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OMAGGIO A BERTA CACERES

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da http://kaosreport.com/2016/03/04/hillary-clinton-e-femminista-chiedete-a-berta-caceres/




bertacaceres
Berta Cáceres (Goldman Environmental Prize)

Scrivere è difficile quando ti ribollono le vene. Rischi di andare in confusione, di confondere le idee. Di aggrapparti a dati e concetti che servono unicamente a incanalare la tua rabbia, a confermare i tuoi giudizi. E poi ti risuonano nelle orecchie i latrati dei peggiori: i difensori dell’esistente, i mai sconfitti, i servi volontari che i tiranni vogliono con sé e ne compensano i favori. Proprio in questi momenti, scrivere è necessario.
Berta Cáceres era un’attivista indigena honduregna, di etnia lenca. Una donna forte e coraggiosa, che da anni sfidava apertamente il governo golpista che nel 2009 ha preso il potere nel suo Paese. Un golpe che Hillary Clinton, allora segretario di Stato americano, rese possibile. Cáceres  non c’è più. È stata trovata morta il 2 marzo, crivellata da colpi di pistola, nella sua città natale di La Esperanza, nella regione di Intibuca. Aveva 43 anni.
Questa è una delle storie più terrificanti della politica americana recente, che pure non è avara di codardie e brutalità. Ma alcuni giornalisti l’hanno raccontato con estremo rigore, il golpe di honduregno, e bisogna dargliene hanno:  Greg Grandin e Dana Frank per The Nation, innanzitutto, e poi Robert Naiman dell’Huffington Post, Mark Weisbrot di Al-Jazeera, Alex Main di CommonDreams, che analizzando le email di Clinton rese pubbliche grazie al Freedom of Information Act (che permette a qualsiasi cittadino di essere informato sulle attività del governo federale) rivelarono il suo ruolo centrale nel far fuori Manuel “Mel” Zelaya, il presidente deposto, e minare il movimento di opposizione che ne chiedeva la restaurazione. L’obiettivo degli Stati Uniti, evidente fin dall’inizio, era quello di impedire a Zelaya – che pure non era un politico immune da critiche – di portare avanti il suo progetto di riforme sul modello di Chavez, e avere una maggiore influenza su un Paese attraverso il quale passano immense quantità di cocaina. Il prezzo da pagare era l’alleanza con i peggiori sgherri del capitalismo centroamericano.
L’utopia liberista realizzata
Zelaya, racconta Grandin, aveva le sue radici nel tradizionale patriarcato rurale dell’Honduras, ma ciò non gli impedì di sostenere politiche che nel mondo accademico si definirebbero “insersezionali”, ovvero non esclusivamente vincolate dai confini ideologici e di classe: provò a rendere la pillola del giorno dopo legale, a sostenere i diritti dei gay e dei trans (in un Paese religiosissimo), a chiedere scusa per una storia di “pulizia sociale” che in Honduras aveva significato il rapimento, il pestaggio e l’uccisione senza alcun processo di centinaia di gang e ninos de la calle, da parte dei suoi precessori. Zelaya, rappresentando il contado rurale e i movimenti indigeni, proprio come quello guidato da Cáceres, stava lentamente cercando di usare il potere dello Stato per rigirare il tavolo dalla parte dei dispossessati.
Cacciato Zelaya, il congresso golpista legittimato da Hillary Clinton approvò in tutta fretta un “divieto assoluto sui contraccettivi di emergenza”, anche in caso di stupro o pericolo di vita per la madre, “e la vendita, distribuzione ed uso della pillola”, imponendo una punizione per chi contravveniva pari a quella per chi ricorreva all’aborto, che in Honduras è severamente vietato. Significativamente, la prima vittima del regime fu Vicky Hernandez Castillo, un’attivista transgender che il giorno dopo il golpe fu trovata strangolata e con l’orbita occipitale sfondata da un proiettile. Sentidog, un gruppo di monitoraggio dei gruppi LGBT, scrive che 168 di questi sono stati uccisi in Honduras tra il golpe e il 2014. L’assalto sui più deboli è stato totale e sistematico: tortura, assassinii mirati, militarizzazione delle campagne, leggi repressive, l’ascesa di un apparato di sicurezza spietato. E soprattutto la concessione indecente di vastissime aree di territorio agli sfruttatori transnazionali.
Mi racconta lo scrittore Pino Cacucci:
L’espressione “Repubblica delle banane” fu coniata proprio per questo Paese, da un secolo e mezzo condannato a fare da riserva bananiera delle multinazionali, come la famosa United Fruit. Berta lottava contro quelli che hanno impedito all’Honduras di diventare una democrazia e di cessare di essere soltanto la sede di una delle più grandi basi militari USA in America Latina, Palmerola, nonché “cortile di casa”, secondo la cosiddetta Dottrina Monroe. Se all’Honduras non fosse stato impedito di seguire il cammino verso la legalità e l’autodeterminazione, rovesciandone il governo legittimamente eletto, difficilmente Berta e altri come lei verrebbero assassinati: l’impunità è totale, i sicari degli interessi oligarchici agiscono indisturbati grazie a forze dell’ordine corrotte di un governo corrotto. Ora l’Honduras è tornato la repubblica delle banane di un tempo.
Incubo repressivo per molti, utopia realizzata per altri: in questa storia c’è finito il co-fondatore di PayPal, Peter Thiel, che voleva fare dell’Honduras l’Anno Zerodi una nuova società senza Stato, con il nipote di Milton Friedman (padre nobile del neoliberismo e della “scuola di Chicago”) a dargli manforte. (Guardate quest’eccellente documentario di Jesse Freeston sull’argomento).
Questa era la natura del governo di “unità nazionale” che Clinton ha contribuito ad istituzionalizzare. Nella sua autobiografia, piena di menzogne dalla prima all’ultima pagina (tra cui la storia che lei e il marito erano “poveri in canna” dopo aver lasciato la Casa Bianca nel 2000) Clinton però ci concede un momento di verità: quando difende la scelta di sostenere il governo golpista di Roberto Micheletti Baín come un esempio della sua lucidità strategica, del suo approccio “pragmatico” alla politica estera.
Berta Cáceres ha sacrificato la sua vita per combattere quel pragmatismo. Era il coordinatore generale del COPINH (Consiglio Civico delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras), un gruppo che ha visto alcuni dei suoi leader uccisi uno dopo l’altro. L’anno scorso Cáceres era stata insignita del prestigioso Goldman Environmental Prize per il suo impegno ad opporsi ad un progetto di costruzione di un’enorme diga. Tra le motivazioni del premio, silegge:
“In Honduras si è assistito ad un’esplosione di megaprogetti distruttivi per l’ambiente che hanno costretto le comunità indigene alla fuga. Quasi il 30% del territorio nazionale è stato svenduto per concessioni minerarie, con il risultato di creare un’enorme domanda di energia a basso prezzo per alimentare le future attività di estrazione”. 
Il 28 giugno del 2009 Micheletti, dello stesso partito di Zelaya, scavalcò il suo predecessore democraticamente eletto, e prese il controllo del Congresso. Qualche giorno dopo, i militari e gli amici golpisti di Micheletti sostennero che la Corte Suprema honduregna aveva ordinato l’arresto di Zelaya per aver “violato la Costituzione”. Non era vero, ma Zelaya fu mandato in esilio anziché in carcere. L’Organizzazione degli Stati Americani, l’Unione Europea e le Nazioni Unite condannarono l’accaduto. Fu subito chiaro a tutti che si trattava di un golpe.
A tutti, tranne che a Clinton. Secondo leggi ben precise del Congresso americano, gli Stati Uniti avrebbero dovuto sospendere immediatamente gli aiuti economici e militari ad un governo sospettato di golpe. Ma gli aiuti a Micheletti non si fermarono. La giustificazione, fornita dal Dipartimento di Stato il 25 agosto di quell’anno, fu che la situazione era ancora confusa, e i legali di Washington si stavano ancora districando nella matassa diplomatica.
Quella giustificazione era una bugia, e Clinton sapeva che era una bugia. Già il 24 luglio l’ambasciatore americano in Honduras aveva inviato un dispaccio a Washington nel quale si spiegava che “non c’erano dubbi” si trattasse di un “golpe illegale e istituzionale”. Il 7 agosto, 15 membri del Congresso del Partito Democratico chiesero al Dipartimento di Stato di sospendere gli aiuti ad un governo sostenuto da -ecco l’espressione usata-“un golpe militare”. L’attuale candidata alla Casa Bianca, e favorita numero uno secondo i sondaggi nel caso l’avversario dovesse essere Trump, fece orecchie da mercante.
Superpredatori
In un editoriale pubblicato due anni fa sul Washington Post, l’ex Segretario di Stato recensì in maniera entusiastica l’ultimo libro di Henry Kissinger, World Order, cogliendo l’occasione per illustrare al pubblico la sua visione per una “duratura leadership dell’America nel mondo”. Nello stesso articolo, Clinton ammise: “Kissinger è un amico, e io ho confidato sul suo consiglio quando ero il segretario di Stato”. I due sono profondamente intimi e simili, e non ne fanno mistero. In una nota scritta a mano, Kissinger una volta sussurrò a Clinton: “Ammiro enormemente l’abilità e l’aplomb con i quali porti avanti la nostra politica estera”.
Mi spiega in un’email Gennaro Carotenuto, giornalista italiano esperto di questioni latinoamericane:
L’omicidio di Berta Cáceres chiama in causa direttamente il ruolo dell’informazione monopolista. L’Honduras è un paese per noi remoto, ma non marginale. Dal colpo di Stato trattato come una burletta, celebrando perfino il dittatore “bergamasco” Micheletti, la luce si è spenta su un regime e un movimento democratico, popolare, indigeno e ambientale, del quale Berta era una delle figure visibili, massacrato dall’azione del terrorismo di Stato e che conta tristemente centinaia di vittime, inclusi decine di giornalisti e sindacalisti. Il silenzio totale su questa storia risponde a una logica nella quale la grande stampa, sempre pronta a fare le pulci, quando non apertamente a diffamare i governi progressisti latinoamericani, dei quali quello di Zelaya era parte, non ha mai scritto nulla per precisi interessi economici.
L’idea che il probabile presidente americano prossimo venturo sia inspirato e consigliato da un noto criminale di guerra responsabile di milioni di morti, che ha incontrato dei nazisti che volevano debellare il governo di sinistra della Germania Ovest, che tentò di diventare amico dei Khmer Rossi in fuzione anti-vietcong, che ha sostenuto diverse dittature fasciste in America Latina e la destituzione di Allende in Cile sembra non turbare più di tanto la stampa italiana. La profonda aggressività di Clinton in  politica estera, la sua determinazione nel ristabilire il primato dell’America nel mondo è anzi il motivo per cui i liberal nostrani (Il FoglioCorriere) e i progressisti moderati (StampaRepubblicaL’Unità) fanno il tifo per lei. E tra le firme di prestigio, in Italia come gli Stati Uniti, sembra ancora forte il filone che vede Hillary come un candidato “femminista”: è donna, dunque è il suo turno. È donna, dunque farà bene ad altre donne.
Chiedetelo a Berta Cáceres. Chiedetelo alle vittime di una politica estera scellerata e controproducente. La verità è che Clinton non ha fatto altro che restare coerente con il personaggio che si è costruita negli ultimi vent’anni: da quando attaccava in pubblico le vittime delle aggressioni sessuali del marito per distruggerne la reputazione; da quando sedeva nel cda di Walmart, che paga le lavoratrici il 30% in meno dei maschi, e non fiatava; da quando chiamava le madri single “fannullone” e i criminali afroamericani “superpredatori“, per suscitare l’approvazione dell’elettorato bianco; da quando viaggiava in prima classe col marito per assistere all’esecuzione di un condannato disabile in Arkansas, e vincere le primarie. La posizione di Clinton sull’America Latina è solo un altro esempio di quanto sproporzionata sia l’influenza della cultura di destra e imperialista sulla politica estera americana – ma c’è, ovviamente, tutto un settore della stampa che s’impegna a far passare questo per Illuminismo.
Fenomeni come Sanders, legato all’internazionalismo socialista, da un lato, e Trump, legato all’isolazionismo populista, dall’altro, sono visti come una stortura storica di quest’epoca.  Chi appoggia Hillary può chiamarli forse irresponsabili, o irrealistici. Ma non ha il diritto di chiamarli immorali. Oppure estremisti. E la storia di Cáceres sarà, temo, l’ennesimo orrore nei confronti del quale i propellenti pseudo-femministi di Clinton si tapperanno le orecchie e chiuderanno gli occhi.

IL POPOLO DEI VOUCHER

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Questo articolo, come capita molto spesso ai non marxisti quando usano concetti ripresi dal Barbuto di Treviri, contiene qualche concetto platealmente sbagliato, primo fra tutti il concetto di 'classe' per inquadrare tutti i lavoratori pagati a voucher, insieme ad altri che, se non errati nella teoria, sono piuttosto discutibili.
Ma stiamo parlando de L'Espresso -e non de Il Manifesto, che, seppur sedicente comunista, ne contiene anche di peggiori- per cui ci rendiamo conto che la cosa interessante è la radiografia precisa del fenomeno-voucher che qua secondo noi è molto ben fatta; anzi, andando all'articolo, si trovano altri link e grafici che qua non è stato possibile riprodurre.



da http://espresso.repubblica.it/inchieste/2016/03/04/news/professione-voucher-1.252734

Operai, postini, professori, camerieri: i nuovi schiavi lavorano a voucher

Una volta c’erano l’operaio, la guardia notturna, l’autista, il postino, il cameriere, l’idraulico, l’insegnante, il professore universitario. La nostra identità dipendeva anche dal ruolo che il lavoro ci assegnava nella società. Oggi tutte queste professioni, e molte altre ancora, possono essere riassunte in un unico mestiere: il voucherista. Essersi fermati alla terza media, come Andrea P., 49 anni, o avere tre lauree come Marco Traversari, 52 anni,docente universitario, per il moderno datore di lavoro forgiato dalla crisi e dalla retorica della quarta rivoluzione industriale non fa nessuna differenza.

Sia Andrea, parcheggiatore notturno a chiamata, sia il professor Traversari valgono 7 euro e 50 centesimi di paga netta l’ora, più un euro e trenta di contributi pensionistici all’Inps, settanta centesimi di assicurazione antinfortunistica all’Inail e cinquanta centesimi di gestione del servizio. Fanno dieci euro tondi tondi: cioè, il costo orario lordo del lavoro nell’Italia che fa scappare i cervelli e tratta chi resta allo stesso modo, dal disoccupato a vita ai proletari della conoscenza.

È nata così una nuova classe sociale: il popolo dei voucher, dei buoni-lavoro, degli italiani pagati con uno strumento inventato per gli impieghi saltuari nell’agricoltura e le ripetizioni del doposcuola. Ma oggi esteso a tutti i settori. Un ulteriore contributo della legge all’aumento dei working-poor: i nuovi poveri che, nonostante lavorino, vivono appena sopra il limite di sussistenza, o addirittura al di sotto. Il voucherista non ha infatti diritto a riposi o a ferie pagate. E questo, nel clima di cinesizzazione sociale che stiamo vivendo, potrebbe essere visto come un inutile privilegio.

Ma non ha diritto ad ammalarsi, a curarsi, a maternità o paternità, a ottenere un mutuo per la casa, al congedo matrimoniale, al permesso per accudire i figli malati. Cioè a tutta quella serie di conquiste civili che finora hanno fatto la differenza tra un cittadino dell’Europa occidentale e un operaio-suddito dei regimi orientali. Perché al di fuori dei pochi centimetri quadrati del voucher e delle relative ore pagate, il rapporto di lavoro e lo stesso lavoratore cessano di esistere.

Pochi giorni fa l’Inps ha confermato il boom anche per il 2015:115 milioni di buoni-lavoro staccati da gennaio a dicembre, contro i 69 milioni del 2014 e i 36 milioni del 2013. Un aumento nazionale del 67,5 per cento in dodici mesi con punte del 97,4 per cento in Sicilia, dell’85 in Liguria, dell’83 in Puglia e in Abruzzo, del 79 in Lombardia. La nuova classe sociale coinvolge già più di un milione e mezzo di lavoratori, due terzi dei quali al Nord. Metà uomini e metà donne. E l’età media è in continua diminuzione: 60 anni gli uomini e 56 le donne nel 2008, anno di introduzione dei buoni-lavoro; 44 e 36 anni nel 2011; 37 e 34 anni oggi.

Anche l’età conferma la trasformazione da rimedio estemporaneo per arrotondare la pensione o gli ultimi anni di attività, a retribuzione vera e propria. Nel 2015 i datori di lavoro (imprese, commercianti, famiglie) hanno acquistato voucher per un miliardo e centocinquanta milioni di euro, che hanno generato contributi per quasi 150 milioni all’Inps, per 80 milioni all’Inail e compensi ai lavoratori per 862 milioni e 500 mila euro, oltre a 57 milioni in commissioni burocratiche.

La crisi economica fa sicuramente la sua parte. Spinge gli imprenditori a tagliare i costi e a impiegare i dipendenti a ore o a giornata, soltanto quando servono. E mette anche a disposizione una massa di disoccupati, cassintegrati,esodati, mobilitati, licenziati costretti a svolgere più lavori saltuari per raccogliere qualcosa che assomigli alle briciole di una paga. È un po’ come il junk-food, il cibo spazzatura: si mangia quello che capita. Qui siamo al junk-job: si accetta quello che passa.

Non sempre, ovviamente, il giudizio è negativo. Per gli studenti superiori e universitari i buoni sono una risorsa contro il lavoro nero o l’apertura di costose partite Iva: permettono infatti di lavorare in regola in bar, ristoranti, negozi e uffici per mantenersi parte degli studi. Nella stessa categoria deglistudenti, rientrano quanti arrotondano grazie ai voucher uno o più stipendi part-time. Il lavoro accessorio tra l’altro non va dichiarato al fisco. Ma sono gli unici a dirsi completamente soddisfatti.

La seconda categoria di voucheristi comprende quanti integrano in questo modo la magra pensione di anzianità. Oppure il salario di disoccupazione. E per le persone in mobilità sopra i quarantacinque anni la condizione di voucherista diventa una condanna permanente al sottoprecariato: perché l’istituzione dei buoni-lavoro offre ai datori la possibilità di non stabilizzare mai i loro dipendenti.

La terza categoria raccoglie gli ex contratti a progetto, ora in gran parte aboliti, e le finte partite Iva, settore crollato del dieci per cento nel 2015. E loro stanno addirittura peggio: è la situazione di migliaia di collaboratori, educatori, addetti di cooperative sociali e piccole società a responsabilità limitata che da qualche mese devono accettare stipendi in minima parte pagati con i buoni. Il resto in nero.
L’uso di voucher sta dando corpo anche a due categorie di datori di lavoro: quelli che rispettano la norma e trasformano il rapporto accessorio in contratto non appena l’impiego diventa stabile e quanti continuano a suddividereillegalmente l’impiego stabile in più rapporti accessori. Soltanto due limiti economici imposti dalla legge impediscono al momento una diffusione più massiccia dei voucheristi, auspicata da un’ampia scuola di giuslavoristi rappresentata anche dall’ex ministro nel governo Berlusconi, Maurizio Sacconi.

Sono la barriera di settemila euro netti del compenso complessivo annuo in buoni che un lavoratore non può superare e di 2.020 euro all’anno pagati da ogni singolo committente. La terza condizione, cioè il vincolo che si tratti di lavoro accessorio, viene già aggirata da tempo. Soprattutto dove 
i voucher hanno avuto successo nel coprire il lavoro nero.
UN ALIBI PER EVITARE GUAI
Ecco cosa accade in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, regioni in cui l’impiego di voucheristi ha registrato un aumento del 57,4 e del 40,1 per cento nell’ultimo anno. I buoni-lavoro hanno polverizzato i contratti part-time e stagionali nell’agricoltura. E oggi anche nelle campagne raccontate nel primo romanzo di Pier Paolo Pasolini “Il sogno di una cosa”, grazie ai voucher si ricorre largamente allavoro nero. La raccolta della frutta e la vendemmia in Friuli durante l’estate e l’autunno 2015 hanno consolidato il rapporto tra la parte dello stipendio pagata in buoni e la parte illegale. È di uno a trenta: 37,50 euro al mese in voucher e 1.062,50 in contante per un massimo mensile di millecento euro. Ovviamente, soltanto per le settimane lavorate. Se piove o la raccolta termina, si va a casa senza paga. Fanno comunque più o meno 40 euro al giorno: un ottimo compenso rispetto ai 25-30 euro pagati, quando va bene, dai caporali in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania.

Ma che senso ha staccare 37 euro e 50 al mese in buoni-lavoro su un totale di millecento euro? Sono il valore netto di appena cinque voucher: «Certo», risponde Paolo F., 53 anni, ex operaio in un’impresa subappaltatrice di Fincantieri aMonfalcone e oggi bracciante a chiamata: «E sono l’alibi per evitare guai con l’ispettorato. È la prima informazione che ti danno sui campi: “Se viene un controllo, dite che è il primo giorno che fate qui”. Il voucher serve a questo: a coprire l’eventuale verifica o l’eventuale infortunio. Alla raccolta della frutta quest’anno eravamo in novanta.

Un po’ di tutto: padri di famiglia come me, cinquantenni in mobilità da anni, donne senza lavoro, qualche romeno. Tutti pagati 37 euro e 50 invoucher al mese e il resto cash. Fanno oltre novantamila euro al mese di nero che l’azienda tira fuori per pagare il personale. Per obbligarli a versare i contributi,basterebbe verificare il lavoro eseguito. Come è possibile raccogliere tonnellate di frutta per i supermercati lavorando soltanto le cinque ore al mese retribuite dai voucher? Inutile aggiungere che di controlli non ne abbiamo mai visti». Perché non vuole sia rivelato il suo cognome? «Perché devo lavorare. I voucher hanno cancellato le ultime tutele sindacali: se parli, come minimo non ti chiamano più».
Una norma, introdotta dopo l’inchiesta de “l’Espresso” sul caporalato nella raccolta dei pomodori, impone che i contratti siano registrati un giorno prima del loro inizio. Con i voucher basta un minuto prima: magari lo stesso momento in cui avviene un incidente. «Sappiamo di imprenditori che una volta passato il nostro controllo hanno disattivato il voucher», rivelano i carabinieri del Nucleo di tutela del lavoro in Lombardia: «Lo sappiamo in via confidenziale. L’Inps non ha nessuna banca dati sulle disattivazioni. Il trucco è attivare il voucher tutti i giorni per una sola ora. E magari disattivarlo a fine giornata. Per noi diventa impossibile contestare il lavoro nero.Dall’evasione totale dei contributi si passa all’elusione e le sanzioni si riducono. Dovremmo insomma impiegare uomini e risorse dello Stato per recuperare cifre irrisorie che non giustificano il costo».

EDUCATORE E FATTORINO

Basta il confronto con la cedola di una busta paga tradizionale per misurare la smaterializzazione del rapporto di lavoro che il voucher ha garantito. Questo è quanto riporta la busta: ragione sociale dell’azienda, nome e cognome del dipendente, data di nascita, data di assunzione, scatti di anzianità, luogo di lavoro, mansione, figli a carico, ferie, permessi, Tfr, versamenti Inps e Inail. E questo è quanto viene richiesto dal voucher: periodo prestazione, codice fiscale datore di lavoro, codice fiscale lavoratore, firma lavoratore. Fine.
Aldo Furini, 55 anni, gestisce con la sorella Silvia la trattoria “Il Santuario” a Rovello Porro, provincia di Como. Pranzo a prezzo fisso a dodici euro durante la settimana e pizzeria-birreria il venerdì e il sabato sera. Molte fabbriche svuotate dalla delocalizzazione. La concorrenza delle mense aziendali. «Tutta la settimana bastiamo noi», racconta Furini, «venerdì e sabato, se abbiamo prenotazioni o prevediamo movimento, chiamiamo i ragazzi. Sono tutti studenti. A volte qualcuno non può o è malato, allora si continua il giro di telefonate finché la necessità è coperta. Li paghiamo tutti con i voucher. Lo Stato ha la grande convenienza. Prende i soldi in anticipo all’acquisto dei buoni e si tiene il venticinque per cento. È un vantaggio anche per l’Inps, visto che per la crisi molte aziende non pagano più i contributi». Mai pensato di stabilizzare uno o due camerieri? «Vorremmo assumere un dipendente a contratto. Ma le spese sono insopportabili. Soltanto per tenere la contabilità della busta paga, la Camera di commercio ci chiede milleduecento euro all’anno per persona. Più di uno stipendio mensile. Noi non ci stiamo dentro».

Non per tutti la roulette gira così male. Simone Regio, 39 anni, è soddisfatto. Grazie ai voucher può arrotondare i milleseicento euro netti di due contratti part-time: educatore in un centro di riabilitazione psichiatrica e in un’associazione privata. Il terzo lavoro di voucherista è sui pedali: corriere porta a porta in bicicletta per la “Ubm - Urban bike messengers” di Milano, la più grande società del settore in Italia. Il suo collega, Simone Gambarin, dai buoni-lavoro è passato al contratto a tempo indeterminato sempre con “Ubm”. E a 36 anni può finalmente permettersi la sua prima casa in affitto. «Per noi i voucher sono stati una soluzione», spiegaGianni Fiammengo, proprietario di Ubm, «per tutte quelle persone che lavorano saltuariamente e che così sono pienamente coperte da contratto, assicurazione e Inps. Ora i voucher li utilizziamo poco perché gli sgravi fiscali ci hanno permesso di assumere quattordici corrieri full-time. I buoni li usiamo per i pochi part-time rimasti. Nel frattempo l’azienda si è ingrandita».


SE NON SAI PIÙ CHI SEI

Marco Traversari è docente nel laboratorio di Antropologia e lavoro del corso di laurea magistrale in Antropologia dell’Università di Milano Bicocca. Insegna anche Antropologia culturale in un liceo di Brescia. È laureato in scienze politiche, antropologia e filosofia ed è autore di libri e manuali scolastici. I due contratti part-time da docente coprono solo il settanta per cento del suo fabbisogno per vivere. Per il rimanente trenta per cento, Traversari deve impegnarsi inconsulenze culturali, corsi di formazione, partecipazione a conferenze. E in tutto questo è pagato in voucher. «Nel 2015 i buoni-lavoro hanno spazzato via tutto quello che esisteva: contratti, cococo, cocopro, finte partite Iva, ritenute d’acconto. Dove la pubblica amministrazione ha appaltato i servizi», spiega, «lì le cooperative ora pagano solo in voucher»
Ma il cambiamento va oltre l’eliminazione del contratto. I voucher sono la cifra della trasformazione culturale che stiamo vivendo. In gioco c’è il ruolo sociale di ciascuno: in sociologia, il ruolo è costituito dalle aspettative che gli altri hanno del tuo status sociale. Nel voucher il ruolo èindifferenziato. In questo il voucher è l’emblema del postfordismo: è l’espressione della smaterializzazione del lavoro come costruzione della propria identità stabile.

Freud però ci insegna che l’identità psicologica stabile deriva dall’equilibrio tra eros e lavoro. Nel momento in cui il lavoro diventa instabile, flessibile, smaterializzato anche l’identità psicologica diventa fluida, instabile». Dove porta tutto questo? «Al problema di non sapere chi sei. Allora diventa potente la necessità di un’identità nazionalistica o religiosa. E lo vediamo in quello che sta succedendo in Europa. Gli studenti comunque vogliono i voucher: chi fa lavori di pochi mesi, trova giusto essere pagato in voucher. La flessibilità è parola che loro mettono in pratica».
L’identità di Andrea P.,parcheggiatore notturno a Milano, è flessibile da quando ha perso il lavoro di carrozziere. E poi il contratto di autista. Lui ha cercato di nascondere il dramma alla moglie e ai due figli. Per portarli in vacanza, ha speso i duemila euro di risparmio dei ragazzi. Ma quando la moglie lo ha scoperto, l’ha cacciato di casa. Ora Andrea, a quasi cinquant’anni, è tornato a vivere con la mamma, vedova e pensionata. La madre, immigrata pugliese nella Milano del boom economico, non sa che il figlio è un voucherista: 400-500 euro al mese in buoni da marzo a settembre nella stagione dei concerti.


Sorveglia le auto del pubblico oppure controlla i biglietti ai tornelli quando a San Siro e nelle discoteche arrivano i grandi nomi della musica italiana e mondiale. Ma di tutto lo spettacolo, Andrea prende soltanto le briciole: «Da settembre a marzo faccio la fame», confessa, «non ho però il coraggio di dirlo a mia madre. Allora mi alzo la mattina alle 6,30, mi lavo e mi vesto. E fingo di andare a lavorare». Il nascondiglio, l’ultimo rifugio stabile sono i tre metri per uno e mezzo della cantina, un finto tappeto di nylon sul cemento, un piumone bianco per scaldarsi, lo scaffale vuoto alla parete, due maglie in cashmere della vita che fu appese a un angolo. Andrea ascolta la radio, dorme, pensa. Fino alle due del pomeriggio, quando esce dal sotterraneo e finge di tornare dal lavoro. La prima volta che l’hanno pagato in voucher, l’hanno perfino fregato. L’impresario di quel periodo gli ha dato buoni per 400 euro. Ma quando il parcheggiatore è andato a riscuoterli dal tabaccaio e poi all’Inps, gli hanno detto che erano stati disattivati. Andrea sorride amaro: «Ho scoperto così che anche il buono non era buono».


LOTTA DI CLASSE IN FRANCIA

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da http://ilmanifesto.info/no-al-jobs-act-versione-hollande/

Francia. Cinquecentomila manifestano contro la riforma che precarizza il lavoro. Il governo cerca di dividere i sindacati. Licenziamenti più facili, messa in soffitta delle 35 ore, indennizzi ridotti. I giovani in piazza come 10 anni fa contro il Cpe


La manifestazione di ieri a Parigi

Soprattutto molti giovani, liceali e studenti, numerosi lavoratori e anche dei politici, non solo dell’opposizione di sinistra ma anche dei socialisti dissidenti. Secondo il sindacato Fo e l’Unef (studenti), ieri alle circa 150 manifestazioni che hanno avuto luogo in Francia, nella prima giornata di mobilitazione contro la legge di riforma del codice del lavoro, 400-500mila persone hanno protestato complessivamente in tutta la Francia. Un movimento rafforzato anche dalla coincidenza con lo sciopero nelle ferrovie, per i salari, il 35% dei treni non ha circolato. A Parigi, ci sono state due manifestazioni: a fine mattinata, Cgt e Fo hanno protestato sotto le finestre della sede del Medef (la Confindustria francese, che applaude alla legge che ha contribuito a scrivere). Poi si sono uniti al corteo, principalmente di studenti, che è partito da place de la République verso Nation. A Lione ci sono stati incidenti, la polizia è intervenuta con i lacrimogeni.
I nuovi appuntamenti per contestare la riforma del lavoro sono per il 12, il 17 e il 31 marzo. La nuova legge, che avrebbe dovuto essere presentata in consiglio dei ministri ieri, sarà svelata solo il 24. Il governo ha preso 15 giorni di tempo in più, per cercare di trovare un’intesa con i sindacati riformisti, che ieri non sono scesi in piazza, ma che chiedono modifiche sostanziali alla prima stesura del testo redatto dalla ministra Myriam El Khomri. Sabato 12 saranno in piazza anche i sindacati riformisti, la Cfdt e la Fage (studenti), per aumentare la pressione sul governo. Hollande e Manuel Valls temono che cresca un movimento simile a quello contro il Cpe (contratto di primo impiego), dieci anni fa, che fece piegare l’allora primo ministro, Dominique de Villepin. I socialisti al governo non dimenticano che il Maggio francese nel ’68 era iniziato nel mese di marzo.
«Non al ritorno di Germinal, sciopero generale», «legge sul lavoro sei fottuta, i giovani sono in piazza», «non saremo carne da padrone», fino al più scontato «legge El Khomri, legge El connerie» («cazzata», il suono è vicino). Un tavolo di avvocati del lavoro era in piazza per spiegare cosa significa la riforma, un «Photo Macron» (gioco di parole tra il Photomaton, le cabine automatiche per le foto dei documenti e il nome del ministro dell’Economia, Emmanuel Macron), per dei selfies con i ministri implicati e l’invito a spiegare loro le proprie riserve. Una petizione su Internet contro la legge ha raccolto più di 1,2 milioni di firme, mentre si diffonde la protesta sui social «Valiamo più di questo», che mette in evidenza le difficoltà del lavoro, sempre più precario e svilito.
La Francia si batte contro una riforma che assomiglia molto a quelle che sono state già imposte in molti altri paesi europei. Ieri, François Hollande ha cercato di camuffare l’operazione, affermando che la riforma difende «il modello sociale francese», e non deve aver apprezzato l’intervento di Matteo Renzi, la vigilia all’incontro bilaterale Italia-Francia a Venezia, che ha vantato gli effetti del suo Jobs Act sull’occupazione giovanile. La riforma El Khomri non è specifica per i giovani (di qui le difficoltà che potrebbe incontrare la mobilitazione nelle prossime settimane). Ma introduce in Francia una maggior dose di “flessibilità”, ormai diffusa in Europa. Cgt, Fo, l’Unef (studenti) chiedono il ritiro puro e semplice della riforma. I “riformisti” (Cfdt, Unsa, la Fage degli studenti) vogliono sostanziali modifiche.
In particolare, alcuni punti sollevano esasperazione: con la riforma, saltano di fatto le 35 ore, attraverso accordi a livello di impresa; i licenziamenti saranno più facili, basterà un calo temporaneo dell’attività dell’impresa per giustificarli, e per le multinazionali ci sarà il vantaggio di non includere gli eventuali utili fatti all’estero; verranno fissati dei tetti per gli indennizzi ai tribunali del lavoro (Prud’hommes) in caso di licenziamenti abusivi, limitando così la libertà dei giudici.
Per il governo, una maggiore flessibilità dovrebbe facilitare le assunzioni. Valls non smette di spiegare che in Francia domina la paura ad assumere, perché non si può licenziare facilmente e quindi i padroni scelgono i Cdd (contratti a tempo determinato). I giovani rispondono: siamo una «generazione sacrificata», ci propongono «un Cpe tutta la vita», cioè contratti precari a vita, con un potere tutto in mano al padronato. Il governo aveva incaricato l’ex ministro Robert Badinter di redigere un rapporto, ma poi non ha tenuto conto delle conclusioni. Hollande si gioca il futuro su questa legge in vista delle presidenziali del 2017. C’è un gioco sotterraneo a tre: oltre a Hollande, attorno alla riforma cresce lo scontro tra due potenziali rivali ambiziosi, Valls e Macron, che entrambi cacciano sulle terre del social-liberismo.

SUPER MARIO BOSS

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da http://ilmanifesto.info/draghi-cerca-di-rianimare-leurozona/


Bce. Dalla Bce ottanta miliardi di euro al mese per il «Quantitative Easing» e taglio dei tassi: ma la ripresa è ancora lontana. Draghi, l'uomo del bazooka monetario sorprende ancora con un pacchetto di misure. Il «Qe» non ha portato i risultati attesi


La «ripresa» auspicata è lontana, un anno di «Quantitative easing» non ha funzionato con l’inflazione che oscilla tra lo scarso e il negativo. Ieri il presidente della Banca Centrale Europea (Bce) Draghi ha ripreso il bazooka e, con accompagnato da un entusiasmo effimero delle borse, ha aumentato di venti miliardi al mese il «Qe», passando da sessanta a ottanta miliardi di euro. Non settanta come previsto alla vigilia.
La diga è stata aperta e sull’Eurozona precipiterà una nuova alluvione monetaria fino a marzo 2017, ma forse sarà prolungato di tre/sei mesi. La speranza è rianimare l’inflazione e gli investimenti. Sempre a condizione di mantenere inalterata l’austerità nel quadro economico generale.
Soldi gratis alle banche, rispettando il «piano di stabilità e crescita, promuovendo un ambiente economico favorevole alla crescita» ha aggiunto Draghi. Questo è il mistero della fede del monetarismo: non si capisce come si possa favorire la «crescita», rispettando l’austerità di fondo. Fino ad oggi l’uso di uno 0,1% in più del deficit ha scatenato fibrillazioni da crepacuore tra Roma e Bruxelles, mentre l’Europa annega in una marea di denaro che resta sospesa sulle nostre teste. Tutto è in mano alla politica. E la politica europea non segue Draghi.
Questa è la contraddizione: da un lato l’attivismo dei banchieri centrali, dall’altro lato l’incapacità di reagire della politica. Si resta fermi all’ipotesi di salvare la finanza con gli strumenti della finanza, senza preoccuparsi dell’aumento catastrofico delle diseguaglianze e del reale stato di salute dell’economia reale. I segnali preoccupanti ci sono tutti: ieri la Bce ha fatto una revisione record al ribasso dell’inflazione: per il 2016 dall’1% allo 0,1%, nel 2017 da 1,6% a 1,3%.E chissà se sarà così allora. Siamo dunque molto lontani dal 2%, come prevede il mandato di Francoforte. Si continua come prima, più di prima.
Ieri il presidente Bce ha sorpreso tutti e ha messo in bella mostra altre armi «non convenzionali». Ha abbassato i principali tassi di interesse: il tasso di rifinanziamento dallo 0,05% a zero; sui depositi da -0,30 a -0,40% e quello sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi dallo 0,30 allo 0,25 per cento. Entreranno in vigore dal 16 marzo. Francoforte ha alzato dal 33% al 33% il limite per acquistare le emissioni di bond.
Altra novità inattesa: la Bce acquisterà anche i bond delle aziende non finanziarie. L’acquisto delle obbligazioni sarà deciso da un comitato costituito ad hoc. Gli acquisti partiranno «verso la fine del secondo trimestre di quest’anno» Da giugno 2016 a marzo 2017 la Bce lancerà quattro nuove Targeted Long Term Refinancing Operations (Tltro), cioè finanziamenti a lungo termine alle banche, con la durata di quattro anni e un tasso sui depositi fino a meno 0,40%.
Alla riunione del board ieri non ha votato il presidente della Bundesbank Jens Weidmann e gli altri alleati dei tedeschi, contrari al «Qe» di Draghi. Lo ha imposto il sistema di rotazione del voto. Draghi ha precisato che le decisioni sono state prese da una «maggioranza schiacciante» e ha negato che il maxi-intervento sia finalizzato a sostenere soprattutto le banche italiane. La Bce mira alla «stabilità dei prezzi nell’Eurozona e non in solo paese». E poi ha scandito, in tedesco: «Immaginate se non avessimo fatto niente – ha detto – avessimo incrociato le braccia dicendo nein zu allen, no a qualsiasi cosa. Ci ritroveremmo con una disastrosa deflazione oggi». Questo perché Weidmann intenda.
Non è escluso che il rafforzamento dell’alluvione monetaria fornisca un sollievo al governo Renzi sul lato bancario e poi sulla «flessibilità» delle risorse aggiuntive liberate dall’acquisto dei titoli di stato. La notizia di ieri, tuttavia, non risolverà il problema del debito pubblico-monstre. Le sue dimensioni (oltre il 134% del Pil) e la sua risicata diminuzione non piacciono alla Commissione Ue che tallona Renzi e Padoan. Se ne riparlerà dopo il 15 aprile con il Def 2016. Ma il problema resta: uno degli effetti del «Qe» è infatti l’aumento del debito pubblico in una fase di deflazione tendenziale pesano sempre di più.
Draghi non ha escluso l’ipotesi formulata nel 1969 da Milton Friedman sull’«helicopter money», cioè la distribuzione del «denaro a pioggia» ai consumatori europei. «È una teoria che viene discussa a livello accademico – ha detto- noi non ne abbiamo parlato. Può voler dire molte cose diverse tra loro, dovremo vedere». Uno degli effetti potrebbe essere quello di peggiorare le diseguaglianze, premiando gli attori più forti , come sta accadendo oggi. Sembra del tutto escluso, al momento, l’ipotesi del «Qe per il popolo», fortemente discusso in Europa, ma non a Francoforte. E tanto meno in Italia.

OBAMA CONTRO TUTTI

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da http://www.senzasoste.it/internazionale/obama-contro-tutti-libia-nel-caos-per-colpa-di-europei-e-clinton

Il presidente è un fiume in piena: affondi su Cameron, Sarkozy e sauditi. Ma se critica l'operazione contro Tripoli del 2011 oggi sta partecipando alla preparazione di una nuova campagna
In un’intervista alla rivista The Atlantic, Obama si è tolto tutti i sassolini che aveva nella scarpa. Interventi a gamba tesa su tutti: ha lamentato la mancanza di sostegno da parte degli alleati europei e delle petromonarchie del Golfo, le divisioni tribali del paese, gli errori commessi dai suoi stessi consiglieri. Come Hillary Clinton, l’allora Segretario di Stato, il cui piano di intervento «non ha funzionato». L’affondo del presidente arriva nei giorni caldi delle primarie democratiche e fa tremare la campagna elettorale della Clinton.
«Quando guardo indietro e mi chiedo cosa è andato storto, mi critico perché ho creduto che gli europei, per la vicinanza alla Libia, si occupassero del follow-up». In particolare, Obama punta il dito sul premier britannico Cameron e sul presidente francese Sarkozy che hanno permesso che la Libia si trasformasse da entità statale a problema ingestibile. Si è «distratto», dice con ironia Obama del primo ministro di Londra, contribuendo così ad «uno spettacolo di merda».
La Francia, invece, si vantava di «tutti gli aerei abbattuti, seppur fossimo stati noi a distruggere le difese aeree». E se gli europei sono «opportunisti» perché fanno pressioni sugli Usa per poi tirarsi indietro, i sauditi infiammano conflitti in tutta la regione e per questo hanno perso il sostegno acritico di Washington.
Al contrario gli Stati Uniti, secondo il presidente, hanno portato avanti l’operazione come previsto. Solo che non ha funzionato: «Abbiamo avuto il mandato Onu, abbiamo creato una coalizione, l’operazione ci è costata un miliardo di dollari. Abbiamo evitato vittime civili su larga scala. Nonostante ciò la Libia è nel caos».
Solo su un punto Obama si dice soddisfatto: non aver lanciato, nel settembre 2013, l’operazione contro la Damasco di Assad. «Sapevo che premere il pulsante di pausa avrebbe avuto il suo costo politico, ma mi sono svicolato dalle pressioni e ho pensato in modo autonomo». Più o meno: all’epoca a obbligare Washington a tirare il freno fu l’intervento diplomatico della Russia
Il mea culpa con il senno di poi è una caratteristica di molti leader. C’è chi si scusa per l’Iraq, c’è chi dice che l’interventismo internazionale ha creato l’humus per la nascita di al Qaeda prima e l’Isis poi. Eppure la strategia resta la stessa: l’Obama che critica quell’operazione è lo stesso che ha sul tavolo il piano del Pentagono per un nuovo intervento in Libia. È il capo dell’amministrazione che fa pressioni sull’Italia per avere Sigonella e che accetta la spartizione decisa dagli europei di un paese già frammentato. Ed è colui che fu a capo della coalizione anti-Gheddafi, senza che esistesse una reale alternativa politica al colonnello.
Difficile quindi che le critiche dell’inquilino della Casa Bianca modifichino gli attuali progetti bellici. Ufficialmente, ripetono le cancellerie occidentali, si interverrà solo per fermare lo Stato Islamico, arroccato a Sirte e Derna, ma capace di infiltrarsi lungo tutta la costa. 5-6mila uomini che approfittano del caos libico per ampliarsi: se queste fossero effettivamente le forze militari islamiste, non sembrerebbero una minaccia insormontabile. Il problema è un altro: in Libia non c’è un governo legittimo da sostenere contro il nemico islamista, ma una galassia di autorità diverse che frammentano il paese.
Un intervento esterno, con o senza richiesta di un eventuale esecutivo di unità, non avrebbe un effetto stabilizzatore ma amplierebbe questi settarismi. In tale contesto lo Stato Islamico è consapevole di aver raggiunto l’obiettivo: l’arrivo continuo di nuovi adepti – che diminuiscono in Siria ma aumentano in Libia –garantisce l’allargamento di una struttura che ha come scopo la destabilizzazione della Libia.
Lo ha detto chiaramente il nuovo “emiro” dell’Isis nel paese, Abdul Qadr al-Najdi, alla rivista di Daeshal-Naba: l’organizzazione «diventa più forte, giorno per giorno» tanto da fare dello Stato nordafricano «l’avanguardia del califfato», ha detto prima di minacciare Roma di una prossima conquista e i paesi vicini (in primis la Tunisia) di future operazioni.
Intanto proprio a Tunisi ieri si apriva l’ennesimo tavolo Onu per ridare vitalità al morente dialogo nazionale. Gli incontri saranno gestiti dall’inviato per la Libia Kobler, nell’obiettivo di superare lo stallo dovuto al parlamento di Tobruk. Da settimane il governo ufficialmente riconosciuto dall’Occidente si rifiuta di votare la proposta di governo unitario promossa dal premier designato al-Sarraj.
La giustificazione ufficiale è la continua mancanza del quorum, ma l’assenza dei parlamentari è da imputare al diktat del capo dell’esercito, Khalifa Haftar, che punta – su spinta del suo stretto alleato, l’Egitto – a ricoprire una carica di prim’ordine. Una carica che gli permetta di controllare il futuro del paese.
11 marzo 2016

SUNDAY MAGAZINE

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DANTE ALLEGHIER, S'I SO' BUON BEGOLARDO



Dante Alleghier, s'i' so' buon begolardo,
tu me ne tien' ben la lancia a le reni;
s'io desno con altrui, e tu vi ceni;
s'io mordo 'l grasso, e tu vi sughi el lardo;
s'io cimo 'l pannó, e tu vi freghi el cardo;
s'io so' discorso, e tu poco t'afreni;
s'io gentileggio, e tu misèr t'aveni;
s'io so' fatto romano, e tu lombardo.
Sì che, laudato Idio, rimproverare
poco può l'uno a l'altro di noi due:
sventura o poco senno ce'l fa fare.
E se di tal materia vo' dir piùe,
Dante, risponde, ch'i' t'avrò a stancare,
ch'i' son lo pugnerone, e tu se''l bue.

(Cecco Angiolieri)

NEL BLU DIPINTO DI GRIGIO

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E' balzato prepotentemente alla cronache il gesto del compagno e concittadino senigalliese Blu, che ha trovato ammirazione e consenso trasversali presso larga parte dell'opinione pubblica.
Pubblichiamo uno dei pochi articoli che contestano la scelta di Blu, ma che secondo noi, come espresso nei commenti in calce all'originale del post, è debole negli argomenti innanzitutto perchè non nota che è stato un gesto artistico il modo stesso in cui Blu ha agito e comunicato, e soprattutto perchè, secondo la filosofia politica dell'artista coerente a se stesso, meglio così che farli finire in mano alle arbitrarie speculazioni private (che è cosa diversa dalla scelta, remunerata, dell'artista di esporre i suoi lavori), riuscendo immediatamente ad aprire una discussione politica in merito, che era altro obiettivo di Blu e che il 'nostro' writer parrebbe aver raggiunto.



da http://leonardo.blogspot.it/2016/03/distruggere-street-art-e-cosa-buona-se.html


Ieri ho perso il polso della mia generazione. A Bologna due comitati cittadini avevano deciso di distruggere tutti i graffiti di Blu: vent'anni di opere di uno degli street artist più apprezzati in Italia, ma credo anche al mondo. Mentre assistevo da lontano allo scempio, mi aggiravo sui social network e invece dello scroscio di indignazione che mi aspettavo, non trovavo che applausi: ben fatto, bravi. Persino chi quei graffiti li apprezzava, chi ci era affezionato, chi li identificava con la Bologna in cui si svegliava e cercava di parcheggiare ogni mattino, persino loro cercavano di levarsi la lacrima in fretta: ok, è un gesto doloroso, ma necessario, vai col grigio. Ma cosa siamo diventati.

Il Resto del Carlino.
(Notare il dilemma nel volto ansioso dei vigili:
difendere l'arte o l'artista?)
Sì, sto barando. I due "comitati cittadini" in realtà sono due centri sociali di Bologna, e soprattutto la decisione di distruggere i graffiti è stata presa dall'autore stesso, che in quest'occasione almeno svela un'idea della proprietà intellettuale abbastanza radicale: se magari passando davanti a una sua opera per vent'anni qualche abitante si era illuso che la tal parete colorata appartenesse alla città, ne facesse parte, ebbene, non proprio: era più un affitto, o quel tipo di licenza che compri quando credi di comprare certi libri in formato digitale: un bel giorno ti svegli e non c'è più, e non puoi farci niente.

Ecco, più della scelta dell'artista - discutibile e discussa, del resto è un artista - m'interessa la nostra reazione. Se a passare rullate di grigio sui personaggi di Blu fosse stato un comitato di benpensanti, allora sì, avremmo protestato contro l'arretratezza culturale ecc. ecc.. Ma l'ha deciso Blu. Se l'ha deciso Blu diventa una straordinaria e coraggiosa prova di integrità artistica, che è forse la cosa che apprezziamo di lui - molto più dei suoi disegni, dal momento che abbiamo preferito tenerci l'integrità e rinunciare a questi ultimi.

Forse non ho il polso dei miei coetanei perché, davvero, io tendo a ragionare come sopra: non giudico i fatti dalle premesse, ma dalle conseguenze. mi sveglio, vedo muri grigi dove prima c'erano opere straordinarie (e angosciose, va detto), e mi sembra una prepotenza nei confronti dei cittadini che fruivano di quelle opere ogni giorno. Per i più invece è sempre una questione di intenzioni: non importa cosa combini, ma per quale motivo. Ad esempio un eventuale comitato per il decoro e la tristezza urbana avrebbe distrutto le medesime opere ottenendo il medesimo risultato, ma con le intenzioni sbagliate. Invece se è Blu stesso, l'autore! che deve protestare perché Roversi Monaco ha rubacchiato qualche opera - a lui o a un collega, non è chiaro - allora ok, il motivo è coerente con le premesse, e il fatto che centinaia di migliaia di bolognesi si sveglino con qualche parete grigia in più è ininfluente.

Davvero ininfluente, non sono ironico: per molti di quei bolognesi avere un muro grigio è preferibile ad avere uno street-artist incoerente o compromesso col potere. È un'opinione trasversale, che unisceWu Ming e Philippe Daverio sul Resto del Carlino. I muri grigi stanno per diventare il capolavoro di Blu, il che mi riporta a una domanda precedente: ma le opere di Blu vi piacevano davvero così tanto? Non è che preferite il personaggio, lo street-artist come moderno Robin-Hood che sfida il potere regalando ai poveri un'arte contemporanea che i ricchi se la sognano - e quando i ricchi se ne accorgono e cercano di ritagliarne dei pezzi per metterli nel Museo Borghese, lui, ehm, lui si arrabbia e ritira tutti i regali che aveva fatto ai poveri, ecco, mi è esplosa la metafora in mano.

Scusate, ma la situazione è persino più paradossale del solito. Qualcuno forse ha già denunciato Blu e i suoi fiancheggiatori per vandalismo, il che ci sta, e in alcuni casi sarà anche la prima ammissione che quello che è stato distrutto era arte. Che uno street artist non sia tenuto a rispettare le regole della civile convivenza è una banalità - ma come fare da qui in poi a distinguerli: metti che uno street artist si metta a distruggere le opere di un altro street artist, ne avrà il diritto? - o metti che qualche diabolico comitato di borghesi benpensanti si infiltri in un centro sociale e con due cazzate di Adorno lette al liceo (non c'è niente di più borghese della polemica contro i musei) sobilli i giovani idealisti e li armi di rulli e vernice grigia: chi è che noterà la differenza?

Nel frattempo Blu sarà diventato ancora più importante e quotato di quanto non sia ora: le non rare foto dei suoi graffiti consentiranno magari ai bolognesi della prossima generazione di ridipingerli tali e quali negli stessi luoghi, il che fornirà madeleines incredibili ai trentenni del 2030: "Ci passavo davanti tutti i giorni, che paura mi faceva! Ma quando l'hanno cancellato ho pianto". Questa cosa potrebbe fare arrabbiare ancora di più lo street-artist, che immagino reclami per sé e sé solo ogni diritto su ogni sua opera... per quanto tempo? Facciamo 70 anni, come il diritto d'autore? Se muori prima passa agli eredi? Come funziona? Forse sarebbe meglio parlarne. Sul serio, non discuto il diritto di Blu a impossessarsi di un muro della collettività e a trattarlo come suo anche dopo quindici, vent'anni: proprio perché preferisco, quando posso, giudicare dai risultati, e i risultati mi sembravano buoni. Fino a che si trattava di una trasgressione variamente tollerata da cittadinanza e amministratori, non creava grossi problemi: ma a questo punto si passa alla fase più delicata, quella in cui l'antipotere si trasforma in potere e si arroga non solo il diritto di creare, ma anche quello di distruggere, secondo leggi che almeno io non ho capito bene.

L'ACCOGLIENZA DEL PRIVATO...

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da http://popoffquotidiano.it/2016/03/14/se-i-comuni-dicono-no-il-paradosso-dellaccoglienza-dei-migranti-in-italia/

Mentre i privati continuano a fare affari nella gestione dei migranti, gli enti locali si tirano indietro: a vuoto l’ultimo bando Sprar. Situazione ideale per le nuove mafie. Arci: serve un sistema unico di gestione

Migranti_CERUTTI_2015
ROMA – 35 euro al giorno pro capite pro die per ogni richiedente asilo, una spesa pari a oltre un miliardo di euro l’anno, che diventa sempre più un affare dei privati. E’ questa la fotografia dell’accoglienza dei migranti e richiedenti asilo in Italia. Secondo gli ultimi dati del ministero dell’Interno, infatti, su circa 100 mila migranti e richiedenti asilo accolti sul territorio nazionale, il 70 per cento è ospitato in un Cas (centro di accoglienza straordinario) e solo il 22 per cento in uno Sprar (Sistema per richiedenti asilo e rifugiati) Nei fatti quindi nella stragrande maggioranza dei casi la gestione dell’accoglienza è affidata a soggetti privati che dopo aver partecipato a un bando della prefettura si mettono a disposizione: dagli albergatori ai ristoratori, fino ai proprietari di casolari e alle cooperative. Solo una minima parte, invece, è ospitato in un centro gestito dal ministero dell’Interno attraverso il servizio centrale Sprar e affidato (sempre tramite bando) all’ente locale. Una situazione che va avanti così da anni: almeno dal 2011, dall’Emergenza nord africa, e che non accenna a migliorare. Nonostante da anni si parli di arrivare a un sistema unico di accoglienza, sul modello Sprar, infatti, la proposta continua a trovare resistenza soprattutto tra i comuni. Lo dimostra l’ultimo bando lanciato dal ministero dell’Interno per ampliare la rete Sprar di altri diecimila posti: ma a cui gli enti locali hanno risposto mettendo a disposizione soltanto la metà, cioè cinquemila. Ma perché accade questo? E cosa comporta continuare a gestire l’accoglienza attraverso i centri prefettizi.
Un circolo vizioso: la mala gestione porta al rifiuto e blocca il sistema. Secondo Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci nazionale (una delle associazioni che fanno parte del Tavolo asilo) è il sistema a determinare quello che è ormai un vero e proprio circolo vizioso. “In questi mesi abbiamo girato l’Italia per fare promozione al bando Sprar, siamo andati da molti sindaci e amministratori locali, cercando di convincerli a partecipare – spiega Miraglia – ma in tantissimi casi ci hanno risposto di no. La motivazione molto spesso era quella di avere già sul territorio dei Cas, o di averne avuti, magari anche in numero consistente. I sindaci si facevano così portavoce dell’avversione che c’è nei territori verso questo tipo di gestione, e si tiravano indietro. Purtroppo questo è un cane che si morde la coda: la cattiva gestione genera razzismo e il razzismo attribuisce tutte le colpe a coloro che sono, invece, vittime del sistema”. Il rifiuto, spiega ancora Miraglia, non riguarda solo i comuni amministrati dalla Destra o dalla Lega, ma è ormai trasversale: “la gestione emergenziale del fenomeno, troppo spesso è passata sulla testa degli amministratori locali, con i prefetti che hanno imposto persone sui territori. E oggi ne paghiamo il conto”.
Senza controllo e monitoraggio, così si alimenta la speculazione. Ma cosa significa continuare a gestire il fenomeno in maniera emergenziale? Innanzitutto poca trasparenza e una più facile speculazione. Monsignor Perego, direttore della fondazione Migrantes parla senza mezzi termini di una “situazione vergognosa” che sta “indebolendo il sistema unico di accoglienza a favore delle nuove mafie”. Come denuncia l’ultimo rapporto della campagna LasciateCientrare “Incastrati”, infatti, nella gestione dei Cas continua a lavorare anche soggetti denunciati in passato, che hanno fatto dell’accoglienza un vero e proprio business. Sulla stessa scia anche il libro inchiesta del direttore del Tg4 Mario Giordano, “Profugopoli”, che ha passato in rassegna alcuni casi eclatanti di mal accoglienza: dall’impresa di pompe funebri che entra nel business dei profughi al consulente campano che gira in Ferrari. “Il problema centrale è la trasparenza – spiega ancora Miraglia -. Nel caso dello Sprar la rendicontazione delle spese è molto precisa, ci sono dei criteri fissati e qualsiasi variazione deve essere autorizzata . E’ tutto controllato, monitorato, blindato. Mentre nei Cas questo titpo di trasparenza non esiste: vince il bando della prefettura chi presenta la migliore offerta economica. Per le spese basta fare una fattura, come vengono spesi i soldi non è rendicontato. E controlli sono disomogenei e spesso fatti a campione”. E così in questi anni sempre più soggetti non titolati sono entrati nel business dell’accoglienza: “questo è un problema non solo per il dispendio di risorse pubbliche – continua Miraglia- ma anche perché non si raggiunge l’obbiettivo primario, quello dell’inclusione dei migranti nel territorio in cui sono accolti. Il coinvolgimento degli enti locali in questo senso è fondamentale, per questo ribadiamo la necessità di arrivare a un sistema unico di accoglienza, che ha come modello lo Sprar e non la gestione privata”.
L’apporto “positivo” degli Sprar nei territori aiuta l’economica locale. Mentre i Comuni si tirano indietro nell’accoglienza dei profughi, i dati del ministero ci dicono che i territori dove sorgono gli Sprar hanno avuto ricadute positive intermini economici. Secondo il rapporto accoglienza, infatti, tra il 2007 e il 2014: le province a più forte presenza di posti Sprar hanno evidenziato una maggiore tenuta dei posti di lavororispetto a quelle meno coinvolte nel sistema (rispettivamente circa -2 e -5,1 per cento, a fronte di una media nazionale pari a -2,9 per cento). Inoltre, sempre secondo il ministero “le province maggiormente coinvolte nel sistema di accoglienza presentano un capitale sociale generalmente più elevato”. Questo perché con un sistema monitorato e controllato è più facile che i soldi spesi per i migranti restino nei territori. Infine, va ricordato che ad oggi i Comuni coinvolti nei progetti di accoglienza sono appena 400, su 8000 totali, con un alta frammentazione a livello regionale. Se si riuscissero a coinvolgere tutti il numero di migranti da ospitare per ogni comune sarebbe veramente molto basso: se pensiamo che le strutture oggi ospitano circa 100mila persone, distribuirle equamente in ogni comune, significherebbe appena 12 migranti a testa. Un calcolo che non tiene conto della differenza di densita nei diversi comuni (alcuni piccolissimi alcuni molto alti) ma che rende bene l’idea di come questo, nei fatti non sia un problema ingestibile. “Noi crediamo fortemente nella volontarietà della scelta di accoglienza, cioè nel fatto che gli enti locali possano decidere liberamente di partecipare al bando Spra – conclude Miraglia – diverso è il discorso delle quote  regionali, secondo cui dovrebbero equamente essere distribuiti i profughi per regione. Un discorso rispetto al quale ci sono ancora troppe reticenze”. (ec)
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ACQUA SOTTO ATTACCO: FERMARE RENZI E MADIA!

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da http://www.senzasoste.it/politica/acqua-sotto-attacco-fermare-renzi-e-madia

acqua soldiMarco Bersani - tratto dahttp://www.italia.attac.org
Cinque anni dopo la straordinaria vittoria referendaria del movimento per l’acqua, Partito Democratico, governo Renzi e ministro Madia tentano un doppio affondo per chiudere definitivamente l’anomalia di un pronunciamento democratico dell’intero paese, frutto di un’esperienza di partecipazione dal basso senza precedenti e di un’alfabetizzazione sociale che ha imposto il paradigma dei beni comuni contro il pensiero unico del mercato.
Nei prossimi giorni la legge d’iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua, presentata con oltre 400.000 firme nel 2007, approderà nell’aula parlamentare: vi arriverà, tuttavia, con una serie di emendamenti, portati avanti dal Partito Democratico, che ne stravolgerà il testo e il significato, eliminando ogni riferimento alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato e alla sua gestione partecipativa, che ne costituivano il cuore e il senso.
E’ bene che il PD sappia fin da subito che tutto questo non solo non viene fatto nel nostro nome, ma che è un’espressione di disprezzo della volontà popolare chiara, netta e senza ritorno.
E, mentre in Parlamento si consuma questa ignobile farsa, è finalmente disponibile il Testo Unico sui servizi pubblici locali, decreto attuativo della Legge Madia n. 124/2015.
Tuttavia, mentre il comma c) dell’art. 19 della legge cosi recita: “individuazione della disciplina generale in materia di regolazione e organizzazione dei servizi di interesse economico generale di ambito locale (..) tenendo conto dell’esito del referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011”, ecco quali sono le finalità dichiarate del decreto attuativo, così come riportate nell’analisi di impatto allegata:
 a) ridurre la gestione pubblica dei servizi ai soli casi di stretta necessità;
 b) garantire la razionalizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali, in un’ottica di rafforzamento del ruolo dei soggetti privati.
 Il decreto è un vero e proprio manifesto liberista che –art. 4, comma 2- promuove “la concorrenza, la libertà di stabilimento e la libertà di prestazione di servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione dei servizi pubblici locali di interesse economico generale”.
 Logica conseguenza di quest’assunto sono:       
  1. l’obbligo di gestione dei servizi pubblici locali a rete attraverso società per azioni (art. 7, comma 1);
  2. l’obbligo, laddove la società per azioni sia a totale capitale pubblico, di rendere conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato (art. 7 comma 3), di presentare un piano economico-finanziario relativo a tutta la durata dell’affidamento, sottoscritto da un istituto di credito (art. 7, comma 4), di acquisire il parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
E perché sia chiaro a tutti come l’anomalia referendaria vada definitivamente consegnata agli archivi, ecco ricomparire, dopo anni con cui si era tentato di nasconderla dentro la dicitura “oneri finanziari”, l’”adeguatezza della remunerazione del capitale investito” nella composizione della tariffa, nell’esatta dicitura che 26 milioni di cittadini avevano democraticamente abrogato.
Il totale disprezzo della volontà popolare e della democrazia non poteva essere meglio esternato.
Hanno annichilito il paese con la trappola-shock del debito pubblico e lo hanno rinchiuso nella gabbia del pareggio di bilancio, del patto di stabilità e dei vincoli monetaristi: ora si apprestano alla definitiva espropriazione di ciò che ci appartiene per consegnarlo ai grandi interessi delle lobby finanziarie.
Alle donne e agli uomini che in tutti questi anni hanno detto chiaramente come l'acqua e i beni comuni siano garanzia di diritti universali e, come tali, da sottrarre al mercato e da restituire alla gestione partecipativa delle comunità territoriali, il compito di fermare Renzi, Madia e le lobby della finanza, che hanno deciso di assecondare.
Oggi più che mai si scrive acqua, si legge democrazia.
16 marzo 2016

GENERAZIONE VOUCHER

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da  http://ilmanifesto.info/generazione-voucher/

Jobs Act. Un mercato del lavoro da mungere per riconquistare competitività, una redistribuzione incondizionata di fondi pubblici alle imprese private, un Welfare sempre meno universalistico. E il lavoro povero. Il governo si è accorto del boom del lavoro a scontrino, ma pensa che nasconda solo il lavoro irregolare. Il voucher è una nuova realtà del precariato


Con il susseguirsi dei mesi, la realtà si impone: i dati sui contratti di lavoro a gennaio 2016 registrano un dato negativo per i contratti a tempo indeterminato (-12.378), mentre sulla sponda opposta, l’utilizzo dei voucher aumenta: 9.227.589 di buoni lavoro venduti nel primo mese dell’anno.
Dopo l’exploit – oltre ogni ragionevole aspettativa – di dicembre in cui i contratti a tempo indeterminato, al netto delle cessazioni, erano aumentati di circa 186 mila unità, una flessione nella dinamica di gennaio era nell’aria. Tuttavia, la flessione registrata è significativa dal momento che a gennaio le cessazioni superano le attivazioni, dando luogo a un saldo negativo: sono stati distrutti più posti di lavoro rispetto a quanti ne siano stati creati. Rallentano bruscamente anche le trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato (41.221 a gennaio), -71% e -5% nel confronto rispettivamente con dicembre e gennaio 2015. Insieme ai dati di gennaio, l’Inps mette a disposizione l’intera serie mensile dell’andamento del numero di rapporti di lavoro per tipologia contrattuale.
Quel che si evince è una dinamica positiva tra gennaio ed aprile e pressoché nulla (se non negativa) fino a dicembre. Con i dati di gennaio alla mano, l’interpretazione di fondo, secondo cui la movimentazione contrattuale è stata dominata da una corsa agli incentivi, è difficilmente confutabile. Inoltre, quel processo di impoverimento produttivo, ormai in atto da quasi tre decenni, non cambia verso: anche nel 2016, il 74% dei contratti prevedono una qualifica di operaio e il 30% del totale di quelli a tempo indeterminato si concentrano nei settori dei servizi a bassa intensità tecnologica, a basso potenziale espansivo per l’economia. Una quota che aumenta nel tempo, mentre diminuisce la quota di contratti «indeterminati» per occupazioni relative ad attività professionali, scientifiche e tecniche; amministrazione e servizi di supporto.
Per queste professioni ed attività, al contrario, tra il 2014 e il 2016 sono in costante aumento le assunzioni a tempo determinato. Quasi un paradosso, dal momento che sono proprio le attività più qualificate quelle che hanno bisogno di stabilità per intervenire positivamente sulla tanto agognata produttività. Infine, la traiettoria verso un mercato del lavoro più stabile e meno precario rimane lontana. Lo confermano i dati sull’utilizzo dei voucher, in costante aumento. A gennaio sono stati venduti con un aumento del 36% rispetto allo stesso mese del 2015 e del 131% rispetto a gennaio 2014.
Da un lato, siamo di fronte a un mercato del lavoro da mungere per riconquistare competitività, agendo però attraverso una redistribuzione incondizionata di fondi pubblici alle imprese private, che sfruttano i margini di risparmio soprattutto in settori incapaci di generare crescita robusta attraverso investimenti mirati.
Dall’altro, gli ultimi interventi legislativi legati al JobsAct perseverano nell’idea che si possa stimolare la produttività agendo sugli incentivi individuali, attraverso la defiscalizzazione dei premi e i bonus per il welfare, in un’ottica sempre meno universalistica dello stato sociale. Infine, l’avanzata del precariato, rappresentata dall’esplosione dei voucher, non sembra sostanzialmente preoccupare il Governo, che prevede di gestire gli abusi attraverso una stretta sulle comunicazioni dell’utilizzo dei buoni lavoro. A prevalere è l’idea secondo cui lo sfruttamento e il lavoro povero sono da ostacolare solo nella misura in cui nascondano lavoro irregolare e non come circostanza del reale di per sè.

LA STAMPA-REPUBBLICA: COSA C'E' DIETRO LA FUSIONE.

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Sergio Bellucci - tratto da http://www.controlacrisi.org


È l'intero mondo dell'informazione che inizia la fase di trasformazione definitiva verso il mondo digitale. Gli equilibri che hanno governato il sistema dell'informazione nell'intero '900, sono finiti. Si basavano su uno scambio che, giorno dopo giorno, viene sempre meno. I mass media dovevano raggiungere i cittadini con i loro contenuti e le aziende li avrebbero usati per essere veicolati, con la loro pubblicità, fino davanti agli occhi del cittadino pensato come “consumatore”. I soldi per far funzionare il sistema dei media arrivavano direttamente dalle aziende che, nel concreto dei processi economici, compravano noi tutti sul mercato della pubblicità dei mass media. È per questo motivo che ci hanno potuto “regalare” i contenuti televisivi che, in realtà, pagavamo ogni volta che compravamo un prodotto al supermercato attraverso una tassa invisibile sulla marca e sul prodotto.Ora il digitale sta rimescolando tutto, gli utenti si sganciano dai mass media tradizionali, giornali, televisioni e radio, e migrano verso strumenti nuovi e la pubblicità si sgancia dai vecchi prodotti e prova ad inseguire il nuovo che avanza. Un nuovo che è più efficiente e a minor costo del sistema precedente.
È in questo quadro che la crisi dei quotidiani investe le aziende del settore e impone nuove strategie imprenditoriali. La vicenda La Repubblica-La Stampa s'inserisce all'interno di questa grande trasformazione. Ovviamente il senso di questa ristrutturazione ha, come sempre, un tasso di complessità più alto di quello che sembra all'apparenza. Da un lato, infatti, la scelta di andare verso la più importante ristrutturazione del sistema editoriale degli ultimi decenni, poggia sulla modifica di fondo della struttura del sistema dell'informazione, ma si possono intravvedere almeno altre due “gambe” sul quale poggia il tavolo dell'operazione. La prima è sicuramente quella di premere sul governo e l'attuale maggioranza per strappare una legge di riforma del sistema dell'editoria che consenta di scaricare sulle casse dello stato i costi della ristrutturazione. C'è da scommettere che la spinta ad ottenere delle norme utili ad “alleggerire” il peso dei costi delle ristrutturazioni del settore in crisi non verrà soltanto dalla risultante del processo di fusione dei due grandi quotidiani. Tutte le aziende del settore devono prepensionare le figure professionali più alte per abbassare i costi e utilizzare personale a costi più bassi. I vecchi livelli di stipendio e i livelli di “tutele” dell'era pre-digitale sembrano diventare, giorno dopo giorno, sempre più un residuo garantito ad una cerchia in via di esaurimento che una condizione di garanzia professionale estendibile alle figure del settore. Già oggi abbiamo una condizione reale del settore dell'informazione che si basa su una separazione sempre più drammatica tra il prima e il dopo. E la base del “dopo” si allarga sempre di più proprio per poter continuare una produzione di contenuti necessaria a produrre giornali e telegiornali o radiogiornali.
La legge approvata alla camera sulla riforma del settore dell'editoria (e ora approdata al Senato) contiene tante e troppe deleghe al governo. Queste deleghe si trasformeranno in una trattiva svolta in luoghi esterni ai processi trasparenti e consentiranno al governo di tenere sulla corda i gruppi editoriali nei prossimi, fondamentali, mesi.La terza e ultima gamba del piano inclinato della fusione è rappresentato dal nocciolo politico dell'operazione. Il sistema politico italiano è strutturalmente in crisi e il ridisegno della geografia politica non si è arrestato con l'avvento di Renzi al governo. Anzi. Alla crisi del gruppo dirigente del PD che ha portato l'ex sindaco di Firenze alla poltrona più ambita del nostro paese ha fatto da contraltare la completa dissoluzione del campo del centro-destra. L'impossibilità di andare oltre la coppia Berlusconi-Salvini rende il PD, di fatto, unico interlocutore dell'intero establishment economico-finanziario del paese. Ovviamente a tale scenario neo-democristiano (nel senso di una sorta di strada obbligata nella scelta dei poteri del paese nello schierarsi sul piano politico) corrisponde la necessità di costruire un quadro comunicativo “omogeneo”.
La Pax berlusconiana, che ha governato per 30 anni gli equilibri del sistema dei media, anche per i suoi riflessi verso il mondo dei quotidiani, sembra tramontare velocemente e l'accelerazione del sistema tecnologico sembra voler obbligare i contendenti verso un esito che avrebbero volentieri rimandato. La fusione dei due quotidiani, quello romano e quello torinese, segnala l'inizio della corsa per la costruzione di un polo comunicativo ad uso e consumo del Partito della Nazione che sembra affacciarsi come esito della cura renziana al PD. L'ingresso in maggioranza del gruppo politico del toscano Verdini, sembra essere stato come un Là ad una operazione dall'orizzonte politico assolutamente obbligato per la strategia renziana. In realtà, è l'intero assetto del mondo della comunicazione che sta piegandosi al progetto neo-centrista. Dal riassetto del servizio pubblico, alle norme sul mondo dell'editoria per arrivare agli accordi fiscali con gli OTT del mondo del web, il mondo della comunicazione e dell'informazione sembra chiudere, tappa dopo tappa, una sorta di nuovo punto di equilibrio con il potere politico. Nella chiusura di tale nuovo accordo emerge una sorta di declassamento del potere milanese, come dimostra la riduzione di peso del ruolo del gruppo RCS e, ancora non in maniera esplicita, di quello del gruppo Mediaset.
Ovviamente, come accade spesso anche al diavolo, tutto è stato pensato ma, nei cavilli delle norme ancora rimaste in vigore, emerge una pentola che rimane senza coperchio. Una vecchia legge del millennio precedente, rimasta probabilmente incolume dall'asfaltatura delle norme voluta da Berlusconi nel decennio scorso, che stabiliva un tetto alla concentrazione delle copie in capo ad un solo editore potrebbe far saltare tutto e impedire la realizzazione dell'ardita strategia di fusione dei due quotidiani. Vedremo se l'AGCOM, che dovrebbe presiedere alla garanzia del pluralismo nel nostro sistema informativo e comunicativo, troverà il coraggio di alzare la testa e imporre lo stop che le leggi prevedono.
16 marzo 2016

LA BANALITA' DEL DECLINO

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da http://popoffquotidiano.it/2016/03/18/jobs-act-e-crisi-la-durezza-dei-dati-e-la-banalita-del-declino-italiano/

Lo dicono i dati: il PIL ristagna, la crescita latita e la bolla occupazionale è scoppiata. L’illusione del Jobs Act e della decontribuzione, un mero trasferimento di risorse dal lavoro al capitale

 di Valeria Cirillo, Marta Fana e Dario Guarascio
Renzi-Poletti

La bolla occupazionale del Jobs Act è scoppiata, dunque, e sembra averlo fatto prima del previsto. Nulla di nuovo sotto il sole, tuttavia. Come preconizzavamo lo scorso novembre, la crescita dei contratti a tempo indeterminato nell’era Jobs Act-decontribuzione si sarebbe dimostrata nulla più che un’illusione, in particolare dopo il dimezzamento degli incentivi operato ad inizio 2016 (fino a dicembre 2015, per ogni nuovo contratto o trasformazione di altri contratti in contratti a tempo indeterminato il governo ha garantito un sconto sui contributi per le imprese di 8060 euro).
In un contesto di debolezza strutturale con un PIL stagnante – variazione del PIL su base annua dello 0,8% per il 2015 rispetto al 2,8% europeo – ed una modestissima crescita degli investimenti – 0,2% rispetto a 2,3% europeo -, non ci si sarebbe potuti aspettare gran che di diverso. Il combinato disposto Jobs Act-decontribuzione non ha in alcun modo favorito l’occupazione, ne tantomeno quella “stabile” ma ha esclusivamente coinciso con un generoso regalo alle imprese. Un nuovo tassello della lotta di classe alla rovescia, un trasferimento di risorse dal lavoro (via fiscalità generale) al capitale (sconto sui contributi alle imprese).
D’altronde, le imprese italiane di occupazione “stabile” e di qualità non sembrano averne bisogno. E perché dovrebbero, a fronte di una crescita annua dei consumi familiari pari allo 0,1% (Eurostat). Ma vediamo cosa dicono i numeri nel dettaglio. Dopo l’impennata di attivazioni a tempo indeterminato osservata nel mese di dicembre 2015, già a partire da gennaio 2016 lo scenario cambia. Il numero di nuovi contratti a tempo indeterminato crolla. La differenza tra attivazioni e cessazioni di contratti a tempo indeterminato entra, per la prima volta da molto tempo, in territorio negativo (–12.378). Questo dato conferma quanto già sottolineato dall’Osservatorio sul Precariato INPS: l’esonero contributivo triennale, introdotto dalla legge di stabilità 2015, ha avuto un effetto determinante sull’incremento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato – su 2,5 milioni di attivazioni di posizioni di lavoro a tempo indeterminato includendo anche le trasformazioni, oltre 1,5 milioni, pari al 62% del totale, hanno beneficiato dell’esonero contributivo. Le assunzioni attivate da datori di lavoro privati calano a gennaio 2016 di 120.000 unità (–23%) sul gennaio 2015. Un rallentamento che ha coinvolto soprattutto contratti a tempo indeterminato (–70.000, pari a 39%, sul gennaio 2015 e –50.000, pari a –32%, sul gennaio 2014). Anche il flusso delle trasformazioni a tempo indeterminato rallenta tanto per i contratti a tempo determinato (–5% sul gennaio 2015) che per quelli di apprendistato (–2% sul gennaio 2015).
Ciò che invece non dimostra un’inversione di tendenza è la vendita dei voucher – 9,2 milioni di voucher venduti nel gennaio 2016 – che a prescindere dalle misure di decontribuzione in vigore per le altre forme contrattuali continua ad aumentare – + 36% rispetto al gennaio 2015 -. Ed è probabilmente la dinamica dei voucher l’espressione veritiera di un apparato produttivo debole e timoroso, le cui aspettative negative si riflettono in un’occupazione precaria e alla mercé delle esigenze del momento.
In un contesto simile, l’esercizio di correre dietro alle rilevazioni statistiche mensili in un paese che procede inarrestabile sulla china del proprio declino comincia a diventare un’attività piuttosto frustrante. Allargando il quadro temporale di riferimento – come ha recentemente fatto Davide Mancino su L’Espresso – emerge allora che i precari non stanno affatto diminuendo, la quota di lavoratori con un contratto temporaneo sul totale degli occupati è aumentata dal 7,2% del 1995 al 13,6% del 2014 per la fascia 15-64, e dal 13,7% al 40,6% per coloro fra i 15 e i 29 anni. Il quadro è ancora più drammatico se si considera la durata del contratto, è aumentata nel tempo la quota dei contratti a meno di 12 mesi triplicando di fatto lo stock della stessa tipologia contrattuale a fine anni Novanta. (Fonte: Fana, Guarascio e Cirillo – 2016)
L’Italia è su una preoccupante parabola discendente, dunque. E lo è per i suoi malanni strutturali di cui poco e si parla e che si riflettono, però, anche nell’incapacità di offrire, a chi la vorrebbe, un’occupazione decente. Un’occupazione decente che è un miraggio in particolare per i più giovani. Proprio quei giovani che Renzi vorrebbe blandire con il suo linguaggio da social network ma che si ritrovano invece a fare i conti con una realtà che lascia loro, nel migliore dei casi, un’unica prospettiva: quella dell’emigrazione. Con buona pace della struttura produttiva italiana che, per riprendersi, avrebbe bisogno di dosi massicce di innovazione tecnologica, conoscenza e giovani talenti.

SUNDAY MAGAZINE

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Padre, se anche tu non fossi il mio




Padre, se anche tu non fossi il mio 
Padre se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
Che la prima viola sull'opposto
Muro scopristi dalla tua finestra
E ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
Di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
 
E di quell'altra volta mi ricordo
Che la sorella mia piccola ancora
Per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte 
Dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.
 
Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.

(Camillo Sbarbaro)

UNO SCAMBIO MISERABILE

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da http://ilmanifesto.info/uno-scambio-miserabile/


Lo scambio. Niente di umanitario. Occhi chiusi sul destino dei profughi


Sull’accordo di ieri tra Consiglio d’Europa e Turchia bisogna reprimere un senso opprimente di vergogna. I 28 statisti che governano questo continente di 506 milioni di abitanti hanno negoziato con Davutoglu (cioè con il suo padrone Erdogan) il seguente accordo: l’Europa accetterà 72.000 profughi e ne rimanderà altrettanti dalla Grecia in Turchia. In cambio Ankara ottiene per il momento 3 milioni di Euro per progetti sui migranti (i termini qui sono vaghi per occultare le promesse europee di altro denaro), l’avvio della procedura di ammissione della Turchia alla Ue e una facilitazione, anch’essa vaga, dei visti d’ingresso dei cittadini turchi in Europa.
Davotoglu ha avuto la faccia tosta di definire questo accordo non un mercanteggiamento ma una questione di «valori». Certo, basta dividere i 3 miliardi ottenuti dalla Turchia per 72.000 e otteniamo poco più di 40.000 euro a persona. Ecco il valore di migranti e profughi per Ankara. E che cosa ne faranno Erdogan e Davutoglu del gruzzoletto? Pasti caldi e comodi alloggi per tutti o magari, con i quattrini risparmiati sui rifugiati, un po’ di armi e di bombe? Bisognerà chiederlo ai curdi.
Ma accusare la sola Turchia di speculare sull’umanità alla deriva tra Egeo e Macedonia sarebbe ingiusto. Perché i veri mercanti di uomini sono gli stati europei. Come ha scritto ieri la Tageszeitung, 72.000 sono solo gli stranieri arrivati in un anno a Berlino. Una cifra irrisoria se proiettata sull’intero continente. Un numero che non risolve nulla, che lascia le cose come stanno e che serve solo ad alleggerire il peso dell’accoglienza che si è scaricato negli ultimi mesi sulla Grecia. Ora, orde di funzionari, poliziotti e guardie di confine europee invaderanno le isole dell’Egeo per “selezionare” gli stranieri buoni da quelli “illegali”. Per uno che entra, uno deve uscire. È la roulette russa del profugo.
L’ipocrisia europea ha toccato in questo caso cime abissali. Poiché una recente sentenza della Corte di giustizia prescrive che un profugo possa essere espulso in uno stato terzo solo se questo è “sicuro”.
Paese “sicuro”, cioè non specializzato in torture, ecco che alla Grecia basterà riconoscere alla Turchia questa qualifica e, voilà, i giochi sono fatti. La Turchia uno stato “sicuro”? Quella che rade al suolo le sue città abitate dai curdi? Quella che manganella manifestanti a tutto spiano? Quella che chiude i giornali non allineati al regime di Erdogan?
L’accordo di ieri non ha nulla a che fare con l’umanità, di cui ha parlato qualche tempo fa Frau Merkel. È la risposta miserabile della Ue alle paranoie di Hollande, all’eccezionalismo high brow di Cameron, alle pretese fascistizzanti di Orban, del governo ultra-reazionario di Varsavia, dell’estrema destra tedesca e di tutti gli altri cultori del filo spinato. E anche delle istituzioni finanziarie che ora, se l’emergenza di Idomeni finirà, potranno dedicarsi a spennare ancora un po’ Atene. E probabilmente della Nato, di cui la Turchia è membro irrinunciabile.
Che fine faranno i 72.000 rimandati in Turchia e tutti gli altri che dovevano essere ricollocati da mesi e vagano tra Sicilia, Calais e chissà dove? Che ne sarà di quelli che arriveranno ora, con la stagione calda, e che sicuramente la Turchia farà passare per spillare ancora quattrini agli europei? Renzi ha dichiarato che la questione dei migranti si risolve in Africa. Bisognerà dirlo agli afghani, agli iracheni e a tutti gli altri che non sono africani, non sono riconosciuti come profughi ed errano in quell’enorme campo minato che si stende tra Istanbul e Kabul, passando per Damasco e Baghdad. Con l’accordo di ieri l’Europa ha chiuso gli occhi sul loro destino.
Sì, c’è da vergognarsi di avere il passaporto dell’Unione europea.

LA MORTE 'FOSSILE' DELL'ITALIA

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da http://www.senzasoste.it/economia/la-morte-fossile-dell-italia
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Dario Faccini - tratto da https://aspoitalia.wordpress.com
Nel dibattito sul referendum del 17 Aprile, mancano domande fondamentali. 
Quanto petrolio e gas rimangono ancora da estrarre in Italia? Ha senso estrarli alla massima velocità possibile? 
I motivi per cui dobbiamo conservare questo “tesoro in molecole”,  proprio come conserviamo le Riserve Auree e la Primavera del Botticelli.
Di Dario Faccini
Per gli effetti sul settore gas e petrolio di un vittoria dei SI si veda il precedente articolo  “le bufale sul referendum del 17 Aprile“.

A TUTTO GAS

Il 1994 è l’anno in cui l’Apple lancia il primo Macintosh, a Sarajevo una granata serbo-bosniaca uccide 68 persone in un mercato e in Africa si compie il massacro sistematico dell’etnia Tutsi in Ruanda (mezzo milione di morti solo nei primi 100 giorni).
In Italia si raggiunge il record produttivo di Gas Naturale, ma non fa notizia. Il consumo di metano ha superato la produzione a partire dagli inizi degli anni ’70. L’autosufficienza energetica in Italia è un sogno svanito da molto temp (Fig. 1).
picco del gas in Italia
Fig. 1. Dati storici di consumo, produzione e importazione (calcolata come differenza delle prime due quantità) in Italia, in MTep. Fonte: BP Statistical Review 2015.
La corsa dei consumi si arresterà invece dieci anni dopo, nel 2005, quando sarà raggiunto il Picco “lato domanda”. Nel 2014, la produzione interna di gas naturale ha coperto meno del 12% dei consumi, con una quota del 67% proveniente da giacimenti a mare (soprattutto dall’Adriatico Veneto-Romagnolo).
Se il gas naturale italiano è in un declino irreversibile, il petrolio estratto mostra un trend diverso, a prima vista più ottimista.
produzione di idrocarburi in Italia
Fig. 2. Dati storici di produzione di Gas Naturale e Petrolio in Italia, in MTep. Fonte: BP Statistical Review 2015.
Come per il Gas, la produzione di Petrolio in Italia copre solo poco più del 10% (2014) dei consumi interni, ma è rimasta piuttosto costante dalla fine degli anni ’80 sino ad oggi.

RISERVE: IL LIVELLO DEL SERBATOIO ITALIA

Qualsiasi forma di ottimismo si infrange però di fronte alla cruda realtà delle quantità di gas e petrolio ancora estraibili (riserve).
Il Rapporto Annuale 2015 del DGRME, riporta le stime ufficiali delle riserve di gas e petrolio, disaggregate in base alla probabilità (certe, probabili, possibili) [1]. Per ottenere la stima delle riserve recuperabili, si devono considerare per intero le riserve certe, per metà quelle probabili e per un quinto quelle possibili [2].
Per il Gas Naturale si scopre così che le riserve ancora recuperabili sono pari a 88,5 MTep e non bastano neppure per coprire il fabbisogno nazionale per un anno e mezzo (Fig 3).
gas italiano riserve-consumi
Fig. 3. Confronto tra: Riserve certe, probabili e possibili ufficiali di Gas Naturale (a fine 2014); riserve recuperabili (ottenute come somma del 100% delle certe, del 50% delle probabili, del 20% delle possibili); consumo di Gas Naturale nel 2014. Fonti: MISE-DGRME, Rapporto annuale 2015e MISE, bilancio di Gas.
La situazione per il petrolio è solo lievemente migliore: la quantità che rimane da estrarre è pari a 142MTep e coprirebbe poco meno di due anni e mezzo di consumi nazionali. (Fig. 4)
petrolio italiano riserve-consumi
Fig. 4. Confronto tra: Riserve certe, probabili e possibili ufficiali di Petrolio (a fine 2014); riserve recuperabili (ottenute come somma del 100% delle certe, del 50% delle probabili, del 20% delle possibili); consumo di Petrolio nel 2014. Fonti: MISE-DGRME, Rapporto annuale 2015 e MISE,Consumi Petroliferi.

NON SI CERCANO NUOVI GIACIMENTI

Ma non potrebbero esserci altre riserve di gas e petrolio da scoprire? Si, ma poche, perché la ricerca d’idrocarburi è sottoposta alla legge dei ritorni decrescenti: vengono scoperti prima i giacimenti più grandi e accessibili, poi quelli più piccoli e difficili da coltivare. Così con il passare del tempo le scoperte rallentano sempre più (mentre i costi di estrazione aumentano).
L’Italia segue bene questa legge: il numero di pozzi esplorativi perforati si è ridotto sempre più sino a quasi ad annullarsi.
trend esplorazioni Italia
Fig 5. Numero dei pozzi perforati in Italia, ripartiti tra pozzi esplorativi e di sviluppo. Fonte: MISE-DGRME, Rapporto annuale 2015.
Negli ultimi sei anni nessun pozzo esplorativo è stato perforato in mare, e nel 2014 neppure a terra è stato perforato alcun pozzo per la ricerca di idrocarburi. Anche il ritmo di perforazione dei giacimenti già scoperti è in crollo negli ultimi 4 anni. (Fig. 5)
Colin Campbell, uno dei padri di ASPO, ha costruito un semplice modello per l’esaurimento delle risorse fossili, che proponiamo in fig. 6 per il petrolio italiano. Da questo modello si ricava che circa i 2/3 del petrolio estraibile è già stato prodotto e che le riserve ancora da scoprire sono piuttosto esigue.
Italy Atlas
Fig. 6: Rispettive frazioni di petrolio già estratte, scoperte da scoprire in Italia. Se si traccia un segmento verticale a partire da un dato anno si individuano tre valori in ciascuna area. Per il 2015 la linea azzurra indica come i 2/3 delle riserve petrolifere Italiane sia già stata estratta. Fonte:Campbell Atlas of Oil and Gas Depletion.
Quindi ci rimane poco petrolio e ancor meno gas, e non ci sono prospettive ragionevoli di scoprirne molto di più. Ma in tutto questo, cosa centra il referendum del 17 Aprile?

PERCHE’ TENERE SEPPELLITO IL TESORO

C’è un ottimo motivo per votare SI al referendum del 17 Aprile.
Nel nostro immaginario siamo portati a pensare agli idrocarburi come combustibili che usiamo per scaldare, spostarci e, purtroppo, per inquinare.
Questo è in realtà l’uso meno nobile che se ne può fare: il 12% del petrolio consumato ogni giorno non è bruciato, è utilizzato come materia prima nel settore petrolchimico per produrre polimeri (plastiche) e una miriade di altre sostanze di sintesi; il gas naturale è invece materia prima per produrre i fertilizzanti azotati, fondamentali per mantenere la produttività agricola con le tecniche intensive moderne.
Se è vero che molti utilizzi petrolchimici degli idrocarburi sono in realtà sprechi e potrebbero essere ridotti con stili di vita più sobri (uno tra tutti la plastica che finisce in mare) è anche vero che alcuni utilizzi sono fondamentali per il nostro benessere e lo saranno anche nella transizione alle fonti di energia rinnovabile. Si pensi alle gomme dei mezzi di trasporto, all’utilizzo di dispositivi monouso in ambito sanitario, alle guaine dei cavi elettrici, ai pannelli per la coibentazione degli edifici, ai prodotti per l’igiene e ai farmaci.
In un futuro in cui rinnovabili ed efficienza energetica avranno sostituito i combustibili fossili, petrolio e gas naturale saranno ancora necessari (e insostituibili) come materie prime.
La velocità con cui sinora abbiamo consumato il patrimonio italiano di gas e petrolio dovrebbe farci riflettere e valutare seriamente se non sarebbe più saggio conservare quel poco che rimane per tramandarlo alle future generazioni come materia prima essenziale.

STIAMO SFRUTTANDO TROPPO IL MARE

Torniamo un attimo al Referendum del 17 Aprile. Come abbiamo già scritto, si tratta di non rinnovare via via le concessioni che arriveranno a scadenza entro le 12 miglia marine. L’impatto sulla produzione nazionale di gas non è facile da quantificare. Quello che abbiamo evidenziato è che adesso dalle concessioni che sarebbero coinvolte proviene una produzione di gas pari al 27% di quella nazionale, ma, con la progressività delle chiusure per il raggiungimento delle scadenze, la produzione “persa” sarebbe ben inferiore in quanto nel frattempo i giacimenti continuerebbero ad essere sfruttati e quindi ad esaurirsi.
A prima vista può sembrare comunque uno spreco, ma se confrontiamo le riserve recuperabili di petrolio e gas con la produzione, evidenziando la collocazione tra terra e mare, si scoprono due fatti importanti (vedi Fig. 7 e 8):
  1. stiamo esaurendo le riserve di gas più velocemente di quelle di petrolio;
  2. stiamo esaurendo le riserve di gas marine ad una velocità ben superiore rispetto alle riserve di gas terrestri.
riserve in terra e mare produzione in terra e mare
Fig. 7 e 8. Ripartizione delle riserve e della produzione di petrolio e gas, tra mare  e terra. Si osservi come l’esaurimento delle riserve di gas marine avvenga ad una velocità quasi doppia rispetto a quelle terrestri. Fonte:  MISE-DGRME, Rapporto annuale 2015.
In termini di energia contenuta (Mega tonnellate equivalenti di petrolio), le riserve recuperabili di petrolio sono il doppio di quelle di gas ma la produzione annua di gas e petrolio è praticamente uguale. Inoltre le riserve recuperabili di gas sono distribuite più o meno egualmente tra terra e mare, ma la produzione marina è circa il doppio di quella terrestre.
Quindi il referendum avrebbe sia l’effetto di riallineare la velocità di esaurimento dei giacimenti di gas marini a quelli terrestri, sia quello di rallentare complessivamente la produzione di gas, troppo elevata rispetto a quella di petrolio.

CONCLUSIONI

Il gas naturale ha fatto le fortune energetiche ed industriali dell’Italia del secondo dopoguerra, ma sono oltre vent’anni che la sua produzione nazionale è in calo. Ormai le riserve ancora recuperabili non bastano più nemmeno per coprire i consumi italiani di un anno e mezzo. Va un poco meglio per il petrolio, per cui si arriva a due anni e mezzo.
La ricerca di nuovi giacimenti, dopo 70 anni di esplorazione, è avviata verso la sua morte naturale, soprattutto in mare dove da 6 anni non si perforano più pozzi esplorativi.
L’avventura fossile dell’Italia è ormai in declino. Nuovi giacimenti da scoprire ce ne sono ormai ben pochi e pare interessino sempre meno alle compagnie petrolifere.
Petrolio e gas naturale saranno materie prime essenziali per la società e la transizione energetica verso le rinnovabili ancora per moltissimo tempo, è bene conservare quel poco che rimane per le generazioni future lasciandolo dov’è. Gas e petrolio sono rimasti intrappolati per decine di milioni di anni, non scompariranno certo nei prossimi 100. L’occupazione (poca [3]) e i proventi (marginali [4]) li possiamo lasciare anche ai nostri nipoti.
A nessuno con un minimo di visione strategica verrebbe mai in mente di nazionalizzare e vendere alla svelta le riserve auree della Banca d’Italia o la quota ENI ancora detenuta dallo Stato o le terre del demanio pubblico o i beni artistici statali come la Galleria degli Uffizi.
Allora perché c’è questo imperativo di accelerare al massimo la morte fossile del nostro paese? Di rimanere a secco e alla mercé di paesi politicamente instabili come quelli del Nord Africa e del Medio Oriente?
Possiamo escludere con certezza che non ci saranno crisi petrolifere in futuro e che non avremo mai maggior bisogno di quel gas di quanto ne abbiamo adesso?
Se non vogliamo lasciare solo un paese paese pieno di debiti e senza risorse naturali ai nostri figli e nipoti, allora il referendum del 17 aprile rappresenta l’inizio per cambiare strada.
Per iniziare a pensare al futuro del nostro Bel Paese.
Note
[1] Le riserve certe, probabili e possibili sono definite a livello internazionale come le quantità stimate di idrocarburi che, sulla base dei dati geologici e di ingegneria di giacimento disponibili, potranno essere commercialmente prodotte con rispettive probabilità del 90%, 50% e 10% nelle condizioni tecniche, contrattuali, economiche ed operative esistenti al momento considerato. Non sono quindi stime assolute, ma variano in funzione delle informazioni geologiche, delle tecnologie considerate e del prezzo del barile.
[2] Questa è la prassi utilizzata dal DGRME nei suoi Rapporti Annuali. Si veda ad esempio il Rapporto del 2003 a pag 14.
[3] Una delle poche stime citabili dell’occupazione impiegata nel settore dell’estrazione di idrocarburi proviene dalla Fondazione Eni Enrico Mattei, che per la Val d’Agri (Basilicata) da cui proviene il 65% della produzione nazionale, evidenzia un’occupazione, diretta e dall’indotto, di circa 4200 persone.
[4] Si veda le stime nel post precedente “le bufale sul referendum del 17 Aprile“.

LA GUERRA ASIMMETRICA

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da  http://www.senzasoste.it/internazionale/bruxelles-l-europa-piomba-nella-guerra-asimmetrica

bruxelles attentatoLa serie di attentati di Bruxelles per quanto sia, come di consueto, devastante negli effetti sulle persone, sulle famiglie delle vittime e dei feriti, sulle popolazioni che vivono nel terrore mostra un tratto di differenza con le vicende parigine di novembre e di gennaio 2015. Tratto che va letto con una certa nettezza: mentre gli attentati parigini sembrano ancora un affare francese, la stessa solidarietà alle vittime si esprimeva come vicinanza ai simboli parigini delle stragi, la vicenda belga porta con sè la cifra della guerra asimmetrica contro il continente.
Naturalmente per il ruolo del Belgio che non ha peso in sé in Medio Oriente ma è sede di due importanti, per quanto irrigiditi da una forte complessità interna, attori nell’area: la Nato e le principali sedi della governance europea (colpite, tra l’altro, in modo sanguinosamente simbolico nell’attentato alla metro Maelbeek).
La guerra asimmetrica –quella che si conduce tra i vari scenari mediorientali verso l’Europa- non riguarda più, di volta in volta il singolo paese colpito ma un’area continentale. Non siamo più infatti alla Francia –o alla Gran Bretagna o alla Spagna- che sono colpite per i ruoli che rivestono in uno scenario di crisi (la Francia per la Siria o, a suo tempo, per il golpe algerino mentre la Gran Bretagna e la Spagna sono state colpite per la guerra in Iraq). Ma siamo, entro una evidente risposta all’arresto di Salah, alla guerra asimmetrica di un’area contro un’altra. O meglio, siamo ad un livello di scenario complesso, quello mediorientale, con una pluralità di attori controversi al proprio interno, che muove guerra asimmetrica contro un’altro livello: quello europeo che mostra caratteristiche simili anche se se, ovviamente, di una complessità politica,logistica, tecnologica, militare ben diversa. Ci sta benissimo che chi ha mosso un simile atto di guerra a Bruxelles sia velocemente annichilito ma, il rischio c’è, è che si apra una nuova stagione di lutti.
Certo, bisogna aver ben chiaro cosa è una guerra asimmetrica ma, prima di tutto, definire il piano delle responsabilità. Tanto più si è deteriorato il Medio Oriente come piano neo-coloniale, dove tutti, dalle potenze dell’area alle tradizionali potenze occidentali, provano a sottomere tutti, tanto più la guerra si è estesa in occidente. Come guerra asimmetrica dove le difficoltà dell’Europa servono per ridefinire i rapporti di forza sul terreno mediorientale. Non a caso le guerre asimmetriche, quelle che si combattono tra attori tra cui esiste una sproporzione di forze militari convenzionali, nel passato sono principalmente guerre che riguardano la conquista o la perdita di colonie: quella di indipendenza americana, quella ferocissima tra Usa e Filippine per il controllo di quel paese tra ‘800 e ‘900, la guerra anglo-boera in Sudafrica. Come si vede, non si tratta, come ha detto Broek della commissione affari esteri dell’Ue nella concitazione del momento, di “una guerra di tipo nuovo”. Ma di una guerra asimmmetrica che tende a ripetersi, in forme nuove, ogni volta che gli squilibri coloniali precipitano. La guerra asimmetrica, tra due attori la cui entità militare non è paragonabile, dura finché ha due caratteristiche 1) quando la guerra classica, sul campo si è impantanata oppure è sempre meno determinante per risolvere la crisi 2) quando fattori mediali, politici, diplomatici, finanziari se opportunamente stimolati dagli atti di guerra asimmetrica, possono cambiare le sorti di un conflitto a favore della parte più debole militarmente.
valigia BruxellesNaturalmente le guerra asimmetriche, se la situazione sul campo non si risolve, possono essere lunghissime. Possono alimentare una resistenza del più debole militarmente sul campo e una serie di attentati, nel terreno avversario, di impatto spettacolare. Fino a che uno degli attori non cede. Ma il campo, Europa e Medio Oriente, oggi è così complicato che è difficile individuare bene il profilo di uno degli attori e, quindi, persino i possibili segnali del cedimento di uno dei due.
Dagli anni ’90 l’occidente, nella specificità del paese singolarmente colpito, ha vissuto la guerra asimmetrica. Gli Usa per l’Afghanistan, la Francia per l’Algeria negli anni ’90 e oggi per la Siria, la Spagna e la Gran Bretagna per l’Iraq. Con Bruxelles della guerra asimmetrica viene investita l’Europa nel suo complesso. Se c’è una logica militare, da guerra asimmetrica, in questo lo è nell’unificare il soggetto nell’attentato (l’Europa) sapendo che può finire fuori strada proprio per le contraddizioni interne a questo processo di unificazione. Sun Tzu non abita solo in Cina è bene saperlo.
Cosa ci si attende dal dopo attentato di Bruxelles? Naturalmente il peggio, il rilancio del tentativo di risolvere la guerra asimmetrica militarizzando la vita interna dei paesi, rafforzando complesse architetture militari, radicalizzando le tendenze più velenose sul terreno di guerra. L’Europa magari sarà tentata di allargare i bilanci di guerra non ci sarebbe da stupirsi. Di sicuro la legittimazione della militarizzazione di ogni nesso sociale –dalle migrazioni, alla vita civile, a quella istituzionale- non mancherà la propria liturgica pienezza. Vediamo se l’Europa finirà per votarsi i propri crediti di guerra. Se accadesse, l’inferno sarebbe dietro l’angolo. Perchè non sembrano proprio i tempi in cui alle guerre asimmetriche si risponde aggredendo i nodi non militari di questo genere di conflitto.
Appena il giorno prima, attraverso il lutto che è sempre la forma più elevata di legittimazione dei comportamenti della vita sociale, l’Europa celebrava la generazione Erasmus nella tragedia del pullman in Spagna. Il fermo immagine del giorno successivo, quello di Bruxelles, fa capire che la generazione Erasmus riguarda la vita di un passato. E il presente, e il futuro, hanno tutte le caratteristiche del cielo plumbeo di Bruxelles. Un benvenuto agli europei, visti nel loro assieme, nella guerra asimmetrica prevedibile quanto inquietante.
redazione, 22 marzo 2016

IL PUNTO SULLE TRIVELLE

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di Andrea Boraschi


C’è una nota che sta facendo il giro del web. L’ha scritta una giovane donna, si chiama Michela Costa. È un testo piuttosto lungo, molto parziale, disinformato, tendenzioso. A oggi ha fatto oltre 13mila condivisioni.
Faccio campagne (ora per l’ambiente, prima di altra natura) per professione e da diversi anni. Lo so (mi spiace: lo so) che una cosa come quella scritta da Michela non arriva ad avere l’impatto che sta avendo per caso. Che di fenomeni “spontanei” come questo, in sostanza, non ne esistono. C’è un’agenzia (almeno una, a quanto ne so) che sta lavorando sul buzz in rete e sui social, con grande efficacia e con una capacità di far circolare disinformazione senza pari. Ma lasciamo stare, questo conta poco…
Invece parlo a te, Michela, che hai voglia di pensare con la tua testa. Parlo a te che non ti bevi le balle di noi ambientalisti, ma sei invece golosa di quelle dei petrolieri. Tutto il tuo ragionamento poggia sulla (casuale?) mancanza di alcuni dati. Hai scritto ben 8 motivi per starsene a casa il 17 aprile, per astenersi dal voto sulle trivelle, ma fanno tutti riferimento a due o tre cose:
- In questo referendum non c’è in gioco il petrolio, ma soprattutto il gas;
- se ci priviamo di quella quota di produzione la dovremo rimpiazzare: vuol dire che saranno costruite nuove piattaforme oltre le 12 miglia o che dovremo importare nuove quote di fossili, scaricando su altri Paesi la nostra impronta energetica e aumentando il traffico di “petroliere” (ma scusa, non hai detto tu che parlavamo di gas?), con un aumento di rischio ambientale per i nostri mari.
Poi ci sono argomenti “secondari”, per così dire, nella tua argomentazione: il referendum è “illegittimo” perché fa leva sulla disinformazione dei cittadini; non è vero che le piattaforme danneggiano il turismo; la vittoria del SI non si tradurrebbe in un sostegno alla crescita delle rinnovabili, che comunque da sole non bastano; le trivellazioni non inducono terremoti.
Ecco: sei una geologa, mi par di capire. E questo spiega perché di energia tu ne sappia poco. Come io so poco di geologia, del resto. Questo non ti esonera, per contro, dal documentarti prima di scrivere, dal momento che hai desiderio di esprimere le tue riflessioni e rivolgerti all’opinione pubblica invitandola a non votare. Allora Michela, senti un po’…
- Entro le 12 miglia c’è sia petrolio che gas. Il progetto Ombrina Mare, recentemente bloccato dai provvedimenti presi dal governo per disinnescare l’iniziativa referendaria, era petrolio. Ugualmente dicasi per il campo oli Vega, nel Canale di Sicilia, dove entro le 12 migliadoveva sorgere la piattaforma Vega B. Entro le 12 miglia, in Adriatico, c’è tuttora operativo il campo oli Rospo, e anche le piattaforme Sarago estraggono petrolio;
- a oggi le piattaforme interessate dal referendum (che non verrebbero fermate all'indomani del voto, ma solo negli anni, progressivamente, in virtù della scadenza della loro concessione) producono solo il 3% del fabbisogno nazionale di gas. Di petrolio se ne estrae ancor meno, lo 0,8%.
- si tratta di quantitativi irrisori, che verranno riassorbiti dal calo costante del consumo nazionale di idrocarburi (negli ultimi 10 anni i consumi di petrolio e gas si sono ridotti, rispettivamente, del 33% e del 21,6%) o che possono essere compensati da misure minime di incremento dell'efficienza energetica o di elettrificazione dei consumi, senza dover essere rimpiazzate da un incremento di importazioni fossili.
Insomma no Michela, non stiamo facendo gli ambientalisti in casa nostra a spese dell’inquinamento altrui. Non saranno le piattaforme che chiuderemo in Italia a trasformare qualche Paese povero in un nuovo ‘inferno fossile’. E no, cara Michela: non ci sarà nessun aumento dei traffici di idrocarburi in conseguenza di questo referendum. E manco costruiremo nuove piattaforme. Il fatto poi che quelle esistenti producano così poco dovrebbe suggerirti che no, non c’è “un botto” di gas residuo da estrarre (guarda che “botto”, parlando di piattaforme, è inquietante!). Quei giacimenti sono di fatto già oggi esausti.
Potresti dirmi: ma se queste piattaforme producono così poco, ma che male fanno? E te lo dico volentieri che male fanno: i dati che Greenpeace ha recentemente reso pubblici – che sono dati di proprietà di ENI, relativi a monitoraggi ambientali realizzati da ISPRA per conto dell’azienda – dicono che le fantastiche, innocue e preziose piattaforme a gas che a te come ad altri sembrano piacere assai… in 3 casi su 4 sforano i parametri ambientali previsti dalle normative. I sedimenti raccolti nei pressi di queste strutture, così come i mitili analizzati, sono pieni di metalli pesanti e idrocarburi, di sostanze tossiche e cancerogene in grado di risalire la catena alimentare. Spesso, troppo spesso, le concentrazioni di queste sostanze sono fuori norma.
Ti voglio dire altre due o tre cose.

Il referendum non è “illegittimo” perché c’è poca informazione. Magari a te non piace la democrazia… a me si, invece, e tanto. L’unica cosa illegittima in questa storia è la cappa di silenzio che sin qui ha tenuto gli italiani all’oscuro delle informazioni che invece dovranno orientare le loro scelte.
Le piattaforme non danneggiano il turismo? Beh, lascialo decidere agli operatori del settore, che si stanno tutti mobilitando per sostenere il referendum.
Le trivelle non causano terremoti? Greenpeace di terremoti non ha mai parlato, ma di subsidenza dei territori costieri si. Tu che sei geologa ti dimentichi proprio di questo aspetto parlando di impianti che sono di fronte a territori – quelli del ravennate ad esempio - che si inabissano a una velocità terribile?
E infine, queste tanto bistrattate rinnovabili… se 10 anni fa avessimo detto che nel 2016 avrebbero prodotto il 40% dell’elettricità ci avrebbero dato dei visionari. Ecco, mi spiace dirtelo: noi siamo i visionari. E di solito ci prendiamo più di voi “(ottimisti e) razionali”… Molto di più.
Michela, hai a cuore l’ambiente ma non vuoi definirti “ambientalista” perché quella parola «come “fondamentalista” e “integralista” denota un estremismo spesso privo di qualsiasi tipo di raziocinio”». Che dirti? Forse quella parola ricorda una qualche misura di intransigenza… ma sai: a me fa pensare a cose belle, tipo “pacifista”, “umanista” e altre ancora. E comunque la preferisco – che so? – a lobbysta. E di lobbysti, al soldo delle aziende che difendi, ce ne sono sin troppi.
Il 17 aprile te ne starai a casa. Io andrò a votare, e voterò SI per fermare le trivelle. Ho una figlia di soli sette anni e mezzo: spero che quando avrà la mia età vivrà in un Paese più intelligente, più coraggioso e meno inquinato di questa Italia qua. Per questo faccio la mia parte.

Ciao. 


EASTER SUNDAY MAGAZINE

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Primavera 1938

Oggi, domenica di Pasqua, presto
un’improvvisa tempesta di neve
si è abbattuta sull’isola.
Tra i cespugli verdeggianti c’era neve. Il mio ragazzo
mi ha portato verso un piccolo albicocco attaccato alla casa
strappandomi ad un verso in cui puntavo il dito contro coloro
che stanno preparando una guerra che
può cancellare
il continente, quest’isola, il mio popolo,
la mia famiglia e me stesso. In silenzio
abbiamo messo un sacco
sopra all’albero tremante di freddo

                              
(Bertolt Brecht)

IL PROFETA ELETTRICO

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da http://ilmanifesto.info/cruyff-imprendibile-funambolo/

Sport. A 68 anni muore l'alfiere del calcio totale negli anni '70, l'ultima età dell'oro del football popolare, non ancora stretta fra diritti televisivi e procuratori. Maestro dentro e fuori dal campo quando parlava di responsabilità del calciatore e della necessità di aiutare i compagni in difficoltà



Probabilmente gli anni Settanta sono stati l’ultima età dell’oro del calcio popolare. Niente paytv, niente protagonisti e procuratori ricoperti d’oro, un sano rapporto tra pubblico e squadra cementato dalla partita della domenica. Di quell’epoca Johann Cruyff, funambolo imprendibile, capellone con pelliccia sintetica, stella del collettivo olandese, è stato il simbolo fulgido e straordinario, uno tra i più grandi campioni di tutti i tempi (come Pelè per i sixties e Maradona per gli eighties). Nel calcio orange, la meraviglia dell’epoca guidata in panchina da Rinus Michaels, che puntava forte sulla condizione atletica, sulla tecnica individuale (e anche i terzinacci dovevano saper controllare bene la sfera) e sulla disposizione in campo, occupando tutte le zone nevralgiche, Cruyff è uomo-squadra per eccellenza, che costruisce, dirige e segna nell’Ajax e nella nazionale dalla brillante divisa arancione (senza nomi senza sponsor), con tanti compagni (da Neeskens a Rensebrink, da Krol a Suurbier) simili a modelli di stile, con quei capelli lunghi, il fisico asciutto e l’andatura dinoccolata.
Il numero 14 sembra un motorino che girava freneticamente attorno alla palla per eludere i difensori avversari, con un grande senso dell’anticipo riusciva a salvare gambe e pallone, andando sia in profondità sia svariando a destra o a sinistra (era ambidestro e segnerà spesso anche di testa) , tra una finta, un dribbling e un cambio di direzione, senza mai dimenticare il piacere e l’allegria di giocare a calcio. Quello scatto in avanti che dal campo di gioco è finito anche dentro la società civile, il suo stile sovversivo e provocatorio lo farà subito schierare con gli oppositori del generalissimo Franco (quando passerà al Barcellona nel 1973) così come sarà la prima superstar a fumare apertamente giocando a carte in ritiro come i suoi compagni, dipinti come anarchici beatnik (anche per l’abitudine di praticare il sesso con moglie o fidanzate, regolarmente e nei tornei internazionali).
Cruyff alfiere del calcio totale e profeta del gol, secondo la fortunata definizione del film di Sandro Ciotti, parlava di responsabilità sociale del calciatore e della necessità di aiutare i compagni in difficoltà. Ancora oggi molti vedono la mano (e il piede) dell’olandese volante nello stile vincente e collettivo del Barcellona, dove Cruyff ha seminato a lungo e bene (nei 9 anni trascorsi alla guida dei blaugrana ha vinto 4 campionati spagnoli e una Coppa dei Campioni) finendo per passare gran parte del tempo nel suo ranch in Catalogna. Un uomo che ha dispensato gioia in tutto il mondo, con leggerezza e impegno, sorridendo e giocando. Per epitaffio userei le sue parole, riferite alla nazionale del 74 «La leggenda può trarre linfa anche da una sconfitta, soprattutto se giochi bene e se lasci un buon sapore in bocca ai tifosi…anche quando perdi, il bel calcio perdura nella memoria…».

REGENI: UNA VERITA' POCO VERA...

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da http://popoffquotidiano.it/2016/03/25/giulio-regeni-la-giustizia-sommaria-del-regime-al-sisi/

Uccisi i 5 presunti rapitori di Giulio. Prove superficiali, mezze verità, smentite e depistaggi. Così aumentano i sospetti sul possibile coinvolgimento del regime di al-Sisi

di Mauro Saccol*
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A due mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni, il Ministero dell’Interno egiziano ha emanato un comunicato in cui si afferma che le forze di sicurezza avrebbero trovato e ucciso i suoi sequestratori e aguzzini. Nell’appartamento della sorella di uno dei componenti della presunta “gang” di rapitori, inoltre, sarebbero stati rinvenuti i documenti di Giulio (passaporto e tesserino universitario) e altri oggetti a lui appartenuti.
Tuttavia, tale versione non può certamente mettere una pietra sopra su quanto accaduto, poiché presenta troppe falle per risultare credibile. Innanzitutto, seppur il Ministero abbia affermato come la banda fosse specializzata in furti e sequestri di turisti e stranieri, negli ultimi mesi in Egitto nessuna ambasciata o consolato straniero ha riportato eventi di questo tipo. Inoltre, i membri della suddetta banda sono tutti morti, pertanto non potranno difendersi in un eventuale processo che li veda imputati per la morte del ricercatore italiano. A conferma della fragilità della versione è arrivato un comunicato della Procura del Cairo che ha smentito qualsiasi relazione tra le persone uccise e la morte del nostro connazionale.
La strada intrapresa dal regime egiziano nella risoluzione del caso Regeni era già chiara sin dal principio. I tentativi di depistaggio sono iniziati già dal ritrovamento del cadavere, dapprima affermando come il ricercatore fosse morto in un incidente stradale, poi come fosse stato rapito e ucciso da terroristi, in seguito con l’arresto di alcuni delinquenti comuni (poi rilasciati), per proseguire con il presunto ritrovamento di un video che riprendeva una colluttazione, vicino al Consolato italiano, in cui Regeni era coinvolto.
Il governo italiano ha emanato un comunicato affermando che si faccia piena chiarezza sulla questione, tuttavia si potrebbe fare ancora più pressione sul regime egiziano. Uno stato di diritto, qual è quello italiano, non può permettere che, in una questione così seria, vengano fornite verità di comodo o spiegazioni frettolose. Uno stato di diritto, fondato sul rispetto della vita umana, della Costituzione, delle leggi, non può accettare che i responsabili di un simile crimine siano dei cadaveri che non possono più parlare e difendersi; non può accettare che gli interessi economici prevalgano sulla ricerca di una verità che appare sempre più coperta da una coltre di nebbia creata ad arte; non può accettare che vengano fornite prove superficiali o, peggio ancora, che le stesse prove siano eventualmente fabbricate.
Ciò che la famiglia e gli italiani vogliono non è una giustizia sommaria, bensì un’indagine precisa, dettagliata, condotta secondo i canoni del diritto egiziano e internazionale. Il regime di al-Sisi, negli ultimi due anni, si è contraddistinto per le condanne a morte di massa o sentenze politicizzate. Tuttavia, se in questi casi il regime si giustificava avanzando il principio della sovranità nazionale, nella vicenda Regeni tale barriera non potrà riparare l’Egitto dall’assumersi le proprie responsabilità.
I continui palliativi che il regime sta tentando di fornire all’opinione pubblica internazionale non fanno altro che aumentare i sospetti, già forti sin dall’inizio, che lo Stato egiziano sia direttamente implicato in tale questione. Se al-Sisi voleva distogliere l’attenzione internazionale dal suo paese, con queste mosse infantili ha ottenuto solamente l’effetto contrario.
*Dottorando in Democrazia e diritti umani presso l’Università di Genova
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