da http://kaosreport.com/2016/03/04/hillary-clinton-e-femminista-chiedete-a-berta-caceres/

Scrivere è difficile quando ti ribollono le vene. Rischi di andare in confusione, di confondere le idee. Di aggrapparti a dati e concetti che servono unicamente a incanalare la tua rabbia, a confermare i tuoi giudizi. E poi ti risuonano nelle orecchie i latrati dei peggiori: i difensori dell’esistente, i mai sconfitti, i servi volontari che i tiranni vogliono con sé e ne compensano i favori. Proprio in questi momenti, scrivere è necessario.
Berta Cáceres era un’attivista indigena honduregna, di etnia lenca. Una donna forte e coraggiosa, che da anni sfidava apertamente il governo golpista che nel 2009 ha preso il potere nel suo Paese. Un golpe che Hillary Clinton, allora segretario di Stato americano, rese possibile. Cáceres non c’è più. È stata trovata morta il 2 marzo, crivellata da colpi di pistola, nella sua città natale di La Esperanza, nella regione di Intibuca. Aveva 43 anni.
Questa è una delle storie più terrificanti della politica americana recente, che pure non è avara di codardie e brutalità. Ma alcuni giornalisti l’hanno raccontato con estremo rigore, il golpe di honduregno, e bisogna dargliene hanno: Greg Grandin e Dana Frank per The Nation, innanzitutto, e poi Robert Naiman dell’Huffington Post, Mark Weisbrot di Al-Jazeera, Alex Main di CommonDreams, che analizzando le email di Clinton rese pubbliche grazie al Freedom of Information Act (che permette a qualsiasi cittadino di essere informato sulle attività del governo federale) rivelarono il suo ruolo centrale nel far fuori Manuel “Mel” Zelaya, il presidente deposto, e minare il movimento di opposizione che ne chiedeva la restaurazione. L’obiettivo degli Stati Uniti, evidente fin dall’inizio, era quello di impedire a Zelaya – che pure non era un politico immune da critiche – di portare avanti il suo progetto di riforme sul modello di Chavez, e avere una maggiore influenza su un Paese attraverso il quale passano immense quantità di cocaina. Il prezzo da pagare era l’alleanza con i peggiori sgherri del capitalismo centroamericano.
L’utopia liberista realizzata
Zelaya, racconta Grandin, aveva le sue radici nel tradizionale patriarcato rurale dell’Honduras, ma ciò non gli impedì di sostenere politiche che nel mondo accademico si definirebbero “insersezionali”, ovvero non esclusivamente vincolate dai confini ideologici e di classe: provò a rendere la pillola del giorno dopo legale, a sostenere i diritti dei gay e dei trans (in un Paese religiosissimo), a chiedere scusa per una storia di “pulizia sociale” che in Honduras aveva significato il rapimento, il pestaggio e l’uccisione senza alcun processo di centinaia di gang e ninos de la calle, da parte dei suoi precessori. Zelaya, rappresentando il contado rurale e i movimenti indigeni, proprio come quello guidato da Cáceres, stava lentamente cercando di usare il potere dello Stato per rigirare il tavolo dalla parte dei dispossessati.
Cacciato Zelaya, il congresso golpista legittimato da Hillary Clinton approvò in tutta fretta un “divieto assoluto sui contraccettivi di emergenza”, anche in caso di stupro o pericolo di vita per la madre, “e la vendita, distribuzione ed uso della pillola”, imponendo una punizione per chi contravveniva pari a quella per chi ricorreva all’aborto, che in Honduras è severamente vietato. Significativamente, la prima vittima del regime fu Vicky Hernandez Castillo, un’attivista transgender che il giorno dopo il golpe fu trovata strangolata e con l’orbita occipitale sfondata da un proiettile. Sentidog, un gruppo di monitoraggio dei gruppi LGBT, scrive che 168 di questi sono stati uccisi in Honduras tra il golpe e il 2014. L’assalto sui più deboli è stato totale e sistematico: tortura, assassinii mirati, militarizzazione delle campagne, leggi repressive, l’ascesa di un apparato di sicurezza spietato. E soprattutto la concessione indecente di vastissime aree di territorio agli sfruttatori transnazionali.
Mi racconta lo scrittore Pino Cacucci:
L’espressione “Repubblica delle banane” fu coniata proprio per questo Paese, da un secolo e mezzo condannato a fare da riserva bananiera delle multinazionali, come la famosa United Fruit. Berta lottava contro quelli che hanno impedito all’Honduras di diventare una democrazia e di cessare di essere soltanto la sede di una delle più grandi basi militari USA in America Latina, Palmerola, nonché “cortile di casa”, secondo la cosiddetta Dottrina Monroe. Se all’Honduras non fosse stato impedito di seguire il cammino verso la legalità e l’autodeterminazione, rovesciandone il governo legittimamente eletto, difficilmente Berta e altri come lei verrebbero assassinati: l’impunità è totale, i sicari degli interessi oligarchici agiscono indisturbati grazie a forze dell’ordine corrotte di un governo corrotto. Ora l’Honduras è tornato la repubblica delle banane di un tempo.
Incubo repressivo per molti, utopia realizzata per altri: in questa storia c’è finito il co-fondatore di PayPal, Peter Thiel, che voleva fare dell’Honduras l’Anno Zerodi una nuova società senza Stato, con il nipote di Milton Friedman (padre nobile del neoliberismo e della “scuola di Chicago”) a dargli manforte. (Guardate quest’eccellente documentario di Jesse Freeston sull’argomento).
Questa era la natura del governo di “unità nazionale” che Clinton ha contribuito ad istituzionalizzare. Nella sua autobiografia, piena di menzogne dalla prima all’ultima pagina (tra cui la storia che lei e il marito erano “poveri in canna” dopo aver lasciato la Casa Bianca nel 2000) Clinton però ci concede un momento di verità: quando difende la scelta di sostenere il governo golpista di Roberto Micheletti Baín come un esempio della sua lucidità strategica, del suo approccio “pragmatico” alla politica estera.
Berta Cáceres ha sacrificato la sua vita per combattere quel pragmatismo. Era il coordinatore generale del COPINH (Consiglio Civico delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras), un gruppo che ha visto alcuni dei suoi leader uccisi uno dopo l’altro. L’anno scorso Cáceres era stata insignita del prestigioso Goldman Environmental Prize per il suo impegno ad opporsi ad un progetto di costruzione di un’enorme diga. Tra le motivazioni del premio, silegge:
Il 28 giugno del 2009 Micheletti, dello stesso partito di Zelaya, scavalcò il suo predecessore democraticamente eletto, e prese il controllo del Congresso. Qualche giorno dopo, i militari e gli amici golpisti di Micheletti sostennero che la Corte Suprema honduregna aveva ordinato l’arresto di Zelaya per aver “violato la Costituzione”. Non era vero, ma Zelaya fu mandato in esilio anziché in carcere. L’Organizzazione degli Stati Americani, l’Unione Europea e le Nazioni Unite condannarono l’accaduto. Fu subito chiaro a tutti che si trattava di un golpe.
A tutti, tranne che a Clinton. Secondo leggi ben precise del Congresso americano, gli Stati Uniti avrebbero dovuto sospendere immediatamente gli aiuti economici e militari ad un governo sospettato di golpe. Ma gli aiuti a Micheletti non si fermarono. La giustificazione, fornita dal Dipartimento di Stato il 25 agosto di quell’anno, fu che la situazione era ancora confusa, e i legali di Washington si stavano ancora districando nella matassa diplomatica.
Quella giustificazione era una bugia, e Clinton sapeva che era una bugia. Già il 24 luglio l’ambasciatore americano in Honduras aveva inviato un dispaccio a Washington nel quale si spiegava che “non c’erano dubbi” si trattasse di un “golpe illegale e istituzionale”. Il 7 agosto, 15 membri del Congresso del Partito Democratico chiesero al Dipartimento di Stato di sospendere gli aiuti ad un governo sostenuto da -ecco l’espressione usata-“un golpe militare”. L’attuale candidata alla Casa Bianca, e favorita numero uno secondo i sondaggi nel caso l’avversario dovesse essere Trump, fece orecchie da mercante.
Superpredatori
In un editoriale pubblicato due anni fa sul Washington Post, l’ex Segretario di Stato recensì in maniera entusiastica l’ultimo libro di Henry Kissinger, World Order, cogliendo l’occasione per illustrare al pubblico la sua visione per una “duratura leadership dell’America nel mondo”. Nello stesso articolo, Clinton ammise: “Kissinger è un amico, e io ho confidato sul suo consiglio quando ero il segretario di Stato”. I due sono profondamente intimi e simili, e non ne fanno mistero. In una nota scritta a mano, Kissinger una volta sussurrò a Clinton: “Ammiro enormemente l’abilità e l’aplomb con i quali porti avanti la nostra politica estera”.
Mi spiega in un’email Gennaro Carotenuto, giornalista italiano esperto di questioni latinoamericane:
L’omicidio di Berta Cáceres chiama in causa direttamente il ruolo dell’informazione monopolista. L’Honduras è un paese per noi remoto, ma non marginale. Dal colpo di Stato trattato come una burletta, celebrando perfino il dittatore “bergamasco” Micheletti, la luce si è spenta su un regime e un movimento democratico, popolare, indigeno e ambientale, del quale Berta era una delle figure visibili, massacrato dall’azione del terrorismo di Stato e che conta tristemente centinaia di vittime, inclusi decine di giornalisti e sindacalisti. Il silenzio totale su questa storia risponde a una logica nella quale la grande stampa, sempre pronta a fare le pulci, quando non apertamente a diffamare i governi progressisti latinoamericani, dei quali quello di Zelaya era parte, non ha mai scritto nulla per precisi interessi economici.
L’idea che il probabile presidente americano prossimo venturo sia inspirato e consigliato da un noto criminale di guerra responsabile di milioni di morti, che ha incontrato dei nazisti che volevano debellare il governo di sinistra della Germania Ovest, che tentò di diventare amico dei Khmer Rossi in fuzione anti-vietcong, che ha sostenuto diverse dittature fasciste in America Latina e la destituzione di Allende in Cile sembra non turbare più di tanto la stampa italiana. La profonda aggressività di Clinton in politica estera, la sua determinazione nel ristabilire il primato dell’America nel mondo è anzi il motivo per cui i liberal nostrani (Il Foglio, Corriere) e i progressisti moderati (Stampa, Repubblica, L’Unità) fanno il tifo per lei. E tra le firme di prestigio, in Italia come gli Stati Uniti, sembra ancora forte il filone che vede Hillary come un candidato “femminista”: è donna, dunque è il suo turno. È donna, dunque farà bene ad altre donne.
Chiedetelo a Berta Cáceres. Chiedetelo alle vittime di una politica estera scellerata e controproducente. La verità è che Clinton non ha fatto altro che restare coerente con il personaggio che si è costruita negli ultimi vent’anni: da quando attaccava in pubblico le vittime delle aggressioni sessuali del marito per distruggerne la reputazione; da quando sedeva nel cda di Walmart, che paga le lavoratrici il 30% in meno dei maschi, e non fiatava; da quando chiamava le madri single “fannullone” e i criminali afroamericani “superpredatori“, per suscitare l’approvazione dell’elettorato bianco; da quando viaggiava in prima classe col marito per assistere all’esecuzione di un condannato disabile in Arkansas, e vincere le primarie. La posizione di Clinton sull’America Latina è solo un altro esempio di quanto sproporzionata sia l’influenza della cultura di destra e imperialista sulla politica estera americana – ma c’è, ovviamente, tutto un settore della stampa che s’impegna a far passare questo per Illuminismo.
Fenomeni come Sanders, legato all’internazionalismo socialista, da un lato, e Trump, legato all’isolazionismo populista, dall’altro, sono visti come una stortura storica di quest’epoca. Chi appoggia Hillary può chiamarli forse irresponsabili, o irrealistici. Ma non ha il diritto di chiamarli immorali. Oppure estremisti. E la storia di Cáceres sarà, temo, l’ennesimo orrore nei confronti del quale i propellenti pseudo-femministi di Clinton si tapperanno le orecchie e chiuderanno gli occhi.