti luoghi santi dell’Islam: La Mecca e Medina. A rendere solide le fondamenta del nuovo Stato fu la scoperta del petrolio, seguita dall’arrivo delle grandi compagnie internazionali e degli Stati Uniti alla cui politica estera il regno resta fedelmente allineato nonostante le differenze emerse con l’Amministrazione Obama.
A molti salafiti non piace essere avvicinati al wahhabismo, che considerano “venduto” agli infedeli a causa dei rapporti stretti che i Saud mantengono con gli Stati non islamici. Ma è un particolare secondario. Perchè il pensiero di Abd al Wahhab è assolutamente simile a ciò che oggi pensano e affermano i salafiti dal Nordafrica al Pakistan. Il predicatore esortava a purificare l’Islam da influenze e pratiche che aveva acquisito nel corso dei secoli per riportarlo ai principi dei Salaf, i pii antenati, coloro che avevano conosciuto il profeta Maometto. Chiunque si fosse dichiarato contrario, a cominciare dagli Sciiti e dai Sufi, considerati non veri musulmani, avrebbe subito una dura punizione. Dopo 250 anni Riyadh vive su questi principi impermeabili a tutto, nonostante l’apparente modernità tecnologica del Paese. Grazie agli enormi profitti generati dal petrolio, i sauditi sono stati impegnati negli ultimi 40 anni in una massiccia promozione del wahhabismo, e, quindi del salafismo, nel mondo islamico e tra i musulmani che vivono nel resto del mondo. Lo hanno fatto investendo cifre astronomiche in attività legali, attraverso la costruzione di migliaia di moschee, scuole coraniche e centri culturali, dove imam pagati spesso direttamente da Riyadh, screditano tutto l’Islam che si discosta dal wahabismo. L’appeal è forte sui giovani musulmani in cerca di riscatto che vivono nei ghetti in cui si sono trasformate tante periferie di città europee dove lavoro, uguaglianza e integrazione sono soltanto delle parole.
Salafismo non è sinonimo di violenza o terrorismo. La maggior parte dei salafiti e dei wahhabiti si limitano ad impostare la loro vita sui principi in cui credono. Tuttavia una corrente di pensiero che probisce la più piccola interpretazione del testo coranico, che arriva a scomunicare gli altri musulmani, che giudica gli sciiti apostati, che guarda con profondo sospetto ai non musulmani, inevitabilmente finisce per dare vita anche ad espressioni violente. Stati Uniti ed Europa per compiacere i loro interessi hanno favorito la conquista dell’Islam da parte dei wahhabiti-salafiti. Prima per sbaragliare i comunisti in giro per il mondo islamico e poi per abbattere i regimi nazionalisti arabi “nemici” dei loro interessi e avversari di Israele. Il premier Netanyahu, che ripete che il suo Paese è l’unica democrazia del Medio Oriente, si vanta da qualche tempo di essere alleato di fatto degli Stati più oscurantisti della regione, le petromonarchie del Golfo, nella lotta all’Iran. L’Arabia saudita era e resta, nonostante il suo contributo al disastro mediorientale e al clima che ora si vive in Europa, una “alleata fedele” dell’Occidente. Non per il petrolio che per la sua abbondanza sul mercato non è più così importante. Contano anche i tanti miliardi di dollari che Riyadh e le altre monarchie del Golfo spendono ogni anno nell’acquisto di armi prodotte negli Usa e in Europa. Due giorni fa Human Rights Watch e Amnesty International hanno chiesto a Parigi, Washington e Londra di interrompere l’esportazione di armamenti alla monarchia wahhabita. L’Istituto Internazionale di Ricerca della Pace di Stoccolma rivela che l’Arabia saudita è il primo importatore di armi al mondo e ha come principali fornitori Londra

QUELLE AMICIZIE IMBARAZZANTI...

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da  http://www.senzasoste.it/internazionale/guerra-al-terrorismo-la-paura-di-nominare-le-monarchie-del-golfo

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Poche cose sono difficili da guardare in faccia più della verità. Quando bisogna chiamare le cose col loro nome, e magari prendersi a schiaffi da soli, la tentazione di scaricare la colpa su qualcun altro diventa irresistibile.
Se questa presa di coscienza riguarda addirittura i rapporti tra l’universo islamico sunnita e l’imperialismo occidentale – Stati Uniti in prima fila, con l’Unione Europea furbescamente in scia (per sfruttare i vantaggi della politica imperiale altrui senza assumersene i costi) – allora la tentazione è più che irresistibile. Si materializza in un Salvini che si fa fotografare a Bruxelles mentre finge di telefonare (senza telefono!) davanti a un militare-robocop, o in uno dei tanti sparacazzate a uso e consumo della televisione trash.
L’ordine di scuderia è quello solito: evocare un mostro dai contorni indefiniti (il “terrorismo”), modificabili alla bisogna (chiunque può essere definito tale, nel giro di poco tempo), contro cui indirizzare ogni paura sul futuro. E quindi chiamare alla guerra nel modo più acefalo possibile, in un’orgia di “fidatevi di noi”.
A noi sembra più che evidente che tutto ciò che va sotto il nome di “terrorismo” al massimo rappresenta una tecnica militare. Una delle tante possibili, in un arsenale pressoché infinito, ma privilegiata per forza di cose dal soggetto meno forte (classico il caso dei paesi invasi da truppe straniere, oppure delle guerriglie rivoluzionarie spesso connesse con le necessità della liberazione nazionale); oppure da un soggetto che non vuole apparire in modo esplicito come nemico (le altrettanto classiche “operazioni coperte” dei vari servizi segreti), magari perché formalmente alleato del soggetto che invece viene colpito.
Chiamare alla guerra contro una tecnica, anziché contro un nemico con un nome e una faccia, è per molti versi comodo. Per altri terribilmente rischioso. Comodo perché non si deve dichiarare guerra a nessuno, ci si può atteggiare a innocenti e amanti della buona vita civilizzata (basta non parlare dei bombardamenti e delle guerre seminate in giro da oltre 25 anni), meravigliarsi e sconvolgersi per il fatto che c’è qualcuno di così crudele o “folle” da farsi esplodere nelle nostre strade più belle (in effetti è più comodo e asettico farlo bombardando dal cielo); ci si può addirittura riparare dietro “i valori” (solo per un esempio tra i più volgari: http://www.corriere.it/cultura/16_marzo_23/i-nichilisti-l-argine-valori-57ee60e4-f06f-11e5-b1a2-f236e4ccb109.shtml), come se non fosse stato firmato pochi giorni fa un accordo tra l’Unione Europea e il massacratore Erdogan, per affidargli il controllo dei profughi che – secondo il diritto internazionale, dunque anche secondo “i valori” – andrebbero invece accolti e salvati.
È rischioso perché alimenta la confusione perenne, rimuovendo cause, storia, memoria, ragioni e quiindi impedendo di immaginare una qualsiasi soluzione che non sia – banalmente – combattiamo. Anzi, sopportate in silenzio che il potere faccia ciò che vuole, sotto il mantello della guerra contro un nemico senza volto. Nell’epoca degli eserciti di soli professionisti, infatti, alla popolazione civile non si chiede più di armarsi e partire per il fronte, ma solo di obbedire e applaudire, pagando il prezzo delle avventure militari, in termini monetari (tasse) o in corpi straziati da qualche bomba.
Naturalmente questo vale per il pubblico, per i lettori di giornali e i telespettatori attoniti. Gli “editori di riferimenti” sanno benissimo con chi hanno a che fare, quali sono gli interessi calpestati che ora si trasformano in bombe e kamikaze, quali sono i ricatti implici o espliciti che però non si possono dire.
Si trattiene in modo evidente, per esempio, Lucia Annunziata, direttrice dell’edizione italiana dell’Huffington Post:
È ora che si indichi anche il vero nemico politico che c’è dietro il terrorismo. Cioè che si facciano i nomi degli stati che finanziano questo progetto per i loro fini di dominio. Sappiamo chi sono.
Sono nostri alleati, ufficialmente. Ma questa ambiguità diplomatica va rotta. Il costo è alto, e non solo in termini di affari. Il rischio di rotture internazionali interstatali acuisce il pericolo di una precipitazione globale ma se non si chiariscono gli schieramenti di questa guerra, non riusciremo certo a costruire strategie di difesa.
La si può capire. È stata a lungo direttrice della rivista Oil, finanziata dall’Eni, e sa dunque bene quanti corposissimi interessi impediscano di nominare il nemico reale, quegli “alleati che ci stanno tradendo”.
Non sembra dunque casuale che l’analisi più lucida sia frutto di Alberto Negri, grande conoscitore del mondo musulmano per averlo attraversato tutto, spesso a piedi e con grande rischio personale, che ha la fortuna di scrivere per IlSole24Ore. Il giornale di Confindustria, ovvero dell’associazione dei padroni e non di un padrone solo. Ossia un giornale che ha l’obbligo di dire ai propri azionisti – gli imprenditori italiani – come stanno le cose, in modo che possano regolarsi con nozione di causa nel condurre i propri affari.
Peccato che il direttore di quello stesso giornale, seguendo un altro obbligo “istituzionale” – quello di supportare il governo e l’establishment europeo, sguazzi nella peggiore retorica – arrivando a invocare Una governance globale per combattere il terrorismo che sa davvero di presa in giro…
*****

Il fallimento della politica

di Alberto Negri
Il sonno della ragione genera mostri e diabolici terroristi. Ma senza memoria la ragione funziona assai male. C’è una geopolitica e una storia del terrorismo islamico che ha due fronti, uno esterno e un altro interno. È sul fronte esterno che tutto comincia. L’errore è stato quello iniziale: dopo l’11 settembre del 2001 gli americani lanciarono una “guerra al terrore” che non solo non ha reso il mondo più sicuro ma l’ha portato nelle case degli europei. Il regime talebano-qaedista venne nominalmente abbattuto ma è in Pakistan che era nato ed lì che poi sono morti il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden, nel blitz di Abbottabad, e il Mullah Omar, in un ospedale di Karachi: ma non si poteva certo colpire un Paese con l’atomica che con l’approvazione degli Usa e i finanziamenti dei sauditi aveva sostenuto dal 1979 la guerra dei mujaheddin contro l’Unione Sovietica e causato la sua sconfitta.
Un ufficiale dei servizi pakistani, sostenitore di Bin Laden, mi mostrò appena dopo l’11 settembre un pezzo del Muro di Berlino con una dedica della Cia: «È per questo che lei ha combattuto». Nacque così negli anni ’80 un legame tra Washington e il mondo sunnita più integralista quasi indissolubile: è sufficiente esaminare la relazione con Riad stipulata già nel 1945 con il famoso scambio tra Roosevelt e Ibn Saud “petrolio contro sicurezza”. L’Europa si è infilata in questo rapporto da “free rider” direbbe Obama, scroccando vantaggi politici ed economici. Ma chi semina grandine raccoglie tempesta. Con la guerra del 2003, con cui dei leader approssimativi volevano ridisegnare il Medio Oriente, gli Usa hanno scoperchiato il vaso di Pandora è non l’hanno più richiuso.
Al Qaeda, da cui in seguito è nato l’Isis, dall’Afghanistan si spostò in Mesopotamia. I gruppi jihadisti si sono moltiplicati e dopo il Califfato ci sarà qualche cosa d’altro, soprattutto se andremo a bombardare in Libia come nel 2011 senza sapere davvero cosa fare e con chi. La Tunisia sta già pagando l’instabilità nordafricana del post-Gheddafi che ha contagiato tutto il Sahel e le frontiere europee da un pezzo sono sprofondate di alcune migliaia di chilometri a Oriente e Occidente: l’Europa di Bruxelles è stata l’ultima ad accorgersene finendo con l’arrangiare un dubbio accordo sui profughi con la Turchia.
Il Califfato non aveva inizialmente come obiettivo l’Occidente ma in primo luogo il governo sciita di Baghdad e poi quello filo iraniano di Assad: lo scopo era la rivincita dei sunniti in Mesopotamia e nel Levante, un proposito condiviso dalla Turchia e dalle monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa. Con l’evidente menzogna di sostenere un’opposizione moderata quasi inesistente, gli Stati Uniti hanno dato via libera alla Turchia per aprire “l’autostrada della Jihad” con l’afflusso di migliaia di jihadisti da tutto il mondo musulmano, Europa compresa.
La risacca sanguinosa di un conflitto con 250mila morti e milioni di profughi da qualche tempo è tornata e vive accanto a noi. Il delirio terrorista del jihadismo ha una sua logica alla quale non siamo per niente estranei. Ma oggi versiamo lacrime, stringiamo i denti, paghiamo i nostri errori e magari anche qualche promessa mancata. Gli Stati Uniti e la Francia progettavano nel 2013 di bombardare il regime di Damasco e fino a ieri hanno continuato a proclamare che Assad doveva andarsene: quando non è avvenuto i jihadisti hanno deciso di vendicarsi. Nel 2014, prima che tagliassero la testa a un cittadino americano, gli Usa non avevano fatto una piega quando Mosul era caduta in mano all’Isis, assistendo alla rotta di Baghdad senza intervenire. Poi è iniziata una guerra al Califfato tra le più ambigue della storia militare recente. Lo stesso è accaduto con i militanti dell’Isis in Turchia. Ankara ne ha fatti passare migliaia, li ha anche usati contro i curdi siriani, poi con l’intervento della Russia a fianco di Assad ha dovuto rinunciare a entrare in Siria per pendersi Aleppo e Mosul in Iraq grazie agli accordi con l’Isis: anche qui i jihadisti si vendicano del loro sponsor Erdogan a colpi di attentati.
Sono oltre 35 anni che le potenze occidentali si appoggiano a quelle arabe del Golfo che utilizzano, armano e finanziano l’estremismo islamico – è avvenuto anche in Bosnia – per scaricarlo quando non serve più. Questo spiega pure quanto accade sul fronte interno europeo dove legioni di sociologi si affanneranno a spiegare come mai intere periferie sono diventate roccaforti del radicalismo. I jihadisti hanno portato la guerra del Siraq nelle nostre case, che poi sono anche le loro, perché i nostri alleati gli hanno fatto credere che l’avrebbero vinta.
Nella lotta al terrorismo si intersecano piani differenti ma non così incomprensibili. Per fare la lotta al terrore ci vuole una polizia informata, ad alta penetrazione sociale, come avrebbe detto un grande agente come Calipari, ma l’aspetto più controverso e decisivo è districare i nodi che tengono avviluppato l’Occidente ai complici del jihadismo, ai loro mandanti materiali e ideologici. Prima ancora del fallimento dell’intelligence c’è stato quello della politica.

LA TRINITA' DEI FALLIMENTI

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da http://www.senzasoste.it/lavoro-capitale/jobs-act-voucher-e-garanzia-giovani-la-santa-trinita-dei-fallimenti

jobsact

Per chi si interessa alla realtà del mercato del lavoro, mai come in questo periodo appare evidente la distanza fra la comunicazione politica e la realtà.
Partiamo dal Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro che doveva essere il fiore all’occhiello del Governo Renzi nel 2015. Renzi, Poletti e gli economisti del principe per mesi hanno lodato gli effetti benefici della riforma, nella forma dell’aumento dei posti di lavoro a tempo indeterminato. Poi sono arrivati i dati dell’INPS riferiti a gennaio 2016, in cui il saldo fra assunzioni e cessazioni a tempo indeterminato è risultato negativo, a riportare tutti alla brusca realtà: che le nuove assunzioni erano drogate dagli sgravi fiscali e che è difficile definire “stabile” il lavoro al tempo del contratto a tutele crescenti, dove al datore di lavoro basta pagare una cifra tutto sommato esigua per liberarsi di un lavoratore indesiderato.
Si può continuare poi parlando dei voucher, anch’essi parte del Jobs Act (che ha aumentato i massimali di reddito percepibili tramite buoni lavoro), anche se questo ovviamente Renzi e i suoi fanno finta di dimenticarlo. Il loro utilizzo è letteralmente esploso durante la crisi: se nel 2008 erano 24.437 i lavoratori che avevano ricevuto almeno una volta un voucher come forma di pagamento, quest’anno il numero è arrivato ad 1 milione e quattrocentomila persone. Il timore è che i buoni, nati con l’idea di remunerare prestazioni occasionali non assimilabili e veri e propri rapporti di lavoro, stiano pian piano divenendo la forma contrattuale del precariato, andando a sostituire alcuni tipi di contratti (come quelli a chiamata o quelli part-time) che offrivano alcune (seppur poche) garanzie in più. Eh sì, perché il pagamento a voucher non garantisce diritti alla malattia o ferie, e offre un pagamento di contributi previdenziali così basso che perfino il presidente dell’INPS Boeri si è detto preoccupato per le possibili ripercussioni sui futuri pensionati. Sempre ammesso che una pensione ce l’avranno, ovviamente.
Concludiamo infine con lo spettacolare fallimento di Garanzia Giovani: il progetto europeo per migliorare la situazione lavorativa dei giovani NEET (ossia coloro che non sono né studenti né occupati) under 30. Un rapporto dell’ISFOL (ente che peraltro dipende dal Ministero del Lavoro) certifica che, a fronte del milione di giovani che speranzosamente s’è iscritto al programma, solo 32 mila hanno trovato un lavoro vero e proprio. A leggere i numeri si capiscono meglio le dimensioni del flop: degli 865 mila giovani che a Marzo si risultavano iscritti al programma, più di 200 mila non sono semplicemente stati presi in carico dai locali centri per l’impiego. I giovani presi in carico (ossia a cui è stato offerto un semplice colloquio) sono stati 642 mila. Quelli per cui è seguita una misura concreta però sono ancora meno: circa 227 mila. Fra questi troviamo i 32 mila vincitori della lotteria cui è stato offerto un posto di lavoro, poi un gran numero di persone che hanno svolto tirocini (138 mila) o corsi di formazione (52 mila), oltre a 5 mila giovani che hanno svolto il servizio civile. La morale della favola è che ciascun nuovo contratto di lavoro è costato 36 mila euro: un’enormità.L’ennesima boccata d’ossigeno per il capitalismo straccione all’italiana, che è riuscito ad intascarsi altri fondi. E il ministro Poletti? Stranamente non commenta.

SFRATTOPOLI, LA CAPITALE D'ITALIA

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da http://www.senzasoste.it/politica/sfrattopoli-la-capitale-d-italia

Lo scorso 5 gennaio, mentre tenevano banco le parole del presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano sulla riforma del sistema previdenziale, il ministero dell’Interno rendeva noti i dati relativi agli sfratti nell’anno 2014 («Gli sfratti in Italia. Andamento delle procedure di rilascio di immobili ad uso abitativo»). Si tratta di numeri che hanno destato un forte allarme non solo per l’enorme fetta di popolazione che ne è interessata, ma perché si tratta di un trend confermato anche nei mesi del 2015, in crescita costante del 5-7% secondo le associazioni e i sindacati di categoria.
Grafico 2 - città e sfratti
I grafici sono a cura di David Tranquilli
Grafico 1 - cause sfratti
Se le famiglie italiane in condizione di disagio abitativo sono oltre 2 milioni (fonte Nomisma), gli sfratti sono la principale componente del dramma sociale dell’emergenza abitativa. I provvedimenti emessi nel periodo 2005-2014 sono cresciuti del 69%, mentre quelli effettivamente eseguiti sono aumentati del 41%. Quando si parla di sfratti in Italia, dunque, si parla di una vera e propria piaga sociale. Sono 150mila le richieste di esecuzione e oltre 77mila i provvedimenti di sfratto emessi tramite l’Ufficiale giudiziario nel 2014 (+5.3% dal 2013 e +47.8% dal 2008): un’operazione immensa che ha significato quasi 100 sfratti al giorno in Italia, uno ogni 334 famiglie, per un totale di oltre 36mila nuclei familiari che ne hanno subito le conseguenze. Se fino a pochi decenni fa la piaga dell’emergenza abitativa sembrava essere un fenomeno direttamente ed esclusivamente riconducibile alle metropoli e ai grandi agglomerati urbani, le accelerazioni economiche e sociali dell’ultimo decennio hanno radicalmente stravolto questo impianto di ragionamento.
In un Paese che è stato caratterizzato da importanti flussi migratori nelle province dove la piccola e media impresa ha fatto registrare un’impennata della domanda di manodopera, le conseguenze della crisi economica esplosa nel 2008 si sono fatte sentire con prepotenza sul versante abitativo. Eccezion fatta per Roma e provincia, maglia nera d’Italia con oltre 10mila richieste, più di 8mila provvedimenti emessi e quasi 3mila sfratti eseguiti, le province che hanno registrato i valori assoluti più alti sono quelle intorno a cui si è costruito l’asse industriale del Belpaese: da Torino (quasi 5mila richieste) a Padova (dove si sono eseguiti il 50% dei mille richiesti), passando per Milano (oltre 23mila richieste), Brescia, Varese, Pavia, Novara, fino ai 1934 provvedimenti emessi e ai 1090 sfratti eseguiti tra le province di Vicenza e Verona, dove risiedono poco più di 1,5 milioni di persone. L’equazione è pressoché fatta: se la crisi ha significato disoccupazione, il primo riflesso di questa precarietà è stata l’impossibilità di mantenere un tetto sopra la testa.
L’isola dei morosi
A conferma di questo assunto, infatti, ci sono i tristi numeri relativi alla morosità, prima e decisiva causa di sfratto (89.3%). Si tratta di una piaga talmente ampia che per fronteggiarla era stato creato (dl 102/2013) anche un apposito fondo di sostegno, il Fondo Inquilini Morosi Incolpevoli, con una dotazione iniziale di 20 milioni per gli anni 2014 e 2015. Successivamente, il Piano Casa lo ha incrementato di appena 15,73 milioni per il 2014 e di 12,73 per il 2015, giungendo quindi a un totale di 68,4 milioni di risorse statali. Come ebbe modo di spiegare in aula Umberto De Caro (Sottosegretario alle Infrastrutture dell’attuale governo) lo scorso settembre, «su un totale di 83,39 milioni di euro disponibili (compresi i 68,4 mln statali, ndr), le risorse assegnate dalle regioni si attestano a 23,49 milioni, mentre quelle effettivamente trasferite (ai Comuni, ndr) sono pari a poco più di 12 milioni». Solo 12 mln, dunque, effettivamente trasferiti dalle Regioni, attraverso cui sono stati rinnovati 204 contratti, 78 ne sono stati sottoscritti ex novo a canone concordato, 38 rinegoziati a un canone inferiore, oltre ad aver differito l’esecuzione di 501 provvedimenti di rilascio e assegnato 31 alloggi ERP. Una goccia nell’oceano dell’emergenza abitativa. È vero, infatti, che i canoni liberi sono scesi del 12% nell’ultimo quinquennio, ma secondo i dati Nomisma la maggior parte delle 4,4 milioni di famiglie in affitto (con entrate nette comprese tra i 1200-1500 euro mensili) dichiara un’incidenza del canone d’affitto sul reddito superiore alla soglia di sostenibilità del 30%. Nonostante la recente crisi del mattone racconti che tra chi cerca un alloggio il 60% opta per l’affitto (viste le difficoltà di accesso ai mutui), il rischio morosità resta elevato e l’emergenza abitativa è lungi dall’essere tamponata con fermezza.
Si tratta comunque di dati e allarmi che già da tempo giacciono sui tavoli della politica italiana. Lo scorso novembre era stato l’Istat a bussare a Montecitorio, con una documentazione consegnata in Parlamento in occasione delle audizioni sulla legge di stabilità. Dai dati emersi, risultava che le famiglie italiane “in difficoltà” con il pagamento delle spese per la casa sono circa 3 milioni, l’11.7% del totale. In particolare, tra le famiglie in affitto il 16.9% si è trovata in arretrato con il pagamento delle mensilità, mentre il 6.3% delle famiglie con il mutuo si è trovato in arretrato con la rata. L’esposizione delle famiglie al ritardo nei pagamenti delle spese per la casa, evidenziavano i tecnici dell’Istat, «si associa nettamente all’onerosità delle spese stesse e, in particolare, alla loro incidenza sul reddito disponibile». Infatti, le categorie di famiglie maggiormente interessate dal problema sono quelle della fascia di reddito più bassa (il 29.2%, pari a 1,5 milioni di famiglie, è in arretrato con le spese per la casa) e, più in generale, quelle in affitto (27.6%, 1,32 milioni) o quelle gravate da un mutuo per la casa (14.8%, 561mila).

FRANCIA, IL SUCCESSO DELLO SCIOPERO GENERALE

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da http://popoffquotidiano.it/2016/04/01/francia-il-successo-dello-sciopero-generale/

Francia, successo dei sindacati allo sciopero del 31 marzo. Studenti e giovani guidano l’opposizione alle politiche governative. Hollande strumentalizza lo stato di emergenza e la polizia provoca le piazze





Secondo le autorità circa 400mila persone sono scese in strada durante il secondo sciopero generale contro la loi El Khomrila riforma del diritto del lavoro che il governo del premier Manuel Valls vorrebbe imporre ai francesi. Tuttavia, i numeri reali appaiono ben diversi. Per i sindacati (CGT, FO, FSU, Solidaires) e per i movimenti studenteschi (UNEF, Fidl, UNL) la cifra del successo della giornata del 31 marzo si materializza nell’1,2 milioni di manifestanti, tra i quali 200mila giovani e migliaia di attivisti delle varie forze di sinistra (NPA, PCF, PG), che hanno invaso le principali città di Francia per denunciare la precarizzazione del lavoro e l’erosione dei diritti dei lavoratori che l’adozione di questo progetto di legge vuole imporre. Davvero importante è stata la presenza, combattiva e colorita, di moltissimi studenti liceali e universitari, mentre non è passato inosservato l’enorme schieramento di polizia che non ha esitato a usare le maniere forti e le provocazioni (gravi le cariche ingiustificate di Rouen): gas lacrimogeni, manganellate, alcuni arresti. Insomma, la violenza dello stato di emergenza per risolvere lo stato di emergenza sociale.
Nella capitale la pioggia battente non ha di certo scoraggiato l’imponente corteo partito, forse per uno scherzo del destino, da Place d’Italie. Per OlivierBesancenotportavoce del Nouveau Parti Anticapitaliste intervistato dalla tv francese a proposito degli scontri avvenuti durante la manifestazione parigina, “il tentativo del governo di strumentalizzare la massiccia presenza della polizia affinché ci siano degli incidenti è chiaro, la cosa davvero importante è che oggi abbiamo assistito a una grande e crescente mobilitazione”. Il successo per i sindacati è considerevole e Philippe Martinez, segretario della Confédération générale du travail, auspica in un cambio di linea della riformista CFDT per aumentare la pressione sull’esecutivo. L’obbiettivo è quello di continuare la mobilitazione per invertire i rapporti di forza e costringere così il governo al ritiro della riforma. Come nelle precedenti manifestazioni sono stati gli studenti delle università di Paris VIII e Parigi I ad animare lo spezzone studentesco e secondo William Swift, presidente della UNEF, “questa è davvero una mobilitazione importante, con molti giovani, lavoratori e dipendenti pubblici. Si inaugura oggi una rinnovata opposizione contro la proposta di legge El Khomri, è tempo di costruire tutti insieme la lotta contro le politiche del governo”. In questo senso, sono previste ulteriori azioni condivise per il 5 e il 9 aprile.
Più consistente di quella precedente la protesta del 31 marzo, al di là del radicale rifiuto della riforma, è stata l’occasione per dire basta alle politiche neoliberiste di un governo liberticida.Il presidente François Hollande, dopo aver appoggiato i vari interventi militari “umanitari”, trascinando il paese nel bel mezzo dei conflitti in corso da una parte all’altra del pianetaha fatto dell’austerità la sua bandiera, pensando di poter facilmente abituare i francesi all’aumento della povertà e delle disuguaglianze, e a una continua perdita di diritti sul modello europeo. La diffusione di beceri sentimenti razzisti e islamofobi, al pari della crescita elettorale del partito neofascista di Marine Le Pen, il Front National, sono i frutti della retorica presidenziale del “paese in guerra” e sono essenzialmente legati all’imposizione dello stato di emergenza permanente da parte di un governo tanto irresponsabile quanto inadeguato.
In questo contesto problematico, mentre in Italia cresce in maniera smisurata e senza limitazioni di fatto l’utilizzo dei voucher, e si registra ancora l’assenza di un salario minimo legale (in Francia è lo SMIC a 9,61 euro/ora), gli studenti transalpini manifestano il proprio dissenso ricordando che “alzarsi al mattino per 1200 euro è un insulto”. Inutile ricordare come nel nostro paese la riforma del diritto del lavoro sia avvenuta in un contesto di scoramento generale e con la connivenza degli apparati dirigenti della CGIL (4 ore di sciopero a distanza di nove giorni dall’approvazione definitiva del Jobs Act). Ma a prescindere dalle dinamiche di declino interne, la mobilitazione francese può rappresentare un valido esempio da cogliere al più presto per rivitalizzare il conflitto sociale e far ripartire la battaglia per i diritti sociali che gli italiani hanno perso senza nemmeno lottare.

SUNDAY MAGAZINE

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Amore a prima vista



Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
E' bella una tale certezza
ma l'incertezza è più bella.

Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano -
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole?
uno "scusi" nella ressa?
un "ha sbagliato numero" nella cornetta?
- ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.

Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla all'altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
tra i cespugli dell'infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
in cui anzitempo
un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.  
(Wislawa Szymborska)

IL SOGNO AMERICANO

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Come ben sapete, chi scrive qua ha grosse perplessità su Sanders, soprattutto in relazione alla politica estera (ad esempio l'ostilità verso il bolivarismo); tuttavia questo articolo è interessante perchè lo inquadra in una cornice più ampia.
Potremmo parafrasare il detto cristiano: 'L'astuzia più grande del diavolo è stata quella di farci credere che non esiste' in: 'L'astuzia più grande dei padroni è stata quella di farci credere che avevamo torto'

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da   http://popoffquotidiano.it/2016/03/30/e-se-il-sogno-americano-fosse-il-socialismo/

Tra gli effetti del successo della campagna di Bernie Sanders c’è quello di trovare un articolo di un marxista come John Bellamy Foster, il direttore della Montly Review, sul Washington Post. Il socialismo tornerà di moda! Buona lettura!
Il reddito nazionale può essere paragonato a una torta. Se tra un anno e l’altro la torta diventa più grande, tutti possono avere una fetta più grande. Ma se, invece, la dimensione della torta rimane la stessa, una fetta più grande per alcuni può significare solo una fetta più piccola per gli altri.
Questo ci aiuta a capire il deprimente stato attuale dell’economia degli Stati Uniti e la tensione attorno alla campagna elettorale di Bernie Sanders che è incentrata sui bisogni dei lavoratori e delle famiglie che lavorano.
Per decenni, la crescita economica degli Stati Uniti è rimasto ferma, con ogni decennio successivo fare esperienza di un più basso tasso di crescita. In queste circostanze, il rapido aumento del reddito di quelli in alto – o di quella che Sanders ama chiamare la “classe miliardaria” – è a scapito delle quote di reddito (fette di torta) di quelli in basso.
bernie sanders goldman sachs
I 400 miliardari più ricchi del paese ora hanno più ricchezza che la metà inferiore dei percettori di reddito, che rappresenta circa 150 milioni di persone. La quota dei salari sul reddito nazionale è in calo, mentre i redditi da capitale sono andati aumentando. I lavori sono più precari.
Un gran numero di persone hanno abbandonato la forza lavoro. Sebbene la disoccupazione ufficiale sia diminuita negli ultimi anni, dei buoni posti di lavoro che pagano salari vivibili rimangono estremamente difficili da trovare. Sempre più persone stanno cadendo nella povertà. La maggioranza degli studenti nelle scuole pubbliche sono ora classificati come poveri o quasi poveri.
L’establishment politico, costituito dal duopolio dei partiti democratico e repubblicano, è stato in larga parte noncurante del deteriorarsi delle condizioni della maggioranza delle persone. Dal momento che i poveri, inclusi i lavoratori poveri, sono molto meno propensi al voto e hanno poco peso finanziario, sono facilmente sottovalutati. Il denaro domina la politica degli Stati Uniti ad ogni livello. La decisione della Corte Suprema Citizens Unitednel 2010 che ha aperto le porte alle grandi donazioni illimitate da parte delle ricche aziende ha enormemente appannato l’immagine della democrazia americana. E’ ormai sentire comune che gli Stati Uniti sono, per citare la frase memorabile degli economisti Paul Baran e Paul Sweezy nel 1966, “democratici nella forma e plutocratici nel contenuto”.
È l’aggravamento di questa condizione del corpo politico americano che spiega lo straordinario fenomeno della campagna di Bernie Sanders per la presidenza. Sanders si ritrae come un socialista democratico dello stampo della fase più radicale dell’amministrazione Franklin D. Roosevelt che proponeva un Bill of Rights Economico per garantire piena occupazione e sicurezza economica per tutti gli americani.
Nel sostenere il socialismo democratico, Sanders ha promosso una politica pragmatica della sinistra. Le sue proposte comprendono un forte aumento delle imposte sulla classe miliardaria, studi universitari gratuiti e assicurazione sanitaria per singolo contribuente, che garantisce l’assicurazione sanitaria a tutta la popolazione, indipendentemente da posti di lavoro e dal reddito. Egli sostiene programmi di occupazione nella tradizione del New Deal. Tutte queste proposte rappresentano cose che sono state realizzate in altri paesi, in particolare dalle socialdemocrazie scandinave, dove le popolazioni stanno meglio secondo ogni indicatore sociale.
Con il raffigurarle come possibili qui, Sanders ha portato l’idea del socialismo – anche se di un genere moderato – dai margini verso il centro della cultura politica degli Stati Uniti.
La cosa più notevole circa il fenomeno Sanders è che, nonostante l’ostilità implacabile da parte dei guardiani dello status quo nei media – per esempio, Adam Johnson su FAIR.org ha documentato che il Washington Post ha pubblicato 16 storie negative su Bernie Sanders in 16 ore l’8 marzo – egli ha continuato ad attirare folle record. Ha anche ottenuto più voti di quelli sotto i 30 anni che Clinton e Trump messi insieme, puntando a un indebolimento del potere dei media delle corporations sull’informazione politica nella società degli Stati Uniti e sulla crescente influenza dei social media, almeno tra i giovani. Come ha riferito David Auerbach di Slate, “Il social networking online ha permesso ai sostenitori Sanders di rafforzare l’un l’altro le convinzioni, in modo che il generale shutout di Sanders dai media mainstream – e anche una buona dose di media di sinistra – ha permesso a Sanders di sopravvivere laddove sarebbe soffocato anche nel 2008″.
BernieSanders-Senator-PresidentialCandidate-Democrat-Attrib-Meme-Twitter-JohnEMichel
Se c’è una lezione più grande qui è la capacità di ripresa e la diffusa attrazione del socialismo con i suoi valori egualitari di base. Il socialismo ha sempre fatto parte della cultura americana. Senza dubbio turberebbe il partito repubblicano di oggi apprendere che uno degli scrittori politici preferiti di Lincoln era Karl Marx, articolista europeo per il giornale di Horace Greeley, la New York Tribune.
Nella visione di Sanders del socialismo democratico, una società priva della basilare uguaglianza e equità per ogni individuo non può essere considerata una società democratica, in ogni senso significativo. Una democrazia reale, viva conduce in direzione del socialismo. Per milioni di americani oggi, ciò che Sanders sta esprimendo nella sua idea di socialismo democratico non è altro che il sogno americano.
traduzione di Maurizio Acerbo

LA STRATEGIA DELLE DESTRE IN BRASILE

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da http://www.carmillaonline.com/2016/03/31/le-strategie-delle-destre-brasile/


Da Salvatore riceviamo e pubblichiamo con molto interesse

nao vai ter golpe (1)



di Fabrizio Lorusso
In Brasile da circa tre anni l’offensiva contro l’esecutivo di Dilma Rousseff, presidentessa eletta per un secondo mandato nel 2014 col 51% dei voti, e il governativo Partido dos Trabalhadores (PT) è alimentata da fattori congiunturali, come la caduta del PIL (-3,8% nel 2015) e delle esportazioni (14,1%), l’inflazione (10,6%) e la svalutazione della moneta nazionale, il Real (del 48,3%), ma anche da elementi strutturali e da una strategia basata su tre pilastri: il politico, il mediatico e il giudiziario. Tutti vengono a sovrapporsi e ad allacciarsi con la difficile situazione economica.
Golpe Soft?
Nel mondo dell’informazione, per le strade e nelle istituzioni si preparano le condizioni per quello che i politologi definiscono “golpe soft”, cioè lo spodestamento non violento di un governo e un presidente, specialmente all’interno di un sistema presidenzialista in cui i mandati sono fissi, per mezzo della destabilizzazione, l’istigazione di conflitti e l’uso di espedienti eccezionali come l’impeachment. Si tratta di provvedimenti estremi, spesso ai limiti del dettato costituzionale o in certi casi illegali, applicati anche quando la situazione non richiederebbe misure d’emergenza. Se ormai oggi un golpe militare non pare più un’opzione viabile, ci sono dunque altre tattiche non elettorali praticabili, legittimate da poteri forti extrapolitici (mass media, monopoli-oligopoli, burocrazie) e attori esterni, per defenestrare un presidente.
Per esempio la costruzione di trame giudiziarie o parlamentari ai margini dello stato di diritto e della legalità democratica è stata la chiave determinante per i colpi di stato “soft” in Honduras nel 2009 e in Paraguay nel 2012. Altri strumenti “a disposizione” sono il blocco o l’ostruzionismo a oltranza dei processi legislativi, soprattutto quando il partito o la coalizione del presidente non hanno la maggioranza assoluta come in Brasile, o cavalcando sapientemente lo scontento popolare o, più specificamente, delle classi di riferimento dell’opposizione politica. Il sistema parlamentario permette l’uscita del presidente del consiglio con il voto di sfiducia, quello presidenziale no.
L’opposizione, rappresentata in parlamento dal PSDB (Partito della Socialdemocrazia Brasiliana), in alleanza con altri partiti, con le vecchie oligarchie e con i media mainstream, sta inducendo nel Paese sudamericano uno stato di confusione attraverso una decisa manipolazione dell’opinione pubblica. Infatti, è in atto un tentativo di accelerare un “cambiamento” politico abrupto e mediaticamente prevale un’informazione propagandistica che sovrappone e confonde le tematiche più disparate per amplificare la crisi. Così il giudizio sull’impeachment contro Rousseff, l’economia, la corruzione, la critica dei programmi sociali, che hanno contribuito a togliere dalla povertà 40 milioni di persone, e le indagini contro l’ex presidente Lula da Silva, mentore di Dilma, diventano emblemi di “un sistema” monolitico da abbattere.
Le piazze e i mass media
Le opinioni dei manifestanti anti-PT e anti-Dilma, raccolte per esempio durante le imponenti manifestazioni del 13 marzo in decine di città brasiliane, mostrano una confusione imperante e una mancanza evidente di obiettivi, al di là degli sloganFuori Dilma! o Rinuncia subito!, che favoriscono l’opportunismo del PSDB, il cui candidato alle presidenziali del 2014, Aecio Neves, è stato sconfitto da Dilma Rousseff, e di altre fazioni a destra dello spettro politico. Le proteste hanno una forte connotazione classista e geografica. Mobilitano soprattutto i settori delle élite e della classe medio-alta, specialmente nel Sudest, ma non coinvolgono le classi medio-basse, i neri, gli abitanti delle periferie e il Nordest. E’ un riflesso chiaro della spaccata geografia elettorale, socio-demografica ed economica del Paese. Gli effetti delle dimostrazioni, sempre accompagnate dallo sventolare dei colori della bandiera nazionale e perfino da alcuni cartelli inneggianti al ritorno della dittatura o a un intervento militare, sono il rafforzamento della strategia delle destre, che possono mostrare l’esistenza di un movimento “popolare” nelle piazze favorevole alla destituzione di Rousseff con due anni e mezzo d’anticipo, e simultaneamente il deterioramento della ancora popolarissima figura di Lula, che ha dichiarato di volersi ricandidare alle presidenziali del 2018.
Il Paese sta vivendo una forte crisi politica, istituzionale ed economica e non sono certo poche le mancanze o gli errori dei governi del PT (petistas), che si sono succeduti al potere tra il 2002 e il 2016, come per esempio lo scollamento delle basi e dei movimenti sociali, i conflitti socio-ambientali di un modello economico ancora basato sulle materie prime, il graduale rallentamento dell’inclusione sociale e della redistribuzione del reddito, gli sprechi e gli sfratti massivi legati ai megaeventi, la corruzione, le riforme agraria e politica in sospeso. Ma non sarà certo un cambio repentino di governo a migliorare la situazione, anzi, i fattori esterni e quelli strutturali resteranno. La prospettiva è che un governo ad interim di PSDB e PMDB (Partito Movimento Democratico Brasiliano, prima forza politica nazionale in Camera e Senato e per 13 anni alleato del PT al governo), chiaramente senza il PT e le sinistre, possa solo  far retrocedere le tante conquiste di diritti sociali e del lavoro degli ultimi 15 anni in pochi mesi senza garantire nessun piano concreto per uscire dalla crisi.
globo golpeComunque sia il vero potere di convocazione dei cortei degli ultimi due anni proviene dall’azione del gigante mediatico Globo e delle potenti confederazioni industriali di Rio de Janeiro e San Paolo e non, come si vuol far credere, da una presunta forza “democratica” delle reti sociali e dalla capacità d’organizzazione dal basso della gente. Il 18 marzo, in risposta alle proteste antigovernative delle settimane precedenti e soprattutto agli attacchi contro le istituzioni, centinaia di migliaia dipetistas e cittadini hanno realizzato cortei e atti politici in difesa della democrazia e per il rispetto del voto espresso nelle urne al grido di Non ci sarà il golpe! Il 31 marzo, data in cui nel 1964 le forze armate fecero un colpo di stato e instaurarono una dittatura ventennale, ci sarà una replica delle iniziative in corrispondenza con le tradizionali manifestazioni in memoria del golpe militare.
Il processo d’impeachment
Il giudizio di impeachment contro Dilma Rousseff, che segue il suo corso in parlamento e dovrà essere approvato dapprima da una commissione ad hoc e poi da Camera e Senato con maggioranza qualificata dei due terzi, non riguarda atti di corruzione, ma presunte anomalie nei conti pubblici e nel finanziamento di alcuni programmi sociali del governo da parte di banche statali (Caixa Economica Federal), a cui peraltro è stato restituito il denaro prestato. Si tratta di una pratica, possibilmente sanzionata dalla legge di responsabilità fiscale ma comunque da provare, che era abbastanza comune anche nei governi precedenti di Lula (2002-2010) e di Cardoso (1998-2002) ed è nota come “pedalata fiscale”. L’impeachment avrebbe dunque motivazioni e dimensioni squisitamente politiche che rientrano nei giochi di potere tra i partiti dell’opposizione, che non hanno accettato la sconfitta del 2014, e il trasformista PMDB. Il parlamento brasiliano è molto frammentato ed è il ricettacolo di fazioni e clientele che si muovono tra estenuanti e complesse negoziazioni e che poco hanno a che vedere col bene comune e la stabilità.
Paradossalmente se Dilma venisse destituita dal parlamento, una possibilità concreta dopo l’uscita il 29 marzo dalla coalizione di governo del centrista PMDB, le potrebbero succedere temporaneamente il suo vicepresidente, il presidente del Senato o quello della Camera, Eduardo Cunha. Tutti sono citati (e Cunha è addirittura indagato) nell’Operazione Lava-Jato (Auto-Lavaggio) condotta dal giudice Sergio Moro, la quale sta scoperchiando lo schema di mazzette e contratti gonfiati tra dirigenti politici e contrattisti della compagni energetica statale Petrobras. Il vice di Dilma, Michel Temer è del PMDB, partito al centro di varie indagini per corruzione ma non degli scandali e dell’attenzione dei mass media, e non nasconde le sue aspirazioni presidenziali. Il suo partito s’è sganciato dall’esecutivo, ha invitato i propri parlamentari a votare liberamente sull’impeachment e ha chiesto ai sette ministri in forza al governo Rousseff di dimettersi. Per ora solo uno, quello del turismo, il delfino di Temer Henrique Eduardo Alves, ha eseguito gli ordini, ma altri potrebbero farlo nei prossimi giorni. Il PMDB, però, non ha invitato l’ambizioso Temer a farsi da parte, rinunciando al ruolo di vicepresidente, e cerca piuttosto di conquistare il potere con un colpo di mano e con un cambio d’alleanze a 360 gradi. Una corrente del partito, infatti, pensa di formare un governo con il conservatore PSDB dopo l’eventuale caduta della presidenta.
Mani Pulite brasiliana?
Vi sarebbero implicati più di 300 imprenditori e politici di vari partiti, ma i mass media hanno diffuso maggiormente i casi legati al PT o al governo, trascurando gli altri, e hanno trasformato Moro in una specie di eroe nazionale, comparandolo altresì con Antonio Di Pietro, PM del pool di Mani Pulite, poi entrato a sua volta nel mondo politico, che si definiva “né di destra né di sinistra” e che nel 2014 ha rinunciato alla sua ambigua creatura politica, il partito Italia dei Valori. Secondo alcune analisi il giudice Moro, che s’ispira esplicitamente a Di Pietro, potrebbe seguire i passi del magistrato italiano e usare la notorietà acquisita in questi mesi per lanciarsi nello scenario politico.
Il Brasile sta vivendo un grave conflitto istituzionale. La procura accusa Lula per un presunto riciclaggio di denaro attraverso l’occultamento di patrimoni e documentazioni false. L’ex presidente non è coinvolto direttamente nell’inchiesta Lava-Jato e non ha condanne a suo carico per corruzione, ma il suo processo nasce come spin off dell’operazione in seguito ad alcune confessioni di indagati.
Moro privilegia un metodo giustizialista aggressivo, un forte protagonismo mediatico e l’uso delle “testimonianze premiate”, note anche come “la legge del pentito”, accompagnate dal carcere preventivo. Con un’operazione enorme trasmessa in diretta TV, un trattamento riservato in genere ai narcotrafficanti, il 4 marzo oltre 200 poliziotti hanno perquisito la casa di Lula da Silva e l’hanno condotto a rendere delle dichiarazioni. Dopo questo fatto inedito Lula ha denunciato un attacco mediatico-giudiziario contro di lui e Moro ha chiesto il suo arresto preventivo, nonostante l’ex sindacalista non si sia mai rifiutato di comparire e testimoniare in passato dinnanzi alla giustizia. Dopo una serie di quotidiani colpi di scena, Rousseff ha nominato Lula Ministro della Casa Civile, una specie di primo ministro incaricato dei rapporti col parlamento, e, se la Corte Suprema (Tribunal Superior Federal) ratifica la decisione e rigetta alcuni ricorsi che sono stati presentati, l’ex presidente godrà dell’immunità e potrà essere giudicato solo dalla Corte stessa e non da tribunali ordinari.
Si tratta di una manovra politica controversa per salvaguardare Lula in una situazione considerata “critica” in un contesto di polarizzazione politico-giudiziaria senza precedenti. La scelta è stata ampiamente criticata e dibattuta in Brasile, ma per impedire a Lula di assumere l’incarico e adempiere a un presunto interesse pubblico, Moro ha diffuso pubblicamente alcune conversazioni private tra Dilma e Lula che erano parte dell’indagine, per cui questa è stata parzialmente compromessa. Vista l’illegalità della pubblicazione delle intercettazioni una sentenza della Corte Suprema ha ritirato temporaneamente Moro dalle indagini. Con rapidità impressionante si rimischiano e si riaggiustano i pezzi del puzzle politico-giudiziario brasiliano. Il governo spera che l’incorporazione di Lula, per ora in sospeso in attesa di una decisione della Corte Suprema sulla legalità della nomina, possa permettergli di sciogliere il bandolo della matassa nell’intrico parlamentare e aiutare Rousseff a cambiare la direzione della politica economica e recuperare la via della crescita e delle riforme. Per questo, finché Lula non potrà agire come ministro e provare a ricucire gli strappi tra i partiti della coalizione di governo o almeno a convincere alcuni parlamentari a sostenere Dilma nel giudizio d’impeachment, l’opposizione avrà tempo di accelerare i tempi e le sessioni per la sua destituzione e scardinare ancora di più il sostegno al PT.
presalFinanza internazionale e geopolitica del petrolio
presalIl mondo finanziario e dell’economia internazionale sembra reagire positivamente ogni qual volta escono notizie favorevoli all’impeachment o pregiudiziali per Lula e il PT: scende il dollaro, la borsa ferve, gli indici s’elevano e le agenzie di rating promettono migliori score per il rischio-paese. Il gotha finanziari è in “buona compagnia”: l’ex ministro degli esteri messicani, Jorge Castañeda, ha sentenziato che non “ci sono condizioni perché Dilma rimanga al suo posto”, il settimanale inglese The Economist afferma, forse copiando dagli striscioni dei manifestanti benpensanti, che “è ora che Dilma se ne vada”, mentre l’ex presidente del Brasile, Fernando Henrique Cardoso, ha parlato dell’impeachment come “unica strada” di fronte all’ingovernabilità. In questa fase di recupero del neoliberismo e del Consenso di Washington in America Latina il mantra del pensiero convenzionale ripete che è essenziale riguadagnare la fiducia dei mercati e degli investitori. E di deve fare il prima possibile, lavorando anche ai margini del processo democratico e della costituzione, se possibile. A tal fine i settori più reazionari, rinvigoriti dalla vittoria di Mauricio Macri in Argentina, ricompongono vecchie convergenze oligarchiche e rinsaldano i pilastri della loro strategia.
Il tentativo di far cadere l’esperimento progressista brasiliano (post-neoliberale, neo-sviluppista, neostrutturalista o estrattivista, social-democratico redistributivo, neo-populista, a seconda della prospettiva con cui viene etichettato e il dibattito al riguardo è molto intenso) è simile, pur in contesti differenti, a quello che vivono altri presidenti latinoamericani come Nicolas Maduro in Venezuela ed Evo Morales in Bolivia. Brasile è però il Paese più importante nella definizione della politica regionale, oltre ad essere la prima economia dell’America Latina e la settima del mondo. Il suo modello è in una fase di stanca, anche perché s’è favorita maggiormente l’inclusione attraverso l’economia e il consumo e meno quella basata sul rafforzamento della società civile e della partecipazione cittadina. Inoltre la locomotrice cinese ha rallentato il ritmo e il Brasile, di cui la Cina è primo partner commerciale, ne risente. Sono dunque sorti conflitti tra le nuovi classi medie, create dalle politiche dei governi di Lula e Dilma, e la classe media già stabilita e con la paralisi economico-politica è aumentata l’ostilità dei settori oligarchici tradizionali, anche se le basi dei loro interessi non sono stati realmente minate dia governi del PT.
Gli scandali legati al colosso Petrobras, impresa strategica per lo sfruttamento degli idrocarburi, per lo sviluppo industriale complessivo del Brasile e per la ricerca tecnologica, hanno dimensioni politiche e geopolitiche rilevanti. Il parlamento sta discutendo un progetto di legge per ritirare il monopolio dell’azienda pubblica sui giacimenti del Pre-Sal. Si tratta di riserve petrolifere a basso costo d’estrazione che equivalgono a 40 miliardi di barili accertati e 176 miliardi stimati, equivalenti a 5 anni di consumo mondiale, e che sono state scoperte di fronte alle coste degli stati di San Paolo, Rio e Spirito Santo. Nel 2010 è stato creato un Fondo Sociale del Pre-Sal per gestire parte delle risorse ottenute in quest’area preferenzialmente per problemi strutturali quali l’istruzione e la salute nel Paese.
La scarsa chiarezza informativa sugli scandali di corruzione e il gran calderone mediatico-istituzionale e giudiziario, attualmente in ebollizione, hanno un’influenza considerevole sul processo legislativo, specialmente in un parlamento così diviso e particolarista, e rispondono a una logica di certo distante da quella che aveva mosso il progetto economico e geopolitico brasiliano nei governi del PT. I nuovi giacimenti fanno gola evidentemente ai consorzi petroliferi euro-statunitensi, anche come contenzione al blocco dei BRICS (sigla che descrive l’articolazione tra Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Inoltre negli ultimi due anni e mezzo d’impasse politica e crisi economica Brasilia ha dovuto spostare il suo asse d’interesse strategico dall’estero (BRICS, Mercosur-Mercato Comune del Sud, e Unasur-Unione Nazioni Sudamericane) agli affari interni.
La fine o il rallentamento del ciclo politico progressista dei governi delle varie sinistre (parlamentari) latinoamericane è un altro fattore importante, insieme alla relativa frenata degli scambi commerciali e degli investimenti in Brasile. La piena autonomia di gestione delle riserve Pre-Sal da parte di Petrobras è contraria ai piani di altri attori globali, in primis gli Stati Uniti e le tradizionali “sette sorelle” del mercato petrolifero mondiale, mentre una condivisione negoziata delle riserve o addirittura una graduale privatizzazione della compagnia statale, preparate da pesanti denunce sulla corruzione e sugli sprechi, pur esistenti e palesi, risulterebbe essere uno scenario gradito a interessi transnazionali in alleanza, come in passato, con settori interni conservatori favorevoli al golpe soft.
Post Scriptum. Letture correlate in spagnolo: volume della rivista Nueva Sociedad dedicato alle destre in America Latina, “Los rostros de la derecha en América Latina” LINKe in particolare l’articolo “La derecha en América Latina y su lucha contra la adversidad” LINK + Bonus Track “10 cosas que todo Brasil necesita saber” LINK

VOUCHER E LOGICA DELL'OMBRELLINO

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da  http://www.senzasoste.it/lavoro-capitale/sulle-orme-della-precarieta-la-tracciabilita-dei-voucher-e-la-logica-dell-ombrellino

Da qualche giorno in Italia è allarme voucher!Sembra che INPS e ministero del Lavoro si siano accorti del problema posto dall’utilizzo smisurato dei voucher, i «buoni» nati per regolare i rapporti di lavoro accessorio, ma diventati ormai la nuova frontiera del lavoro precario. Entrati sulla scena come strumenti limitati a poche tipologie di lavoro (quello domestico in primis), a colpi di piccole modifiche normative, dalla Fornero in avanti sono diventati gli indiscussi protagonisti della precarizzazione. Flessibili e discrezionali, i voucher sono il sogno del padrone della nuova era. Il voucher è il nudo faccia a faccia col padrone. Niente contratto, niente assunzione, nessun limite di orario, nessun controllo: il datore di lavoro ha la totale discrezionalità e l’ultima parola su tutto, tempi e modalità di chiamata.
Perciò con il Jobs Act si è deciso di investire sui voucher, facendo salire il tetto massimo di guadagno annuale da 5000 a 7000 euro. Ora, preso da improvviso rimorso, il governo scopre che l’utilizzo dei voucher apre le porte a tutta una serie di abusi. I buoni lavoro, non è certo un mistero, sono infatti una sorta di zona grigia del lavoro, una perfetta copertura legale del lavoro nero. Veniamo ai dati incriminati che spingerebbero all’azione i nostri zelanti enti di controllo: la maggior parte dei lavoratori-voucher ha percepito nel 2015 un salario annuo che va dai 500 ai 700 euro, per la maggior parte si tratta di lavoratrici, di giovani sotto i 25 anni e di pensionati e solo una minima percentuale del totale è riuscita a percepire almeno 5000 euro. D’altra parte, la maggior parte dei lavoratori voucher risulta non avere un altro impiego. A parte i casi, come quello dei pensionati, in cui il lavoro- voucher può valere come integrazione di una miserrima pensione, non è difficile comprendere, posto che non si campa d’aria, che una parte della retribuzione viene elargita in nero. In caso di ispezione o di infortunio basta attivare il voucher per quell’ora e tutto come per magia torna a essere regolare. La regolarità nell’era precaria è una questione formale che viene risolta in modo informale, a spese dei lavoratori.
Per contrastare questo abuso, la nuova misura introdotta dal governo è la tracciabilità dei voucher, attraverso la telematizzazione nominale e tramite la comunicazione dei dati relativi a luogo e data al momento dell’attivazione. In altre parole, all’attivazione dei voucher il datore deve comunicare il nome di chi lavorerà per lui, dove e in che giorno. Poletti ha affermato che è necessario stringere i bulloni della macchina voucher, ma qui più stringi e più si allenta, considerando che i diritti dei lavoratori, che creavano il necessario attrito, sono stati trasformati in mere tutele da concedere al lavoratore in condizioni estreme. È come se, mentre scaliamo a mani nude e senza imbracature la parete liscia della precarietà, qualcuno dall’alto ci lanciasse un caschetto o peggio un ombrellino. La tracciabilità dei voucher rientra nella logica dell’ombrellino: gli enti di controllo esistenti difficilmente possono rendere effettiva la tracciabilità, è una precauzione puramente formale perché inattuabile concretamente. L’ente dovrebbe infatti esercitare un continuo controllo in loco per verificare il rapporto tra voucher venduti e ore di lavoro effettive e non sembra essere uno scenario verosimile. Anche perché, una volta inseriti davvero controlli di questo tipo, la convenienza del voucher verrebbe meno: uno dei pilastri del Jobs Act distrutto così da qualche zelante controllore?
D’altra parte, a chiamare l’ispezione potrebbe essere direttamente il lavoratore-voucher. Se lo facesse, però, non verrebbe più chiamato e saremmo al punto di partenza. In un contesto di elevatissima mobilità, ricattabilità e maltrattamenti di vario genere la chiamatina all’ispettore per segnalare il datore di lavoro, in effetti, potrebbe pure dare qualche soddisfazione, ma non scalfirebbe in ogni caso il principio secondo cui si può essere comprati e buttati quando serve, che non ha niente a che fare con gli abusi dei voucher, ma con il loro normalissimo e legalissimo funzionamento. Questo fatto sfugge comprensibilmente al governo: il voucher legalizza un meccanismo per cui il lavoratore deve essere disponibile just in time, quando serve, assecondando i picchi e i cali di produzione o il corso delle stagioni, come nel settore dell’agricoltura in cui l’utilizzo dei voucher è elevatissimo.
Nell’inesausto tentativo di proporre modelli di ricomposizione sociale c’è chi ha parlato di un nuovo «popolo dei voucher» che merita di essere riconosciuto. Il mondo dei voucher però non è un mondo di facili ricomposizioni. Di certo è un fenomeno di massa e c’è sì una misura comune, uno scambio tempo-denaro che va oltre le distinzioni tra tipi di lavoro, categorie, qualificazione. Eppure le condizioni di lavoro e salariali dipendono dal rapporto compiutamente individuale e informale tra datore di lavoro e lavoratore. La corrispondenza tra un’ora di lavoro e un voucher, che pure viene riaffermata a parole con la nuova tracciabilità, è nei fatti consegnata alla discrezionalità del datore di lavoro. La mobilità da un lavoro-voucher a un altro, mentre può significare il prendersi la possibilità di non stare a certe condizioni, non consente di lavorare a lungo con gli stessi colleghi, per cui è difficile organizzarsi e anche solo riconoscersi. Ciò che dovrebbe unire questo presunto «popolo», una modalità di reclutamento e pagamento del lavoro, non può bastare a fronteggiare quei rapporti di forza che dettano legge al di sotto delle normative e al di là delle forme di retribuzione. Per organizzarsi e per riconquistare potere, si tratta di capire come sia possibile trasformare quella mobilità in una pratica di insubordinazione di massa, affinché non resti solo una risorsa individuale di sottrazione allo sfruttamento.

IL LATO OSCURO DEL REFERENDUM

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L'articolo è secondo me molto interessante, tuttavia il finale lascia aperto il quesito di come ristrutturare le società ricche.
Non esiste altra possibilità che imporre una politica, e dunque una forza politica, che sia capace di attaccare il Capitale non solo nella sua fase terminale (la redistribuzione della ricchezza in senso un po' più equo che oggi pare l'unico, angusto prospetticamente per quanto materialmente urgente, orizzonte possibile), ma a monte, ovvero nei meccanismi della sua accumulazione e nelle relazioni sociali che essa contribuisce a porre in essere, tanto più nell'ambito di settori fondanti e strategici perchè costitutivi di tutto ciò che verrà prodotto, cioè le materie prime e le risorse, che dalla necessità, intrinseca al privato, di accumulare e valorizzare il capitale in tempi brevissimi devono essere sottratte.
Finchè non si arriva, anzi non si torna, a questo preciso punto teorico e strategico -che poi una forza politica dovrà declinare nella tattica contingente- staremo sempre a cercare di curare il sintomo e non la causa.

A proposito della crescita globale, che è l'argomento che sostengono i difensori del capitalismo, va detto che essa è diffusa a macchia di leopardo e dunque non è elemento progressivo e soprattutto che laforbice della ricchezza è aumentata molto più velocemente della ricchezza prodotta, per cui l'argomento dell'aumento della povertà è in contraddizione solo apparente (al contrario di come vorrebbe far credere l'ideologia capitalista che la vorrebbe effettiva) con quello della crescita globale.




da https://aspoitalia.wordpress.com/2016/04/03/il-lato-oscuro-del-referendum/#more-3292

lato oscuro
… anche questa volta stai scegliendo per ripulirti la coscienza, come un Ponzio Pilato qualunque. Not in My Back Yard.
Perché se fossi così preoccupato dell’ambiente … ti impegneresti perché il tuo paese avesse un partito ambientalista degno di questo nome. Perché nella tua città ci fossero servizi pubblici più efficienti. E non frantumeresti i cabbasisi perché il sindaco ha ampliato le zone a traffico limitato. …
Perché di mettere una croce siamo capaci tutti.
Di Dario Faccini
Sono parole scritte da Marco Cattaneo, direttore del mensile Le Scienze, rivolte a chi intende votare SI al referendum del 17 Aprile contro il prolungamento indefinito delle concessioni petrolifere entro le 12 miglia dalla costa.
Sono parole dure, provocatorie, che hanno scatenato un vasto dibattito in rete.
E voglio dire subito come la penso.
Bravo Marco, ma devi avere il coraggio di dirla tutta. Perché così come hai scritto, sembra che la questione vera sia solo quella di essere un po’ più coerenti, più  amici dell’ambiente, un poco più sobri, per evitare di importare poi dal Mozambico quel poco di produzione di gas che potremmo perdere in Italia con un SI al referendum.
E invece sappiamo benissimo che non è questa la vera posta in gioco. A te che dirigi la principale rivista di divulgazione scientifica è chiarissima la scelta che abbiamo di fronte. Se non la dici fuori dai denti è solo per un motivo: perché è troppo rivoluzionaria e la maggior parte dei lettori, semplicemente, non potrebbero accettarla (e alcuni neppure capirla).

GREENWASHING MENTALE

Questo referendum è un piccolo passo sul lungo cammino che dovrà svincolarci dai combustibili fossili, su questo punto la pensiamo allo stesso modo. E sono anche d’accordo con te che le motivazioni più diffuse per votare il SI, seppur legittime, forse mancano il vero problema: si evidenzia l’inquinamento dei fondali, il rischio di sversamenti in mare (c’è in ballo anche un 9% di produzione petrolifera),  gli affari per i petrolieri (e  da qualche giorno anche della politica), le alternative possibili come le rinnovabili che hanno raggiunto il 40% della produzione elettrica, la sfida del Clima che non può essere combattuta solo a parole.
Ecco partiamo proprio dal Clima. Le fonti fossili sono in declino? In Italia si, complice anche la bassa Crescita (si, ci vuole la “C” maiuscola), ma nel resto del mondo non è affatto così.
world primary energy until 2014
Figura 1: consumo storico di energia primaria ripartito per fonte. La linea bianca rappresenta la quota di energia primaria che viene utilizzata in ogni anno per produrre energia elettrica, quindi rappresenta la massima quota di penetrazione che in un dato anno potrebbero avere le rinnovabili elettriche. Fonte: rielaborazione di BP statistical review 2015.

Nel resto del mondo, per i combustibili fossili, si vede al massimo un rallentamento dei consumi nel 2014, quasi certamente dovuto a cause economiche e metereologiche, non certo per la crescita delle nuove rinnovabili (in calo da un +16,5% a un +12%), che ancora forniscono solo il 2,45% dei consumi totali.
Se le fonti fossili sono ancora in crescita, allora le emissioni climalteranti sono ancora in crescita.
world primary COe emissions until 2014
Figura 2: emissioni storiche globali di CO2 equivalente. Fonte: rielaborazione di BP statistical review 2015.

Si potrebbe obiettare che però ora la situazione potrebbe evolvere velocemente a favore delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, spostando grandi finanziamenti nel settore green. In fin dei conti è questo il grande tema del cambiamento climatico: dobbiamo cambiare strada.
Già ma chi? Il 20% della popolazione mondiale agiata (si, ci siamo anche noi)? Forse. Di sicuro per l’80% che aspira a raggiungere quel 20% non è possibile.
Se quell’80% seguisse quei consigli che tu, Marco, hai dato nel tuo articolo (tenere basso il riscaldamento, comprare l’auto ibrida, tenere un po’ più spento lo smartphone) una volta che avesse raggiunto il nostro livello di benessere materiale, quei grafici che sono qui sopra schizzerebbero verso l’alto. E quell’80% non solo ha tutto il diritto di vivere come noi, ma si sta anche impegnando con tutte le sue forze per farlo, incoraggiato dal modello di Sviluppo che noi per primi gli abbiamo creato.
Si chiama Crescita Materiale Globale. Che vuol dire avere più oggetti, spostarsi di più, mangiare meglio e più variato, avere case più grandi e un’infinità di servizi mangia-risorse tra cui rientrano anche l’istruzione, la sanità e la salvaguardia dell’ambiente (che è roba da ricchi, ricordiamocelo). Tutte cose che consumano energia, risorse, suolo, e producono perdita di biodiversità inquinamento e gas serra, non solo nella loro normale attività o funzionamento, ma anche prima, quando vengono prodotti e costruiti. Un’auto nuova, ancora prima di fare un pieno, ha già consumato per la sua produzione l’equivalente in petrolio che consumerà in varie decine di migliaia di km (attorno ai 20000kWh di energia grigia per le auto tradizionali) e le auto elettriche o ibride non fanno eccezione. Per un computer ancora imballato è stato già usato circa un barile equivalente di petrolio.
Non c’è crescita delle rinnovabili e dell’efficienza energetica (la cosiddetta decarbonizzazione della società) che possa portare i poveri a livello dei ricchi mantenendo l’aumento della temperatura del clima sotto ai 1,5°C decisi alla COP 21 di Parigi.

IL NEMICO DIETRO LE TRIVELLE

Questa, come sappiamo entrambi, non è solo un’opinione di qualche complottista o scienziato un po’ estremista. Sono conclusioni scientifiche che vengono dagli anni ’70, quando ancora non si sapeva che i gas serra fossero una forma di inquinamento, ma si era già chiamato il problema con il suo vero nome: I Limiti della Crescita.
Ed ora, che il Clima è entrato nell’agenda internazionale, gli studi che si basano su moderni modelli scientifici di previsione che considerano energia, clima e economia, giungono alle stesse identiche conclusioni. Il modello di Sviluppo basato sulla Crescita non può più essere seguito perché se continuassimo su questa strada:
  • la necessaria riduzione nel consumo di combustibili fossili sarebbe solo parzialmente compensata da rinnovabili ed efficienza, producendo nei prossimi decenni carenze di energia e black out, incompatibili con la Crescita;
  • se si provasse a mantenere la Crescita coprendo la quota di energia mancante ancora con le fonti fossili, l’esaurimento di quelle più pulite (Peak Oil and Gas) porterà ad utilizzarne di più sporche, come il Carbone, facendo allora comunque scoppiare la bomba climatica;
L’unica via d’uscita viene indicata dagli stessi ricercatori:
…i paesi più industrializzati dovrebbero ridurre, in media, il loro uso pro capite di energia almeno di quattro volte e diminuire il loro PIL procapite all’attuale livello medio globale
Tradotto per noi italiani: l’indicatore che misura (molto male) la “ricchezza” di ciascuno di noi, dovrebbe più che dimezzarsi.
In altro parole, in modo controllato dovremmo decrescere volontariamente ora per evitare di decrescere rapidamente nei prossimi decenni per le carenze di energia o per la bomba climatica.
Quindi, Marco, il discorso che tu fai sul referendum lo condivido in pieno:
…riguarda la necessità di assumersi la responsabilità di ciò che facciamo. Perché godere dei benefici senza assumersi i rischi è troppo comodo.
Siamo noi stessi il vero problema, il vero nemico, dietro le “trivelle”. Ma i rischi maggiori non sono quelli dell’inquinamento che potremmo spostare dall’Italia al Mozambico come hai scritto. I rischi di una decrescita incontrollata sono la povertà, l’insicurezza alimentare, le guerre, la fine dei servizi essenziali come sanità ed istruzione. Grandi rischi per noi e persino moltiplicati per i paesi più poveri come il Mozambico. Votare SI al referendum per far progressivamente chiudere meno di 1/6 della produzione nazionale di idrocarburi non ci porta avanti di una virgola nella soluzione di questi problemi se non si diffonde anche la consapevolezza della portata delle sfide (anzi no usiamo la parola giusta), delle Crisi che abbiamo di fronte.
Per questo dobbiamo dirlo con parole chiare.
Le rinnovabili e l’efficienza da sole non bastano. Persino cambiare le singoli abitudini di consumo di ciascuno di noi non sarà sufficiente. Ci viene chiesto di ristrutturare le società ricche, come quella italiana, decidendo quali beni e servizi siano meritevoli di esistere, quali debbano essere condivisi e quali debbano essere abbandonati. 
Non è una cosa che si possa fare in 1 anno o in 10. E da qualche parte bisogna pur partire, per cui va benissimo tutto quanto hai scritto. Ma il vero fine è questo e dobbiamo iniziare a dirlo, perché l’abbiamo nascosto per troppo tempo. Anche se si aprono enormi problemi sociali come l’occupazione, la perdita di alcune tutele, la fine di alcune libertà di consumo, non possiamo tacere, perché l’alternativa è un baratro in cui potrebbe esserci tolto tutto.
Quindi, quando andremo a votare al referendum del 17 aprile e usciremo dal seggio, guardiamoci attorno. Guardiamo le case, le auto parcheggiate, i vestiti che indossiamo e magari giriamoci per guardare anche la scuola da cui siamo appena usciti. E chiediamoci, quanto di tutto questo ci serve veramente per essere felici e realizzati, o a quanto potremmo invece ragionevolmente rinunciare.
Perché a mettere una croce siamo capaci tutti, ma la scelta non si fermerà lì.
La scelta ci sta venendo incontro e ci troverà.
Anche se non andremo a votare.

AMICI E NEMICI

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da http://popoffquotidiano.it/2016/04/06/il-landini-che-non-ti-aspetti-riabilita-marchionne-licenzia-la-minoranza/

Licenziato da Landini per lesa maestà il portavoce della minoranza Cgil, Sergio Bellavita. E’ guerra tra la dirigenza Cgil e Fiom e chi osa criticarla. Il caso delle 16 Rsa incompatibili del gruppo Fca


sergio bellavita
SERGIO BELLAVITA


30 giorni: è l’intervallo di tempo trascorso tra la riabilitazione di Sergio Marchionne e il benservito a Sergio Bellavita. Il primo è il manager Fca, ferocissimo contro i diritti sindacali e accanito sostenitore di condizioni di lavoro indecenti. Il secondo è il portavoce dell’area di minoranza della Cgil, Il sindacato è un’altra cosa. Artefice della riabilitazione e del benservito è Landini, lider maximo della Fiom, icona della sinistra radicale.
«Stamane mi è stato comunicato il licenziamento dalla Fiom nazionale dopo 15 anni di impegno sindacale – si legge sul profilo fb di Sergio Bellavita – Landini e la sua segreteria hanno deciso all’unanimità di darmi venti giorni di tempo per rientrare in fabbrica. Non vengo cacciato perché colto a rubare, non per aver fatto un accordo vergognoso. Non è in discussione la qualità del lavoro che faccio (di quello che mi hanno consentito di fare avendomi tolto quasi ogni incarico). Ho persino messaggini in cui Landini si complimenta per la gestione di alcune vertenze…
Vengo cacciato solo perché rappresento l’opposizione interna alla Cgil. Il dissenso che la Fiom e la Cgil hanno deciso di ridurre al silenzio, di espellere. Non possono più permettersi di misurarsi con la loro irrilevanza, con la loro crisi drammatica di risultati concreti. Nel 2012 cacciato dalla segreteria e oggi dalla Fiom. Scriverò qualcosa di più meditato, tuttavia in pochi giorni Landini ha riabilitato Sergio Marchionne e licenziato Sergio Bellavita. Uno è diventato buono e l’altro è sempre stato cattivo. Anche questa è parte della pochezza di un segretario dispotico e arrogante che ha raccolto solo sconfitte e che lascerà solo macerie».
Parole durissime che fanno seguito a un gesto altrettanto drastico. Si imprime così una svolta a una dialettica interna drammatica, segnata dalla spada di Damocle che la segreteria Fiom, e della Cgil intera, ha appeso sulla testa di sedici Rsa degli stabilimenti Fca di Termoli, Melfi e Atessa. I 16 hanno il torto di aver promosso degli scioperi coordinandosi con altri lavoratori conflittuali contro la metrica del lavoro, la famigerata Ergo Uas e contro i sabati di straordinario comandati. Gli scioperi hanno sortito un certo effetto. Fca ha dovuto assumere 110 operai per coprire quel turno. Ma la Fiom nazionale è andata per le spicce (senza possibilità di difesa degli interessati) dichiarando le Rsu «incompatibili» con qualsiasi incarico e consegnati alle rappresaglie del management Fca. Intanto, l’8 marzo scorso, dalla bocca di Landini uscivano le seguenti parole: «Nessuno nega che la Fiat, prima dell’arrivo di Sergio Marchionne, fosse a rischio di fallimento e oggi no. E nessuno vuole negare le qualità finanziarie del manager. Di tutto questo noi siamo contenti». Parole usate poche ore fa dal legale storico della Fiat, De Luca Tamaio, in un processo contro cinque operai di Pomigliano licenziati dopo aver protestato per il suicidio di una operaia da anni in cassaintegrazione discriminatoria.
Tutto ciò mentre cresce la solidarietà attorno ai sedici operai. Centinaia di firme sono giunte a sindacatounaltracosa@gmail.com con oggetto “appello contro i provvedimenti” e venerdì 8, alle 18, al centro sociale Intifada di Roma si terrà un’iniziativa dell’area sindacale su guerra e austerità ma, a questo punto, si trasformerà in un momento cruciale per il dibattito sul destino della Fiom.
«Un atto di autoritarismo vergognoso – dice anche Giorgio Cremaschi, predecessore di Bellavita alla guida dell’area – segno della totale degenerazione del gruppo dirigente della Fiom guidata da Maurizio Landini. Un atto che segue il procedimento di espulsione degli operai che lottano in Fiat. C’è un rapporto diretto tra la scelta di Ladini di fare la pace con Marchionne, gli imprenditori e Fim, Fiom e Uilm e, dall’altra parte, quella di aprire la guerra all’interno della Fiom contro il dissenso. E’ una classica storia del trasformismo della sinistra. Si guadagna consenso presentandosi come amici del popolo e poi si usa quel consenso per diventare amici dei potenti».
Assordante, finora, il silenzio a sinistra: «Tutti hanno paura di parlare male della statua che portano in processione», ha detto a Popoff, Stefania Fantauzzi, una delle sedici Rsa, operaia di linea a Termoli. Tra le poche eccezioni la solidarietà a Bellavita da parte di Sinistra Anticapitalista che chiede «a tutte le forze sociali, sindacali e politiche che hanno come riferimento la classe lavoratrice di agire affinché il gruppo dirigente della Fiom ritorni sui suoi passi, ricostituisca il diritto ai delegati sindacali di praticare le mobilitazioni e la lotta e il pieno diritto di rappresentanza nella vita politica interna, riconoscendo il ruolo e l’impegno di Sergio Bellavita […] Non possiamo che essere preoccupati di fronte alle scelte dell’attuale direzione della FIOM, ma non solo noi come organizzazione, lo devono essere tutti coloro che hanno a cuore le sorti del movimento dei lavoratori e il futuro stesso di una federazione sindacale che da sempre rappresenta nell’immaginario del nostro paese il sindacato di classe per eccellenza […] E’ fin troppo chiaro che in discussione in queste due vicende, tra loro profondamente collegate c’è sia il diritto di praticare le lotte e lo sciopero da parte dei rappresentanti sindacale di base in stretto rapporto con i lavoratori, sia il diritto al pluralismo e alla rappresentanza in seno all’organizzazione. Una solo voce, un solo capo, per un apparato e degli organismi dirigenti che devono essere monolitici per mascherare le terribili difficoltà in cui si trova questo sindacato di fronte al Marchionne Sergio e alla Federmeccanica. Perché alla repressione interna del dissenso corrisponde un impasse totale delle scelte della direzione della Fiom, incapace di trovare la strada, dopo la sconfitta della Fiat e del Jobs Act con una discussione democratica».

LA FREGATURA SUL PUBBLICO IMPIEGO

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da  http://popoffquotidiano.it/2016/04/06/vi-spieghiamo-lintesa-sul-pubblico-impiego-una-fregatura/



Pubblico impiego suddiviso in 4 aree: i sindacati concertativi cedono al Governo e all’Aran. Ecco come funziona l’intesa

di Federico Giusti
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Era nell’aria la firma dell’accordo che riduce a 4 i comparti contrattuali nel pubblico impiego, del resto era scontato che Cgil Cisl Uil avrebbero accettato tempi e modalità di una trattativa che lascia fuori ogni contenuto reale, senza un effettivo recupero del potere di acquisto e di contrattazione, accettando la logica del risparmio in linea con i decreti attuativi della Legge Madia.
La Cgil dichiara che il Governo, ora, non avrebbe piu’ alibi per sottoscrivere i contratti  ma dimentica che  tra pochi giorni sarà pubblicato il documento di programmazione economica dentro cui troveremo le cifre per il prossimo triennio contrattuali , dimentica che la Legge di Stabilità ha stabilito l’importo per il 2016:8 euro mensili e con queste premesse non c’è da stare allegri
 
Da 11 , quanti sono oggi nella Pubblica amministrazione a 4 comparti cosi’ suddivisi
1.    Funzioni centrali
2.    Funzioni locali
3.    Sanità
4.    Istruzione e ricerca
Le operazioni di accorpamento hanno riguardato il primo (ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici non economici) e l’ultimo settore (fino ad oggi scuola, ricerca, università e Afam erano invece ben distinte). La presidenza del Consiglio resta a sé stante, ci sembra una evidente concessione a logiche di clientela che dovrebbero essere escluse da ogni contrattazione seria, del resto dove sta la ratio che giustifica accorpamenti per centinaia di migliaia di lavoratori\trici con la salvaguardia di un comparto cosi’ esiguo?
Ma quali sono le ragioni per ridurre a 4 i comparti  della Pa?
  • Si applica, dopo anni, la Legge Brunetta che prevede tra l’altro le fasce di merito attraverso cui erogare la produttività (lasciando il 25% del personale senza un euro) . Con il rinnovo dei contratti sarà possibile applicare le famigerate fasce che alimenteranno iniquità e ingiustizie destinando i soldi di tutti ad una minoranza. Esiste una straordinaria continuità tra Brunetta e Madia in materia di pubblica amministrazione, allora quanto è stato negato a Berlusconi viene concesso oggi a Renzi. Dove sta la coerenza di Cgil cisl Uil?
  • si riduce il numero non solo dei dirigenti ma anche del personale della pubblica amministrazione, la preoccupazione dei sindacati è stata quella di salvaguardare alcune posizioni di vertice ma nessuna parola è stata spesa sulle finalità della intera operazione che pare sia condivisa da parte della triplice.
  • si taglieranno numerose voci del salario accessorio andando verso quella semplificazione che nel linguaggio Renziano significa perdita economica per i lavoratori
  • si va verso un nuovo modello contrattuale con una parte comune a tutto il settore pubblico e una parte cosiddetta speciale di comparto, magari demandando, tra una deroga e l’altra, alla contrattazione di secondo livello. In questo modo sarà piu’ facile equiparare stipendi e promuovere in futuro la mobilità tra comparti rinunciando a stabilizzare i precari e a bandire nuovi concorsi
Per salvaguardare specifiche professionalità all’interno dei comparti, ognuno avrà il suo contratto, a una parte “comune” potranno essere affiancate parti “speciali”.
Per salvaguardare gli spazi di agibilità del sindacalismo autonomo, l’accordo pensa ad una rappresentatività sindacale all’interno dei nuovi compartii n fase transitoria, salve le ultime elezioni delle Rsu ma il solito 5% tra deleghe e voti
Che l’accorpamento serva anche per mettere fuori gioco alcune realtà sindacali minori e il sindacalismo di base è cosa indubbia, del resto chiedere a cgil cisl uil di farsi paladini della democrazia nei luoghi di lavoro sarebbe come pretendere da un capitalista la tutela dei diritti di chi lavora
 
Non scartiamo quindi la possibilità di alleanza, fusioni tra piccoli sindacati per arrivare alla fatidica soglia della rappresentatività
Dal canto suo, il Governo ,per sedersi al tavolo e  discutere del rinnovo dei contratti(è obbligato a farlo da una sentenza della Corte Costituzionale che risale a luglio 2015, ossia  9 mesi fa) voleva prima i 4 comparti per avviare quel processo di ridimensionamento dei servizi e del lavoro pubblico richiesto a suo tempo dalla Troika. E puntualmente, i sindacati Cgil Cisl Uil hanno servito al Governo, sul solito piatto di argento, quanto richiesto
Per capire la portata reazionaria dell’accordo non c’è bisogno di leggere il testo finale visto che tra bozze provvisorie e documenti ufficiosi sono girate innumerevoli versioni che nella sostanza salvaguardavano l’impianto voluto dalla Ue e dal Governo Renzi
Le pietose note stampa sindacali  fanno intendere bene quali siano i loro intenti, per esempio la difesa(almeno a parole visto che i fatti fanno presagire ben altro)  dei dirigenti e delle posizioni organizzative, la salvaguardia del monopolio contrattuale di cgil cisl uil, il progressivo depauperamento delle rsu, l’assenza di una visione complessiva che tenga insieme i settori pubblici con le partecipate e gli appalti.
Definire poi , come fa la Cgil,  innovativo questo accordo significa sposarne l’impianto e la filosofia di fondo che  è quella di indebolire il potere di acquisto e di contrattazione dei settori pubblici per poi passare ad una nuova stagione privatizzatrice, affermare un modello di contrattazione al ribasso magari presentando tanti accordi di secondo livello come privilegi da abbattere
Ricordiamo che allo stato attuale, i finanziamenti stanziati dalla Legge di stabilità prevedono aumenti ridicoli pari a 8 euro al mese e se aggiungeranno risorse per i prossimi anni saremo a noi a pagarceli con la mancata stabilizzazione dei precari, il mancato turn over, l’aumento dei carichi di lavoro e il saccheggio del salario accessorio. Come accaduto con le tutele crescenti del Jobs act, gli sgravi alle imprese non servono a costruire posti di lavoro , gli sgravi  e la decontribuzione accordate alle imprese, lungi dal creare i posti di lavoro annunciati, si ripercuotono negativamente sulle pensioni future soprattutto di quanti\e avranno pochi anni di contributi. 
Da chi ha creato il Jobs act possiamo forse attenderci contratti favorevoli ai lavoratori? Chi crede a queste storielle è complice del Governo e artefice della sconfitta dei lavoratori
[federico giusti/ cobaspisa e pubblico impiego in movimento]


SUNDAY MAGAZINE

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IL CIELO E' DI TUTTI



Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi
di ogni occhio è il cielo intero.

È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell'ortolano,
del poeta, dello spazzino.

Non c'è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.

Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.

Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.

Spiegatemi voi dunque,
in prosa od in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.

(Gianni Rodari)

TEMPA ROSSA E I CLAN DI RENZI

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da http://www.senzasoste.it/nazionale/tempa-rossa-la-guerra-tra-bande-prima-delle-prove-vere

tempa rossaLa vicenda delle indagini su Tempa rossa, che ha portato all’arresto del compagno della ormai ex ministro Federica Guidi, va ben contestualizzata. Sia per capire l’inchiesta che per comprendere cosa è questo governo e quali sono le sue prospettive.
Il primo filone di indagine riguarda l'impianto Eni di Viggiano (Potenza). Questa parte dell'indagine riguarda la gestione dei rifiuti. Ed è qui che l’ipotesi di reato è quella di disastro ambientale. Quella che Renzi ha liquidato in tv con la battuta “ma quale disastro ambientale qui non è mai stata estratta una goccia di petrolio”. Il problema è che non siamo al Bagaglino: l’accusa al centro oli dell’Eni di Viggiano non è roba da bar è cosa piuttosto precisa. E’ quella di aver smaltito rifiuti speciali pericolosi come se fossero non pericolosi. Per questo sono state sequestrate, dal Noe, migliaia di cartelle cliniche della Basilicata per studiare l’incidenza della mortalità per tumore in quella complessiva del territorio. Nell’ipotesi di disastro ambientale ci sta anche quella di ampio sforamento dei limiti di inquinamento dell’aria e, siamo citando Avvenire, all’accusa di nascondere “la causa dei malori [dei lavoratori] evitando addirittura d’aprire la procedura d’infortunio sul lavoro”. Tutto questo è stato nascosto, per quanto possibile, dall’ombrello mediatico renziano (che ha inondato lo schermo delle battute del premier) e minimizzato dai media amici. Tra l’altro in Italia ci sarebbe anche un ministro dell’ambiente, quello che aspettava la pioggia quando le metropoli soffocavano o l’autodenuncia della Volkswagen i giorni dello scandalo della casa tedesca, che stavolta ha preferito il silenzio.
Il secondo filone di indagine, ha al centro l'iter che ha portato all'autorizzazione del giacimento Tempa Rossa della Total. Gli indagati sono 23, l’ex compagno della Guidi, mentre sono scattate le manette nei confronti dell'ex sindaco di Corleto, Rosaria Vicino, esponente del Pd lucano. Secondo l'accusa, l’ex compagno della Guidi "sfruttando la relazione di convivenza che aveva col ministro allo Sviluppo economico - si legge dalle carte dei magistrati messe a disposizione in rete - indebitamente si faceva promettere e otteneva da Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total" le qualifiche necessarie per entrare nella "bidder list delle società di ingegneria" della multinazionale francese, e "partecipare alle gare di progettazione ed esecuzione dei lavori per l'impianto estrattivo di Tempa Rossa". Inoltre amministratori locali chiedevano e ottenevano dalle società che stavano lavorando al progetto Tempa Rossa assunzioni e altri tipi di utilità. Questo è lo scandalo che è finito sui media, più di quello ambientale, e che ha fatto saltare la poltrona della ministro Guidi.
A questi primi due filoni si è poi aggiunto un terzo fronte, che per competenza potrebbe lasciare la procura di Potenza e approdare in Sicilia: si tratta dell'indagine sul porto di Augusta. Qui è indagato anche il capo di Stato maggiore della marina, Giuseppe De Giorgi, e riguarda un sistema "do ut des", silenzio sulle modalità di trasporto di materiali in cambio di uno sblocco di 5,4 miliardi di fondi alla Marina, in grado oltretutto di assicurare, secondo gli inquirenti, "vantaggi convergenti" ai componenti della presunta associazione a delinquere: De Giorgi, il compagno dell'ex ministro Guidi, Gianluca Gemelli, il capo ufficio bilancio della Difesa e consulente del ministero per lo Sviluppo Economico, Valter Pastena, e il facilitatore Nicola Colicchi. E qui siamo ai clan che si incrociano con i clan, in una alleanza per la spoliazione delle risorse. Ad esempio la famiglia dell'ammiraglio Giuseppe De Giorgi, esprime il figlio Gabriele collaboratore del sottosegretario dell'Interno Domenico Manzione e allo stesso tempo finanziatore della Fondazione Big Bang del segretario del Pd nel 2014: (1.050 euro registrati sul sito). E la famiglia de Giorgi si tocca con la famiglia Manzione, perché la sorella Antonella è a capo del dipartimento Affari giuridici e legislativi della presidenza del consiglio, portata da Firenze nel 2014 proprio da Renzi. Il potere renziano, mostra quindi una struttura clanica che non dovrebbe lasciare indifferente chi studia il potere politico o chi vuole contrastarlo. Ma la ricerca e il conflitto hanno spesso modelli di rappresentazione del potere o schematici o troppo romantici. Non è certo la prima volta che il potere politico è in mano a dei clan che si scontrano o si alleano.
Niente male per quello che viene definito il Texas italiano: ipotesi di disastro ambientale, pieno coinvolgimento del ministero dello sviluppo, e di quello dei rapporti col parlamento (già coinvolto nello scandalo Banca Etruria), del capo di stato maggiore della Marina. Abbastanza perchè il premier sia stato costretto a intervenire, assumendosi la responsabilità politica di quanto accaduto, occupando i media, e urlando ai quattro venti che le multinazionali del petrolio se investono “fanno bene all’Italia”. Certo, la retorica dell’energia verde, delle rinnovabili a Renzi piace. Ma la realtà è fatta di inchieste su tangenti, favori alle multinazionali e disastri ambientali. Tra l’altro non è mancata la polemica sulla magistratura. A differenza del periodo aureo berlusconiano, dove si accusavano i giudici “comunisti” (sic) di ogni cosa dall’esistenza dei buchi neri a quella della jella, Renzi è stato chiassoso nelle forme e sottile nei contenuti. Il punto è che il potere del petrolio, una commodity che ha perso 100 dollari di valore a barile in un anno e mezzo, è ancora in grado di condizionare vicende ed equilibri dei governi. Specie nelle strutture claniche di potere dove gli scandali servono per registrare i rapporti di potere favorendo vecchi o nuovi soggetti rispetto all’equilibrio politico in corso. E qui, con le rivelazioni fatte filtrare attraverso la Guidi, sul tipo di bande presenti nel governo e su come si fronteggiano, di materia per uno scontro tra clan ce n’è quanta se ne vuole.
Ma sarà la vicenda Tempa rossa a far cadere il governo? Certo, se per Renzi c’è il rischio che il quorum al referendum del 17 aprile (semplicemente mai apparso sui media, e qui si capisce come funziona la democrazia...) venga toccato non è forse quello, per il governo, il problema più grande.Perchè il referendum di ottobre, sulle riforme istituzionali, rischia di essere una Waterloo per Matteo Renzi. Ma il punto vero, quello su cui un governo indebolito dagli scandali rischia sul serio, è legato al tipo di potere che non si esprime tramite elezioni ma tramite moneta. Stiamo parlando delle banche, istituto che oltretutto sta ricevendo ristrutturazioni paragonabili solo a quelle che ha subito la grande fabbrica fordista. La borsa di Milano, per adesso, sta prezzando positivamente l’ipotesi di accordo tra governo e banche private sul futuro del sistema bancario stesso. Se il governo tiene su questo, e sugli sgravi al bilancio ottenuti da Bruxelles, allora per Renzi Tempa rossa e affini possono passare in secondo piano. Avrebbe ottenuto qualcosa di serio per una parte importante del capitalismo italiano, con la benedizione di Bruxelles e Francoforte. Altrimenti la guerra tra bande nel governo farà da preludio ad un meritato cupio dissolvi di un governo comico dagli effetti tragici. Certo, le parole di Draghi, sul rischio di nuovi choc finanziari, non incoraggiano. Ma in politica, come dire, un problema alla volta.
redazione, 9 aprile 2016

FIOM: PARLANO GLI 'INCOMPATIBILI'

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da  http://popoffquotidiano.it/2016/04/04/parlano-gli-incompatibili-fiom-non-perdere-lanima/

Fiom e “incompatibili”, l’anima a rischio di quello che fu il sindacato più combattivo. Parlano Stefania Fantauzzi e Mimmo De Stradis, i delegati Fca che Landini sta per cacciare. L’8 aprile iniziativa a Roma

2016_03_10_fiat_incompatibili
Landini non ha ancora risposto. Sto cercando da alcune settimane di capire perché. Ha ridacchiato un po’ durante l’intervento che gli poneva domande precise. Ma poi non ha risposto. Quando Eliana Como, del comitato centrale Fiom per conto dell’area di minoranza, ha terminato il suo intervento è stata salutata dagli applausi dei suoi compagni – una quindicina di lavoratori riconoscibili dal foglio scritto a pennarello “Siamo tutti incompatibili” – e avvolta dal silenzio sprezzante degli astanti: una dozzina di persone, piuttosto nerborute e nervose, dell’”apparato tecnico” della Fiom e una trentina di intervenuti al convegno della Coalizione sociale compresi i sei relatori. Tutti zitti. Beh, in effetti, non c’era molta gente il 10 marzo scorso nell’aula di Lettere della Sapienza per sentire Landini e Mimmo Pantaleo, leader della Flc Cgil. La Coalizione sociale non sembra essere all’altezza delle speranze suscitate dall’annuncio della sua nascita. E anche la Fiom sembra l’ombra del sindacato combattivo che s’era battuto contro il modello Marchionne. Fuori dalla facoltà spicca uno striscione accanto alle lapidi per Pinelli e Paolo Rossi. “Landini fermati”. E’ una storia difficile da raccontare. «Landini sembra un mito impossibile da demolire, tutti hanno paura di parlare male della statua che portano in processione», dice Stefania Fantauzzi, metà dei suoi 43 anni passati in Fiat a Termoli, esclusa dall’assemblea nazionale Fiom perché «incompatibile».
«Nessuno nega che la Fiat, prima dell’arrivo di Sergio Marchionne, fosse a rischio di fallimento e oggi no. E nessuno vuole negare le qualità finanziarie del manager. Di tutto questo noi siamo contenti», ha dichiarato il segretario generale Fiom, Maurizio Landini, l’8 marzo scorso, in un convegno Cgil sul futuro dell’automotive. La riabilitazione – «tardiva» per il Corsera – di Marchionne serviva a Landini per sostenere la richiesta di una riapertura del dialogo con Fca, per tornare al tavolo delle trattative insieme con gli altri sindacati. Negli stessi giorni, il Collegio Statutario della Cgil ha sancito l’incompatibilità di 16 Rsa, rappresentanti sindacali (comunque eletti dai lavoratori) di tre fabbriche del sud di Fca: Melfi, Termoli e Sevel di Atessa. Il dispositivo è kafkiano: non sono mica stati espulsi ma sono “solo” dichiarati incompatibili e stanno per essere revocati dalla possibilità di rappresentare in fabbrica i lavoratori che li hanno eletti.
«Liberi solo di pagare la tessera. Chi potrebbe restare in questa situazione?A Melfi entro la fine di marzo ma stanno rallentando. In una Cgil che tende al pensiero unico, che tipo di congresso potrebbe svolgersi fra un anno? Già allo scorso congresso ci sono state moltissime situazioni dubbie, verbali falsificati (la minoranza presentò un dossier piuttosto dettagliato)», dice ancora l’operaia di linea della catena Ergo Uas, la nuova metrica del lavoro adottata a Termoli e Melfi: «ll nuovo sistema metrico studiato per ucciderci – racconta Stefania Fantauzzi – ufficialmente per uccidere i tempi morti: 14 minuti/14 movimenti, se perdi una vite si aziona una sirena, corri dietro ai motori per montarli. Uno schermo proietta noi stessi mentre lavoriamo, una pausa ogni due ore, c’è chi si fa la pipì sotto, che ne è della dignità? Quando suona la campana corrono tutti perché in 9 minuti devi scegliere o la pipì o il caffé o la sigaretta: impossibile chiederci di lavorare un giorno in più per automobili che non si vendono. Per questo a Termoli da maggio scioperiamo contro il sabato comandato: dall’1% l’adesione è arrivata al 60% nelle ultime settimane». Finché Fiat non ha promesso 110 nuove assunzioni, giuste giuste per coprire quel turno che mancava: 60 da altri stabilimenti e 50 giovani in contratto in somministrazione.
Stefania e i suoi compagni li hanno visti da lontano, difficile avvicinarli senza scatenare le rappresaglie aziendali. «Ma intanto abbiamo vinto ma veniamo espulsi, emarginati per gli effetti dell’accordo del 10 gennaio, perché ci siamo difesi da soli e l’organizzazione sindacale, se non permetti l’esigibilità del contratto o ti espelle o viene espulsa lei».
Eppure la Fiom s’era opposta a queste regole (Pomigliano, accordo 28 giugno 2010) ma poi Landini ha dato la delega alla Camusso di firmarlo. Era il 31 maggio 2012. «Come delegati Fiat chiedemmo a Landini di incontrarci – ricorda Stefania – perché volevamo capire e volevamo dire la nostra». L’incontro si tenne a Foggia, il giorno dopo, con il coordinamento delegati Fiat del Sud. Stefania e i suoi compagni diffondono un volantino nella sala, delegati tra altri delegati, denunciando che non c’era stata condivisione del passaggio. «Fu la prima volta volta che ci minacciò di espulsione. Una mossa antistatutaria».
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Ora sedici Rsa – tutta la minoranza Fiom di Termoli, Melfi e Sevel di Atessa – sono inquisite dalla maggioranza per aver costituito un coordinamento di lavoratori Fiat (Cobas, senza tessera, minoranza Fiom, Usb), «tutti quelli contro Marchionne, ci conosciamo da tempo, lavoriamo insieme in quegli stessi stabilimenti in cui Marchionne sta mutando le regole arbitrariamente, giorno dopo giorno – dice ancora Fantauzzi – ci sembrava importante stabilire un collegamento, unificare le vertenze, consultarsi sulla base di esperienze concrete. Una volta ci siamo anche riuniti: era la vigilia del primo maggio 2015. Non è successo nulla ma non ci sta bene che sia Landini a dire chi sono i nostri interlocutori nelle lotte in fabbrica, la logica del coordinamento è alla base della coalizione sociale, di Unions, perché con noi non dovrebbe valere? Ci dicono: dovete uscire dal coordinamento (che non esiste), ci dicono che la condizione è che ogni decisione debba passare per la dirigenza del sindacato. Ma io ho scelto di iscrivermi al sindacato cinque anni fa dopo aver letto nello statuto che ogni decisione stava all’assemblea degli iscritti, mi sembrò uno statuto di garanzia». Non è la prima delusione dalla Fiom, nel ’94 la flessibilità è partita proprio da Termoli: «Camusso, allora responsabile del comparto automobilistico, e il segretario Sabattini vennero qui a farci votare. Dicemmo no ai 18 turni ma il risultato venne alterato con la chiamata di impiegati cammellati e passò il contrario».
«Se fossimo sulla Settimana enigmistica, saremmo nel gioco “Trova l’intruso”,Landini dice che vuole occupare le fabbriche ma poi ci caccia perché scioperiamo. Vietato disturbare il manovratore specie se vuole fare il pompiere – conclude amaramente Stefania Fantauzzi – noi vogliamo mantenere il diritto di poterci difendere da un modello di sfruttamento. Non è nulla di più di quello per cui siamo entrati nella Fiom e siamo stati eletti. Chissà come sarebbe stato se l’organizzazione ci fosse stata accanto? Invece nemmeno un trafiletto sul sito nazionale, nessuna indicazione ai lavoratori anzi, il segretario del Molise ha preso le distanze da un corteo interno di 200 lavoratori».
A Melfi, il direttivo regionale lucano ha evitato di votare per timore di non avere la maggioranza, anzi, i delegati hanno chiesto che la questione sia discussa in una sede appropriata. «Ma finora, al posto di quella riunione, sono arrivate lettere dal tono perentorio e burocratico… Si chiede di abiurare la partecipazione al coordinamento, di rinunciare all’agibilità sindacale. «C’è scritto rispondete entro sette giorni, festivi compresi, sembra una lettera della Fiat (questa la risposta dei delegati: leggi)», dice Mimmo De Stradis, 22 anni di Sata.
Ha ricevuto la lettera e ha risposto: la giurisprudenza prevede che ciascuno possa difendere la propria posizione ma, nonostante cinque richieste di incontro, non c’è stata possibilità di difendersi per i sedici incompatibili. «I compagni del territorio non si sono voluti accollare il peso grave di un’espusione. Gli esterni a questa diatriba hanno chiesto “ma che cacciate i compagni e li abbandonate a se stessi in una fabbrica come quella?”. Non abbiamo avuto ancora l’opportunità di parlare coi vertici per dimostrare che le accuse non corrispondono ai fatti».
Mimmo ci racconta l’incredulità e lo stupore che si registrano in fabbrica. «Cerchiamo – dice – di salvaguardare l’organizzazione ma i più sindacalizzati fra noi hanno un’idea precisa di quello che sta per accadere. A Pomigliano la Fiom lamenta l’esistenza di lavoratori di serie A e di serie B, invece da noi separa essa stessa gli iscritti di serie A da quelli serie B. Immaginati la scena: io non mi potrò candidare a fine aprile al rinnovo delle Rsa, né potrò più avere incarichi sindacali».
Ma cos’è questo coordinamento? «Nient’altro che un punto di confronto fra esperienze sulle situazioni create dal nuovo contratto e dalla metrica del lavoro – prosegue – intuiamo che il motivo per cui siamo stati indagati e condannati sia l’ultimo sciopero del 26 aprile del 2015. Se il coordinamento è accusato a Melfi di aver organizzato scioperi è falso. Ci viene contestata un’autonomia che invece ci viene riconosciuta dallo statuto. Se il problema è il testo non c’è problema a cambiarlo, se il problema è il nostro lavoro inclusivo allora è ben più grave.Proprio in questi giorni è uscita la notizia importante che la Fim e l’associazione capi e quadri (sindacato giallo, ndr) formeranno un coordinamento, probabilmente con Uil e Ugl nelle prossime ore e forse anche il Fismic (tradizionalmente sindacato giallo di casa Fiat, ndr). Mi viene da ridere perché ci hanno rubato l’idea con fini del tutto opposti. Dentro la fabbrica noi avvertivamo da tempo che loro andavano insieme. Oggi è determinante la questione dei rapporti di forza in una azienda così importante. Se non posso cercare chi la pensa come me chi devo cercare?». Spiega ancora De Stradis che la Fiom resta fuori da quel coordinamento, «me lo auguro, sarebbe la fine della storia di questo sindacato ma rifiuta la strada che noi abbiamo provato a praticare: parlare per la prima volta una lingua comune con altri sindacati conflittuali».
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La situazione sembra in rapida evoluzione. Una lettera aperta a Landini di nove giuslavoristi spiega che«la questione è tutt’altra: il potere dei lavoratori iscritti di decidere tramite i propri rappresentanti eletti le forme aziendali di conflitto e comunque l’obbligo morale e politico di non mettere davvero mai a repentaglio quanti hanno aderito ad una proposta di lotta avanzata a nome della propria organizzazione, quand’anche non la si condivida. E si pone nel più significativo e simbolico contesto di repressione disciplinare del conflitto: la Fiat. Insomma qui in ballo non c’è l’unità dell’organizzazione, in ballo c’è l’anima dell’organizzazione. Ma nel vendere l’anima non c’è mai salvezza…». Centinaia di lavoratori, intanto, e delegati di varie categorie stanno firmando gli appelli “Siamo tutti incompatibili”, tutti che rischiano la sospensione. Anche dall’estero arrivano firme di esponenti politici della sinistra sindacale e rivoluzionaria. Fra pochi giorni, a Roma gli «incompatibili» saranno il perno di un’iniziativa contro la guerra e l’austerità (che culminerà con un concerto dei Gang) promossa dall’ Opposizione CGIL in Filcams Nazionale.
Gli “incompatibili” continueranno ad aspettare un segnale, una risposta, la possibilità di ribaltare un’accusa pesante. Ma non smetteranno di battersi.
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CASALEGGIO, TRA MITO E REALTA'

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da  http://www.senzasoste.it/nazionale/gianroberto-casaleggio-tra-mito-e-realta

La prematura scomparsa di Gianroberto Casaleggio fornisce una serie di occasioni di analisi sul M5S alla vigilia delle elezioni romane.
casaleggioCasaleggio è stato uno dei due fondatori, assieme a Beppe Grillo, del movimento ma anche, tra i due, quello che è riuscito a collocare il messaggio di Grillo all'interno delle dinamiche della comunicazione così come sono emerse dalla seconda metà del decennio scorso.
Le parole d'ordine di Casaleggio, espresse nel suo lavoro politico (perché di tale si è trattato) sono state due: tecnologia ed organizzazione. Entrambe passavano dall'uso positivo delle tecnologie della comunicazione, dai desktop a tutta l'evoluzione del mondo mobile. E' questa mentalità che ha permesso ad un comico, che negli anni ‘80 faceva spettacoli tv per 20 milioni di persone, ma che negli anni ‘90 era un semiclandestino che vendeva i suoi show in cassette VHS, di far schizzare i propri contenuti direttamente a contatto con la politica e la dimensione elettorale. Lo stesso Grillo, in diverse occasioni ha scherzato ricordando il periodo tecnofobo (malattia invece mai scomparsa a sinistra) quando distruggeva i pc con il martello. Ancora oggi, per quanto le primarie online del movimento 5 stelle siano molto poco frequentate, l'ideologia ufficiale del M5S è quella del primato politico, in quanto opinione pubblica, rete di pc o di smartphone. Visto che, come documentato, ci sono state espulsioni a causa della formazione di catene Whatsapp "non riconosciute" di esponenti M5S, c'è da dire che il passo dalla distruzione dei Pc, alla definizione di ciò che è lecito nell'evoluzione della rete, è enorme. Forse troppo grande, visto che la discussione vera, nel movimento 5 stelle, si effettua più in reti dedicate che in quelle pubbliche.
Casaleggio ha inferto diverse sconfitte alla sinistra e, allo stesso tempo, ha subito diverse sconfitte dalla realtà. Prima di tutto ha capito benissimo che l'organizzazione dell'impresa 2.0 (un nucleo neotribalizzato di decisori fortemente professionale, più una cerchia di precari, più una di lavoro gratuito che cerca esperienza), così come usciva dai primi anni del secolo e si addentrava negli anni Lehman Brothers, si adattava comodamente alla politica. La seconda è che ogni evoluzione tecnologica, e il web 2.0 lo era, porta con se un messaggio messianico che può essere adattato alla politica. Infatti Casaleggio ha cominciato con qualche messaggio sull'evoluzione della rete in spirito piuttosto comico ma utile come prova d'orchestra. Quando comunicare politicamente in rete ha trovato un elemento unificante (la lotta contro la casta, l'eguaglianza formale dei partecipanti a questa lotta "uno vale uno"), la popolarità del messaggio web è andata molto oltre il web. La terza è stata quella di saper reiterare lo stesso messaggio da molti punti della rete dando al pubblico l'impressione positiva di un governo spontaneo del messaggio e non quella di una rigida regia (influencer e qualche ditta di produzione di clip, in questo senso, hanno lavorato benissimo). Infine, il modello di costruzione del consenso elettorale. Casaleggio ha lavorato attorno ad un modello consolidato, è negli studi di comunicazione politica dagli anni '90: il catch-all-party, il cartello elettorale che aggiunge il malcontento di destra a quello di sinistra ottenendo un risultato maggiore della somma delle parti. Miracolo, in questo caso, ottenuto grazie a qualcosa di nuovo: l'irrruzione da protagonista del web 2.0 nella politica. Modello, in qualche modo, ripreso da Matteo Renzi con forme però di comunicazione, dall'alto verso l'altro, che mobilitano più l'elettorato che sta fuori dalla rete che in rete. Diciamo che, in Renzi, il 2.0 serve più ai giornalisti che all'elettorato mentre, in Casaleggio, si parla qui di qualcosa di differente. Insomma, dopo Berlusconi, e Bossi, un'altra severa lezione di politica impartita alle sinistre di ogni tipo (ancora oggi ferme a parlare di alienazione, spersonalizzazione della comunicazione via web, come se la critica fosse un sostituto utile della comprensione del funzionamento reale di un modello di comunicazione politica efficace). Casaleggio ha quindi saccheggiato nell'immaginario di sinistra -da quello del reddito di cittadinanza, a quello ecologista fino a quello social-liberista dell'impresa che innova, amato, da tante sinistre, ma in silenzio- per un modello catch-all-party che dalla destra ha importato il cospirazionismo, riflesso all'ordine e la passione per le sentenze di tribunale (amate ormai anche a sinistra ma la cui origine di destra è inequivocabile). Come tutti coloro che perdono senza sapere perchè, ciò che è rimasto a sinistra ha cominciato ad odiare Casaleggio senza riserve. Fino ad attribuirgli doti di influenza e di cospirazione in ogni angolo di Italia magari, invece, trascurando proprio i luoghi più imporanti dove il lavoro del cofondatore del movimento 5 stelle era maggiormente da monitorare: articoli sul M5S del Financial Times, del Guardian, dell'Economist, una intervista di Grillo alla tv tedesca, l'intervista della Raggi all'intera stampa estera.
Sono però altrettanto importanti le lezioni inferte a Casaleggio dalla realtà. Già, perchè la Casaleggio e associati in politica ha mostrato i difetti di crescita tipici del modello di impresa da cui proviene che, tra la lettura di un libro di Gengis Kahn e l'altro da parte del cofondatore del M5S, sono usciti tutti nel momento della sua implementazione nel politico. In poco tempo, rispetto al nucleo forte tribalizzato e fidelizzato della Casaleggio e associati, sono cresciute esponenzialmente, e in termini di partecipazione al budget, le cerchie della collaborazione precaria e occasionale (dagli amministratori agli eletti) e quelle delle collaborazioni gratuite (in termini puramente miltanti). Era evidente che queste cerchie volessero contare. Come evidente che si sarebbero scontrate con chi vuol mantenere il timone del comando. Tra una scomunica ed un'espulsione ne è uscito un movimento timoroso del capo, per nulla autonomo e, dopo un po', per nulla originale. Cosa che in Italia significa ripetere il mantra dell'onestà e della legalità. Ma anche perdere il senso della complessità sociale. Perchè con l'immagine della legalità si prendono i voti e nulla più. Per non dire dell'assenza di intellettuali nel movimento 5 stelle, salvo il povero Becchi un giorno trattato come Kelsen, e l'altro, come peto nello spazio, che ha privato il M5S di quei brainstorming di sapere essenziali nel mondo contemporaneo. E che dire dell'Europa e del governo del territorio? Un eventuale governo del movimento 5 stelle richiederebbe sforzi simili, magari con successi maggiori, di quello Tsipras. Il governo dei territori richiede conferenze di indirizzo visibili a tutti, non chat sui social media. In tutto questo i limiti di Casaleggio, dell'impostazione da startup che non riesce ad evolvere, si sono visti tutti.
Paradossalmente Casaleggio lascia davvero tanti orfani a sinistra. Come elemento luciferino che legittimava una visione oscura del movimento a 5 stelle, mai letto come è, pregi e difetti alla mano: come un cartello elettorale che ha cercato di esprimere un'alternativa alle due aree elettorali. Aree elettorali che, dalla fine della prima repubblica, hanno fatto gli interessi dell'un per cento dell'elettorato, interessi garantiti da centrosinistra e centrodestra. La vicenda del movimento 5 stelle, luci ed ombre, andrebbe analizzata con uno sguardo molto meno grossolano di quelli fino ad oggi adottati a sinistra. Vedremo se le evoluzioni del M5S, che siano quelle di una soluzione "dinastica" nella Casaleggio associati o quella di una ristrutturazione dell'organizzazione politica ne forniranno l'occasione.
Per Senza Soste, nique la police
12 aprile 2016

IL LAVORO CHE IL PETROLIO NON PUO' DARE

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da  http://ilmanifesto.info/il-lavoro-che-il-petrolio-non-puo-dare/




Referendum. La convenienza a sfruttare vecchie economie rallenta investimenti nuovi. Domenica prossima alle urne contro la volontà di svendere un paese



I sostenitori del “no” al prossimo referendum del 17 aprile si fanno nobili difensori dei posti di lavoro. Costoro danno a intendere che, in caso di vittoria del “sì”, verrebbe aperta una pratica di licenziamenti di massa, destinata a gettare sul lastrico migliaia di famiglie. Ora, a parte i reali esiti referendari, mirati a porre un termine definito allo sfruttamento dei nostri mari, e non certo a mettere in atto le regole di libertà di licenziamento introdotte dal governo Renzi con il Jobs act… Occorre entrare nel merito dell’obiezione, sia in termini specifici che generali. Già su questo giornale il 10 aprile, lo ha spiegato Davide Bubbico – che non scrive per sentito dire, avendo dedicato al tema un ponderoso volume.
Nel libro L’economia del petrolio e il lavoro, Ediesse 2016) ha messo in evidenza come l’industria degli idrocarburi sia una tipica economia capital intensive, caratterizzata cioè da grandi investimenti in capitale fisso (macchinari e strutture), ma con ridotte ricadute sull’occupazione. Dopo decenni di sfruttamento dei territori della Basilicata oggi si possono contare poche migliaia di occupati, comprese le figure dell’indotto. Naturalmente non si vogliono sottovalutare neppure questi esiti ridotti sull’economia della regione, che andrebbero tuttavia comparati con l’ampiezza dei territori occupati dall’Eni, con le risorse locali consumate, con il vasto impatto ambientale e con gli esiti sulla salute dei cittadini, che si potrà misurare solo nel lungo termine.
Ma quello che appare oggi intollerabile è il motivo della “difesa del posto del lavoro” qualunque sia l’attività produttiva che rende possibile l’occupazione. E questo è un punto su cui occorre soffermarsi. La disoccupazione di massa dei nostri anni, non è solo un dato strutturale del modello di accumulazione capitalistica dominante. È ormai diventata una pratica di controllo sociale, che produce senso comune diffuso. Agli occhi di una massa crescente di uomini e donne disperati, chi investe in attività produttive appare come un benefattore. Lo sfruttamento del lavoro altrui e i profitti che ne conseguono scompaiono. Allo stesso modo, chi è già occupato non può lamentarsi dei ritmi di lavoro cui è sottoposto, dei turni, degli straordinari necessari per arrotondare, della sua penosa fatica quotidiana. Deve considerarsi fortunato, perché è al sicuro, mentre fuori dalla sua fabbrica o dal suo ufficio infuria la tempesta.
Ma la scarsità di lavoro, diventata una convenienza strategica per il capitale, non è solo una immensa fonte di nuova legittimazione del suo dominio, è anche l’origine di un progressivo arretramento della nostra civiltà. Siamo al punto che ormai esaltiamo senza nessun pudore i nostri successi industriali anche quando sono finalizzati alla guerra, a portare morte e distruzioni presso altri popoli. Finmeccannica firma un maxicontratto per la fornitura di 28 Eurofighter Typhoon al Kuwait, titolava trionfante Il Sole 24 ore il 4 aprile e ripetevano con pari giubilo gli altri grandi quotidiani nazionali. Ma l’inglese dei termini usati non può cambiare la natura criminale dei prodotti. Fighter significa combattente, e quell’euro che lo precede serve solo a camuffare e nobilitare il termine, quasi si trattasse di un computer di nuova generazione, mentre è invece un aereo, un aereo Typhoon, cioè uragano, che genera una tempesta di morte. Plaudiamo a Finmeccanica che crea occupazione costruendo aerei da combattimento, destinati ad alimentare le guerre che infuriano in Medio Oriente?
Certo, lo sfruttamento del mare non è paragonabile all’industria degli armamenti. Sono due cose molto distanti tra loro. In un caso – ma solo quale esito indiretto o incidentale – si uccidono pesci e si distrugge l’habitat marino, e per lo meno si produce petrolio, nell’altro si producono armi per uccidere espressamente uomini e donne. Ma chi difende le ragioni del no a tutela dei posti di lavoro deve essere portato a riflettere su un altro aspetto. La convenienza a sfruttare le vecchie economie comporta un rallentamento degli investimenti nelle nuove. E questo è storicamente provato. Quando nel 1972, il Club di Roma pubblicò il Rapporto sui limiti dello sviluppo, circolato poi in piena crisi petrolifera, si aprì una vasta discussione sulla ricerca di energie alternative. Un dibattito destinato ben presto a esaurirsi quando si scopri che di petrolio ce n’era ancora tanto, nella pancia della Terra, insieme a veri e propri oceani di gas. E per i decenni successivi gli investimenti di ricerca, nel solare e nell’eolico, divennero diletti per hobbisti solitari. Quanti investimenti ci ha fatto perdere lo sfruttamento degli idrocarburi? Quanto gas serra avremmo potuto risparmiare?
Ma c’è un’altra ragione ancora più importante da considerare. Già in passato nel nostro paese è stato commesso un grave errore di strategia industriale. Quando, tramite gli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno, si occuparono tanti siti costieri del nostro Sud, da Brindisi fino a Priolo, venne adottata una politica non dissimile da quella dell’Eni in Basilicata. Grandi strutture industriali calate dall’alto, che non generarono nuove economie, non stimolarono una ulteriore crescita del territorio, perché estranee ad esso, alla sua storia, alle sue vocazioni, ai saperi delle genti che lo abitano. Anche allora territori di altissima qualità (mica i deserti dell’Arabia Saudita) furono letteralmente “svenduti” all’industria, in gran parte pubblica. Si trattava e si tratta di industrie che potremmo definire nature intensive, che consumano risorse naturali (immense quantità d’acqua) inquinando suoli, strati aerei, fondali marini. Ma almeno allora, nell’errore, quegli interventi erano interni a un progetto generale di sviluppo del nostro Mezzogiorno.
Si pensava di generare posti di lavoro investendo in attività industriali che peraltro non si esaurivano nell’insediamento dei petrolchimici. Ma oggi? Dobbiamo continuare a difendere attività residuali? Dobbiamo conservare i pochi posti di lavoro gentilmente concessi dalla Total e da Shell, senza badare alla nostra industria turistica, alla vita dei nostri mari, al riscaldamento climatico che incombe, alimentato in misura così rilevante dal consumo di petrolio?

BRASILE: LA PAROLA AI SEM TERRA

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da  http://ilmanifesto.info/stedile-mst-adesso-serve-una-nuova-guerriglia-comunicativa/


Intervista. Joao Pedro Stedile, leader Mst sul voto della commissione parlamentare per l’impeachment di Rousseff. ««Avremo tre anni per discutere di un altro progetto di paese»»




In una settimana determinante per la crisi istituzionale che attanaglia il Brasile, abbiamo sentito il parere di Joao Pedro Stedile, leader del Movimento Sem Terra (Mst).
Nei giorni scorsi, l’Mst, con movimenti e sindacati, si è accampato con i sacchi a pelo a Brasilia, per seguire la votazione sul processo di impeachment alla presidente Rousseff: ieri notte la commissione parlamentare, a maggioranza, ha dato il via libera.
La polizia militare ha dato l’assalto a un accampamento dell’Mst a Quedas de Iguaçu, nello Stato del Paraná, ha ucciso due contadini e ne ha feriti altri sei. Che succede in questa regione governata dall’opposizione?
Quel che è accaduto in Paraná è stata la conseguenza di un’alleanza dell’amministrazione locale, di destra, che ha nominato un nuovo segretario di governo, il signor Valdir Rossoni, già deputato del Psdb, da sempre finanziato dall’impresa forestale Araupel: l’accaparratrice delle terre pubbliche ora occupate dall’Mst. Quindi la sua nomina è stata un tentativo di «risolvere» il problema e di farlo attraverso la violenza. Però non hanno calcolato che lì si sono accampate oltre 3.000 famiglie, e che tutta la regione ci appoggia: perché l’impresa si dedica solo alla monocultura del pinus in una regione che è molto fertile. E così, anche se purtroppo abbiamo perso due compagni, la lotta continua più forte e il governo locale è indebolito. Quello centrale ha designato un responsabile federale per le indagini e ha dispiegato un plotone di polizia nazionale, per evitare che la polizia locale, insieme ai pistoleros dell’impresa continuino con le provocazioni. Il 9 aprile, al funerale c’erano 10.000 persone nella città di Quedas de Iguazu.
In tutte le regioni di frontiera dell’America latina – Venezuela, Colombia, Argentina – ci sono mafie che fanno gli interessi delle destre. In questo momento difficile ci sono piani paramilitari per destabilizzare così anche in Brasile?
Da noi, non credo. Queste mafie si dedicano agli affari e non amano la confusione. In tutta l’America latina, c’è però uno scenario di crisi generalizzata. Durante il periodo neoliberista degli anni ’90, nell’era Reagan-Thatcher, tutti i governi latinoamericani erano subalterni agli Usa. Poi quel modello è stato messo in questione da due progetti: quello neosviluppista – prodotto di un patto tra i lavoratori e settori della borghesia, soprattutto in Brasile, Argentina, Uruguay – e il progetto dell’Alba, guidato da Chavez, e basato sulla necessità di una visione nazionale, antimperialista e anti-neoliberista. Si poteva proseguire su questa linea antimperialista solo costruendo un’alleanza basata sull’integrazione continentale, non solo di governi, ma dell’economia, dell’energia e soprattutto un’integrazione popolare. Dall’elezione di Chavez, nel ’98 al 2013, si sono scontrati tre progetti: neoliberismo, neosviluppismo e Alba. A ogni elezione, in America latina, questi tre progetti presentavano propri candidati nei singoli paesi e il rapporto di forze si modificava: a volte il neosviluppismo si è alleato con il neoliberismo, per esempio sul tema dell’etanolo, altre con l’Alba, e da lì si è creato lo scenario dell’Unasur e della Celac. Ma in questi ultimi anni, tutti e tre i progetti sono entrati in crisi. Il neoliberismo è in crisi.
Nonostante la crescita ostentata dall’Fmi, il Messico è praticamente uno stato a pezzi… Il neosviluppismo è in crisi, sia qui in Brasile che in Argentina e in Uruguay. E anche l’Alba è entrata in crisi perché ruotava intorno alla maggior ricchezza del Venezuela, il petrolio. Chavez, nella sua saggezza, lo utilizzava come un bene strategico a favore di tutti e ora, con la caduta del prezzo del barile, questo non può più essere fatto. E anche l’Alba ha il fiato corto. In questo scenario, è naturale che, in ciascun paese, quando ci sono elezioni, le forze tentino di travolgere il governo che rappresenta quel progetto. Succede in Argentina, in Brasile, in Venezuela, ma anche nei paesi neoliberisti. Non ci sono bacchette magiche. Ci vogliono anni, ed è necessario che le classi popolari di ogni paese ricostruiscano un progetto adatto. Di certo, quando discuteremo il nostro progetto per il futuro dovremo considerare prioritario la democratizzazione dei mezzi di comunicazione e in particolare di quel grande strumento di massa che è la televisione. Da noi, è gestita dal monopolio di tre gruppi che si accordano fra loro. E la televisione, specialmente la Globo, ha connessioni dirette con gli Usa e con la destra latinoamericana attraverso l’Istituto Millennium, che è in realtà uno spazio di articolazione politica. Il modo in cui si trattano le notizie in Messico, Cile, Argentina, è lo stesso della Globo: stigmatizzare i poveri e la sinistra, mettere in ridicolo leader popolari come Lula, Fidel Castro, Chavez o Maduro. Per contro, noi dobbiamo sviluppare una vera guerriglia comunicativa, con tutti i mezzi culturali per una nuova battaglia delle idee e per nuove simbologie.
Che succede con il disastro ambientale di Mina Gerais, il più grande nella storia del paese? Sembra che le indagini che avrebbero potuto portare in carcere alcuni alti responsabili siano state sospese per un conflitto tra i giudici federali e quelli locali: dov’è finita la «voglia di far pulizia» che certa magistratura ostenta con la tangentopoli brasiliana e con le denunce a Rousseff e a Lula? È una vergogna. Siccome l’impresa Vale, responsabile del crimine e le sue consociate sono grandi finanziatrici dei politici, il loro processo è praticamente paralizzato. A parte le multe di migliaia di milioni di reales imposte loro dal Pubblico ministero, fino a ora non è stato fatto nulla. L’impresa sta solo cercando di ricollocare le 300 famiglie sfollate, e convincere così l’opinione pubblica della città, che dipende dalla miniera, a dare il suo appoggio alla riapertura. La miniera, intanto, continua a diffondere tutta quella spazzatura chimica nel fiume, che è già morto. Stiamo organizzando diverse mobilitazioni di massa, per vedere se i politici e i poteri giudiziari assumono un’attitudine più decisa.
Questa è una settimana determinante per il processo d’impeachment alla presidente Dilma Rousseff. E poi ci sono le accuse a Lula da Silva, ma anche i problemi giuridici del vicepresidente Michel Temer, che si è dimesso dal Pmdb e che dovrebbe sostituire la presidente in caso di sospensione dall’incarico. Quale esito potrà avere questa crisi politica?
A seguire il voto di impeachment, c’è la plenaria della Camera, dal 15 al 17, con dibattito e votazione. Se il governo e le forze popolari perdono, assume il comando la destra più neoliberista che c’è, formata dal Pmsdb, dal Psdb e dal peggio che abbiamo in politica. Temer e Cunha taglierebbero i diritti, privatizzerebbero il petrolio del pre-sal, le idroelettriche. Sarebbe il governo dei più corrotti. E questo può portare a una nuova ondata di proteste, perché la maggioranza delle persone che ha manifestato, compreso chi è sceso in piazza contro Dilma, è contro la corruzione che questi signori incarnano. Secondo un’indagine, i politici hanno una credibilità dello 0,01%. Anche la destra non è unita ed è toccata dalla crisi. In un paese di forti disuguaglianze, ereditate dal periodo coloniale e dallo schiavismo, l’1% della borghesia più ricca controlla il 58% dell’economia. C’è un potere economico, esercitato dalle imprese, dagli imprenditori più reazionari.
E abbiamo un 8% di piccola borghesia incarognita nei confronti dei poveri dai quali vuole sempre distinguersi. Siamo l’unico paese al mondo che ha ancora un ascensore diverso per i domestici e i cani. Un odio latente che covava nelle classi medie, è stato sdoganato dai grandi media. Un odio che è anche razzista, perché la maggioranza dei poveri, da noi, è composta da negri, afrodiscendenti, mulatti o indigena. Si comincia con l’umiliare nelle case la domestica negra, quella che, con il grembiule, spingeva il passeggino del figlio della coppia borghese alla manifestazione del 13 marzo contro il governo. Al mio indirizzo, gridano: «Comunista, invasore di terre, vattene a Cuba…»
Abbiamo poi un parlamento molto conservatore e staccato dalla sua base elettorale. E un nucleo ideologico più compatto, che sta orientando le altre forze della destra: quello formato dal Pubblico ministero, dal giudice Sergio Moro, associato alla Globo. I media sono controllati da questo nocciolo duro e vengono usati come principale arma contro i lavoratori e per attizzare il golpe istituzionale. Se il governo vince, ci sarà un nuovo gabinetto coordinato da Lula, che dovrà operare una riforma ministeriale che non spartisca gli incarichi di governo in base ai partiti, ma che rappresenti la società.
La conciliazione è finita. Dilma dovrà tornare al programma per cui è stata eletta, più attento ai settori popolari. In ogni modo, la crisi del modello continuerà, ma avremo tre anni per discutere di un altro progetto di paese. In ogni caso, maggio sarà un mese determinante.

LOTTA DI CLASSE NEI FAST FOOD

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da http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/16/fast-food-mal-pagati-e-senza-diritti-sciopero-mondiale-da-roma-a-new-york/987606/


Protesta globale dei lavoratori di McDonald's, Burger King, Starbucks. Negli Stati Uniti nell'ultimo anno scioperi e occupazioni in almeno 60 città. La Cgil: "In Italia? Altro che lavoro giovanile, ormai è un impiego stabile, l'età media aumenta e la maggior parte dei contratti sono part-time". E lo stato delle relazioni sindacali resta ancora molto duro

Fast food, “mal pagati e senza diritti”: sciopero mondiale, da Roma a New York

La protesta stavolta è davvero globale. Se ne ha la prova seguendo sul sito fastfoodglobal.org, che dà voce alla lotta internazionale dei lavoratori dei fast food, da McDonald’s a Burger King, la scansione delle varie proteste in tutto il mondo. Si vedono le foto dei lavoratori di Dublino seguire quelle provenienti da Buenos Aires. Quelle francesi, davanti a Starbucks, si sovrappongono alle foto davanti a Cherry Barry, catena di yogurt-bar. E poi Porto Seguro, in Brasile o Auckland in Nuova Zelanda.
L’idea è nata durante il primo meeting internazionale organizzato a New York dallo Iuf – International Union of Food – il 5 e 6 maggio scorsi, al quale hanno partecipato i rappresentanti sindacali dei lavoratori dei fast food di 33 paesi. La mobilitazione in Italia ci sarà oggi, 16 maggio, e vedrà cortei a Roma e a Milano.

Ma la spinta principale è venuta direttamente dal “centro dell’Impero”, dagli Stati Uniti. La vertenza che vede impegnati i lavoratori del fast food, a partire da McDonald’s, ha attraversato, nell’ultimo anno, almeno 60 città conscioperipicchetti eoccupazioni simboliche dei ristoranti. In parte per effetto del clima di “Occupy Wall Street” ma soprattutto per il peggioramento delle condizioni di lavoro negli Usa. La paga oraria del settore, infatti, è di 8,94 dollari e in quella somma va compreso l’intero welfare, a partire dall’assistenza sanitaria. Ma in molte città, come ad esempioNew York, si supera di poco il minimo legale orario che è 7,25 dollari l’ora contro la media nazionale che è di 18,30 dollari.
Per questo parole d’ordine per l’aumento del salario e per il diritto a organizzarsi sindacalmente hanno fatto sempre più presa fino ad arrivare alla siderale rivendicazione della Fightforfivteen, la lotta per i 15 dollari orari. Un modo per ribadire che i lavoratori del settore, ormai, non percepiscono più il proprio lavoro come precario o temporaneo ma come quello che gli darà da vivere per un periodo più o meno lungo.
Ad aiutare la vertenza, negli Usa, c’è stata la campagna per il rinnovo del sindaco di New York, che ha visto molti candidati impegnati a fianco dei manifestanti, che non sono certamente la maggioranza dei lavoratori dei fasto food, ma soprattutto la proposta del presidente Obama di portare il salario minimo legale a 9 dollari l’ora. Un modo per parlare alla comunità afro-americana e ispanica che rappresenta un bacino elettorale importante. In ogni caso, la miscela ha funzionato e l’effetto è stato quello di innescare la prima protesta globale.“La situazione in Italia – spiega al Fatto Cristian Sesena, della segreteriaFilcams – in parte è diversa ma in fondo è la stessa”. Da noi la paga oraria per un quarto livello, il più diffuso, è di7,6 euro l’ora. Bassa ma, paradossalmente, migliore di quella statunitense perché i nostri livelli di welfare garantiscono contributi previdenziali e sanità pubblica. Quello che equipara le condizioni a livello internazionale, però, è che lavorare da McDonald’s – colosso da 16mila dipendenti in una catena all’80% in franchising – non è più sinonimo di precarietà giovanile.L’età media aumenta e, conferma Sesena, “per molti diventa unimpiego stabile. Solo che la maggior parte dei contratti, a tempo indeterminato, è fatto da part-time da 20 ore. La precarietà resta la regola”. Molto duro, invece, è lo stato delle relazioni sindacali. La categoria, in cui si trovano McDonald’sAutogrill e altri, è rappresentata da Fipe-Confcommercio che ha annunciato ladisdetta del contratto nazionale. “Chiedono di abolire scatti, permessi e altre acquisizioni per finanziare eventuali aumenti. Altrimenti, è la minaccia, stracceranno il contratto e ricorreranno a un regolamento unilaterale”. Una sorta di “modello Marchionne” applicato ai fast-food. Oggi i lavoratori saranno in piazza a Roma (piazza della Repubblica), Milano (piazza della Scala), BolognaFirenze e altre città, insieme al settore del turismo, proprio per difendere il contratto nazionale, convinti che la protesta globale, questa volta, “è la strada più utile”.
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