da http://www.senzasoste.it/nazionale/il-2016-del-sistema-bancario-italiano-la-grande-implosione
“stai parlando di un infinito accordo sul nulla”. (Shakespeare, Il mercante di Venezia)
Questo per dire cosa: l’impressionante nanismo politico della sinistra istituzionale è frutto anche di due fattori
1) illudersi che una volta imposto un tema sul welfare genere “beni comuni” all’opinione pubblica comporti il fatto che questo tema diventi realtà (e il referendum sull’acqua dovrebbe aver insegnato qualcosa) senza oltretutto porsi il problema vitale ovvero come modellare un sistema economico-finanziario adatto ad un nuovo welfare inclusivo
2) credere alla propaganda della regolazione, ossia all’esistenza di una banca centrale europea che, per quanto ordoliberista, sia autorità terza, potere autonomo rispetto a quello che viene chiamato il mercato. Invece non solo la Bce ma anche la Federal Reserve, che è già prestatrice in ultima istanza (e quindi garante dei bond americani), hanno un livello di indebitamento tale da non renderle autonome dai mercati. E così arrivano proposte, come i famosi prestiti in ultima istanza per garantire i bond, buone forse una crisi fa (debito sovrano 2010) o magari due (crack Lehmann 2008). Ma nettamente insufficienti oggi quando la massa dei titoli tossici a giro per il pianeta, e la complessità del loro livello di intreccio con le banche centrali, è ben superiore anche alla crisi del 2008.
Altro che ragionevoli proposte da avanzare sulla Bce, emerge invece una indistinguibilità tra banche centrali ed hedge fund che è un problema drammatico, se non mortale, per ogni welfare. Ma più vai a sinistra più trovi infervorati credenti del ruolo regolativo della Bce: per qualcuno avrebbe resto irreversibile l’euro e quindi posto le condizioni obbligatorie per l’integrazione continentale dei movimenti (e qui l’ottimismo della volontà regredisce, spiace dirlo, a metafisica wolffiana); per altri la banca centrale europea dovrebbe recepire le direttive della politica (come se chi ha connesso il continente, guarda caso, a partire dalla moneta non avesse attrezzato una impressionante complessità di livelli di governa proprio per difendersi da questa ipotesi). E tutto quando il problema è un altro: con le banche centrali ostaggio dei mercati finanziari il ruolo regolatore di queste ultime esiste solo nei talk-show. E’ bene quindi sempre ricordarlo: la finanziarizzazione del mondo è tale da rendere inutile ogni minimalismo riformista.
In questo scenario, appare la crisi delle banche italiane. Crisi che tocca l’economia ma anche la struttura stessa del potere italiano e le forme della governamentalità (quali sono il prestito e il risparmio, strumenti direttamente biopolitici in quanto da sempre prodotto dell’incrocio tra complessità finanziaria ed evoluzione tecnologica). Si tratta di una crisi che ben lontano dall’essere tecnica, quindi problema di gestione o di efficienza, porta invece con sé le gravi difficoltà a venire del potere e dell’economia di questo paese. Facendoci anche capire in quale tipo di società stiamo entrando con la seconda metà degli anni ’10. Quella di una società dove si fa sempre più stringente la difficoltà di accesso alla liquidità. In un mondo dove complessità e liquidità sono intrecciate quasi come una seconda natura.
In questo scenario la crisi delle quattro banche “salvate” dal governo Renzi è la spia di una crisi sistemica e non solo perché, andando a memoria della grande audience, prima ancora c’è stata la crisi del Monte dei Paschi. Su Senza Soste ne abbiamo già parlato, fissando alcuni punti della crisi delle banche italiane come riflesso della crisi delle banche europeehttp://www.senzasoste.it/nazionale/magari-fosse-truffa-qualche-punto-fermo-sulla-crisi-del-sistema-bancario-italiano?jjj=1451129110648
Il punto adesso è capire dimensioni e futuro della crisi delle banche italiane soprattutto nel loro rapporto all’economia. E qui forse niente meglio di un grafico dell’Economist ci fa, quantomeno comprendere i contorni del problema
In (veramente) poche parole la crisi del sistema bancario italiano, che tutti ufficialmente negavano, si è scaricata in tempo reale sulla società occludendo, e non di poco, la liquidità necessaria non solo al consumo ma anche agli investimenti. E qui sono state le banche, ovviamente prima ancora delle imprese, a guadagnare di più acquistando bond piuttosto che facendo circolare moneta nell’economia reale. Si guardi poi la linea marrone: la contemporaneità della stretta del credito con la repentina, fortissima crescita dei non performing loan (crediti in sofferenza di varia natura).
Nel periodo che va dal 2007 ad oggi le banche italiane hanno quindi trovano non profittevole investire nell’economia reale. Il risultato è evidente: un modello di business dove i soldi si investono solo nel mercato dei soldi, togliendo liquidità nel momento in cui la società ne ha più bisogno (anche per investire nel futuro), ritrovandosi oltretutto la veloce crescita di una marea di crediti in sofferenza (frutto della crisi di questi anni). Un cerchio sinistro quindi, fatto di prestiti negati e di crediti in sofferenza che si rincorrono reciprocamente ed infinitamente. Sinistrando ogni livello della società, dalle reti familiari, alle imprese all’amministrazione.
Si capisce quindi come il sistema bancario italiano sia stato un moltiplicatore della crisi, sociale e della produzione di valore, interna alla crisi del nostro paese. Ecco serviti, e sul campo, gli specialisti della retorica delle privatizzazioni anni ’90 che teorizzavano come la privatizzazione delle banche avrebbe introdotto efficienza sia nel sistema finanziario che in quello economico. Alla prima seria criticità, come quella di questi anni, società ed economia hanno visto moltiplicata la loro crisi perché semplicemente scaricate dal sistema bancario privatizzato (che ha socializzato i rischi e privatizzato i guadagni come sempre). E tutto questo in epoca di “governo” della Bce che, a partire dal 2011, ufficialmente avrebbe immesso centinaia e centinaia di miliardi di euro nel sistema bancario europeo. Formalmente, fermandosi al caso Italia, per immetterli nell’economia ma di fatto per collocarli nei bilanci delle banche o nei circuiti finanziari. Alimentando così in Italia un classico della doppia crisi del capitalismo: quella dell’economia, che così non ha liquidità per produrre valore nel rapporto di produzione, e quella della finanza che così ha liquidità ma per produrre bolle finanziarie (che finiscono per danneggiare persino la rendita visto il deterioramento dei tassi di interesse per troppa liquidità). Del resto che il capitalismo sia un serpente che conosce miriadi di modi per mangiare sé stesso è noto a chi guarda la realtà in faccia.
Per fermarsi al rapporto banche-economia reale, perché il discorso potrebbe prendere miriadi di percorsi di analisi, vale quindi la pena di indicare quanto oggi i non performing loan, ovvero i crediti in sofferenza nel suo complesso, pesino sul Pil italiano. Questo per capire, al di là di un Renzi che politicamente sopravvive solo perché distaccato dal mondo reale quanto radicato nella propria cerchia di potere, quanto sia forte il peso del disastro economico degli ultimi anni (quello minimizzato da tutti i governi in carica e, come abbiamo visto, acceleratosi a partire dal 2007).
1) Avere pochi non performing loan non significa non essere in crisi economica seria (vedi la posizione della Finlandia oggi in un vicolo economicamente cieco)
2) L’Italia è persino dietro a paesi in crisi come il Portogallo o a paesi, nonostante il Pil positivo degli ultimi anni, che hanno avuto una severa bolla immobiliare come la Spagna.
La crisi dei crediti in sofferenza, riflesso di quella del sistema economico italiano che non riesce a ripagare i debiti contratti causa disgregazione economia nazionale, come si vede non è una questione di nicchia. Ma un fenomeno serio che, fatte le dovute proporzioni, pesa quasi il 18% del Pil. A differenza però di paesi come Irlanda e Spagna, che precediamo e ci precedono in questa speciale classifica, l’Italia non è riuscita a creare una badbank. Ovvero un contenitore dove buona parte di questi crediti in sofferenza o inesigibili finiscono, sotto garanzia dello stato, liberando il sistema bancario. Il peso, e il potenziale esplosivo, di questi crediti deteriorati è quindi tutto sulle spalle del sistema bancario italiano già di per sé, come abbiamo visto, strutturato per scaricare ogni criticità al proprio esterno.
Il punto è quindi vedere quanto sta crescendo il fenomeno del non performing loan in questa crisi. Niente di meglio, per vedere da vicino la velocità di crescita del fenomeno, di questo grafico della testata di studi strategici Stratfor.
Come si vede la velocità, con la crescita in volume, della crisi dei crediti in sofferenza è tale da rischiare, per il 2016, di far saltare, o seriamente sinistrare, un sistema bancario nazionale oltretutto sottocapitalizzato. Con serie ricadute su economia e società.
La crisi dei non performing loan è una, non la sola, delle grosse cause che hanno portato al botto delle quattro banche salvate per decreto da Renzi poche settimane fa. Ma è sicuramente la causa in cui economia e bancario si toccano più da vicino. Ora il punto è che, con questo livello di velocità crescita dei non performing loan, non solo per le quattro ma anche per le altre banche si prospettano problemi seri. Per esserne consapevoli basta vedere l’altro livello dei crediti impaired (deteriorati) che già nei primi quattro mesi del 2015 è quasi doppio di quello di tutte le sofferenze del 2008, e l’altrettanto alto livello di crescita quellisubstandard (scadenti). Il rischio crisi sistemica per le banche italiane, prese nel loro complesso, quindi c’è ed è molto forte e cresce velocemente. Certo, magari con qualche compromesso a Bruxelles, le banche italiane se la cavano ma prima devono superare quest’ostacolo dei non performing loan che crescono a questa velocità. Insomma il problema c’è, tocca quasi il 20% del Pil e rischia di crescere.
E qui le modalità di chiusura della crisi delle quattro banche delle scorse settimane non promette niente di buono. Non solo perché, grazie alle regole imposte da Bruxelles, le quattro banche si sono blindate dalle possibili cause legali dei risparmiatori rimasti all’asciutto. Ma soprattutto per le modalità di composizione del bilancio di queste quattro banche, che Bruxelles vuole estendere anche alle altre banche italiane. In poche parole, le quattro banche “salvate” hanno potuto, come riporta correttamente il Fatto, secondo indicazione europea mettere a bilancio come attivo le sofferenze (i non performing loan) solo per il 17% del loro valore complessivo. Va notato che fino ad adesso le banche, quelle non “salvate”, hanno a bilancio tra gli attivi il 43% di non performing loan.
Si capisce che di fronte a questo genere di contabilità, viste anche le recenti direttive europee, le banche italiane sarebbero costrette a forti accantonamenti per ammortare i rischi e severe ristrutturazioni del debito. Si ridurrebbe così ulteriormente, quando non drammaticamente, lo spazio della liquidità disponibile per imprese, famiglie e persone. In un avvitamento di una spirale fatta di crisi del sistema bancario, sua ristrutturazione e crisi economico-sociale che potrebbe curvare in modo ancora più stringente, e sofferente, persino rispetto al recente passato.
Il sistema bancario nazionale è quindi di fronte al rischio di grosse crisi e a nuove regole, come quelle del bail-in di cui il “salvataggio” delle quattro banche rappresenta una prova d’orchestra meno dura del debutto previsto, alla vigilanza europea in vigore dal primo gennaio; in uno spazio europeo dei capitali in formazione che rischia di mettere seriamente in crisi, per il 2016, il rapporto credito-economia-società per come l’abbiamo conosciuto nell’ultimo ventennio. Il rischio è che il tutto si sovrapponga alla velocità di crescita dei non performing loan, così pesanti rispetto al Pil italiano, e che le crisi annunciate dal rialzo americano dei tassi di interesse possono innescare una dinamica:
1) di crisi generalizzata del banking italiano
2) di conquista dall’estero in modo da imporre solo le condizioni di credito favorevoli al conquistatore e non all’economia nazionale o a quelle territoriali. Puro colonialismo per via bancaria e finanziaria, dagli effetti sociali devastanti, nei confronti del quale chi si riempie la bocca con l’accusa di sovranismo, verso chi fa notare questi problemi, farebbe bene a prestare attenzione (per non essere sommerso dal ridicolo o, un giorno, rincorso dalle folle).
Tutto questo avviene dopo che l’intero 2015, oltre ai problemi analizzati, ha evidenziato altri problemi: la questione della riforma delle banche popolari (che, trasformandosi in Spa rischiano di far fare il bagno di sangue ad azionisti e clienti); la politica di tassi bassi della Bce (che erode i margini di guadagno delle banche sui bond nazionali facendo pesare ancora di più i non performingloan); la eccessiva disponibilità di immobili da parte delle banche (che in ogni caso condiziona il mercato della casa come la concessione del credito); la concorrenza spietata, a colpi di ribasso, da parte degli operatori nel settore (altro fattore di erosione dei margini di profitto in un settore di crisi).
Si spiegano quindi benissimo le tensioni Italia-Germania che sono emerse in queste settimane. Roma rimprovera a Berlino un comportamento che penalizza le banche italiane a rischio forte crisi e, oltretutto, rischia di favorire ulteriormente il protagonismo di banche non italiane sui nostri territori. Scompaginando reti di potere ma anche penalizzando il credito all’economia.
Lo scenario si completa con il forte protagonismo continentale dello shadow banking, nella finanza, e delle forme alternative al credito familiare e personale. La dimensione macro e quella micro del banking, e delle sue crisi, le si possono così complessivamente vedere come un qualcosa in preda a in ristrutturazioni che ricordano la fine del fordismo nell’economia reale. Alla fine del processo, comunque vada, non ci sarà molto delle banche come le abbiamo conosciute, compresa la loro presenza nel panorama urbano.E’ accaduto ieri per la fabbrica sta accadendo oggi per la banca. E le ristrutturazioni sociali che riguardano l’accesso al credito hanno un impatto sulla società, e sulle sue mutazioni, pari a quello che c’è stato con la fine del fordismo.
Il renzismo non è preparato a tutto questo e si vede. Renzi è espressione sia di una dimensione cortigiana, si veda appello a suo favore sul Corsera in autunno, che territoriale del banking (e qui la parola Etruria esaurisce l’argomento). Non deve fare evolvere queste forme di potere ma farle permanere al comando (costi quello che costi come, appunto, per la banca Etruria) E l’alleanza con Serra, che di forme contemporanee del banking ne sa qualcosa, le consulenze di Gutgeld (che è espressione di McKinseyconsulting) mostrano che una cosa è favorire la speculazione l’altra governare positivamente i fenomeni controversi. Insomma Renzi rischia di trovarsi in faccia, prima di quanto immaginato dai suoi stessi avversari, una crisi ed una mutazione più grandi di lui. Quelle delle banche nazionali erose dalla velocità di crescita dei non performingloan. Le stesse banche che attraversano una mutazione pari a quella che è toccata alla fabbrica durante il fordismo
E se la crisi delle banche italiane non esplodesse nel 2016? Il 2017 potrebbe essere anche peggiore, come anno per esplodere, magari con la crisi delle banche nazionali sovrapposta a quella delle banche centrali, a una nuova crisi dell’euro (come ha previsto Munchau, che di analisi ne sbaglia poche, su DerSpiegel) e all’esplosione di qualche grossa bolla finanziaria. In generale basta ricordare l’enorme differenza tra andamento delle economie e valori azionari, o il fatto che già due volte in 20 anni l’aumento dei tassi Usa ha fatto scoppiare bolle, per capire che il barometro volge al brutto stabile.
Certo, magari la creatività contabile e politica magari troveranno il modo di congelare tutto, anche con numeri del genere, e se andrà tutto bene avremouna società ferma, congelata nelle sue fortissime diseguaglianze. E, alla fine, magari il capitalismo inventerà qualcosa. Spesso l’ha fatto. Ma al momento non l’ha fatto e non si vede traccia di invenzioni. E quando lo fa non è che il processo è indolore.
Sinistre, movimenti anche se non necessariamente alleati o pensano, e praticano, qualcosa all’altezza di questo scenario o sono destinate davvero a brutti momenti. Non è un caso che la crisi del 2008 abbia messo proprio questi soggetti all’angolo. Perché si tratta di soggetti che pensano una rivendicazione in termini nazionali quando questa deve essere di tipo continentale. Oppure pensano, e fantasticano, di rivendicazioni sul piano continentale quando il problema va aggredito sul piano locale. Se questi soggetti non metabolizzano scenari del genere, con una società ed un’economia scosse dalle crisi, il populismo fascista alla Salvini non dovrà fare nemmeno tanta fatica per cogliere, alla fine, la vittoria.
Il guitto di Rignano, presidente del consiglio al cui confronto anche De Mita potrebbe sentirsi Pericle, ha invece detto che l’Italia sta ripartendo e che, quindi, testualmente “non ce n’è per nessuno”. Rischia di averci indovinato ma nel senso che è chiaro a tutti: che non ce ne sarà per nessuno, a livello di risorse, per poter condurre una vita degna di essere vissuta.
redazione, 28 dicembre 2015