Integrerei il quarto fattore elencato nell'articolo rifacendomi alle parole del numero uno della Confindustria tedesca, Ingo Kramer, secondo il quale nei prossimi venti anni la Germania avrà bisogno di 500 mila posti di lavoro, lavoro inteso come minijob alla tedesca e dunque poco tutelato e pagato.
I profughi siriani sono tendenzialmente appartenenti alle classi istruite (si sente da come parlano inglese, dalla capacità di organizzarsi, dal livello di conoscenza delle leggi europee) e, prima della guerra, non troppo povere, meno problematici dunque di eritrei o somali o afghani, in quanto tendenzialmente più laici quindi ottimi da immettere sul mercato del lavoro con buone competenze (almeno in potenza) e bassi salari, vista anche la tragedia da cui vengono e che in questo li distingue dai migranti balcanici.
Una previsione, quella dello sviluppo, molto ballerina perchè ancora legata al paradigma sviluppista in una crisi dovuta proprio al modello di sviluppo a cui Kramer si rifà: sovrapproduzione e concentrazione oligolpolista della ricchezza (di qui l'esigenza di tenere bassi i salari) e che difficilmente terrà come niente fosse per altri venti anni, e, come ogni previsione economica sbagliata, capace di generare tensioni e scontri sociali.
da http://ilmanifesto.info/germania-le-ragioni-della-svolta/

di Marco Bascetta
Può cambiare tutto nel giro di poche settimane o addirittura di pochi giorni? La stampa europea fa mostra di crederci. L’egemonia tedesca sull’Europa sembra essersi trasformata d’incanto in una luminosa guida morale. I «valori della cultura europea» mettono in ombra quelli della borsa, la responsabilità storica prende il sopravvento su quella contabile, dall’ultimo rifugiato siriano fino alla cancelliera Merkel tutti insieme intonano l’«Inno alla Gioia». Per qualcuno la «pallida madre» avrebbe addirittura rispolverato lo spirito di Hoelderlin e Heine. L’esagerazione è il pane quotidiano dei media. Eppure qualcosa di nuovo è accaduto.
Berlino, sia pure con molti distinguo di cui non è ancora chiara l’entità, ha rimesso in questione una delle sue creature più care: quell’accordo di Dublino che costringeva i richiedenti asilo a rimanere nel primo paese di approdo. Ha chiamato a un grande sforzo nazionale per fronteggiare l’emergenza dei profughi, ha dichiarato di voler investire sei miliardi dei suoi preziosi risparmi per la sistemazione e l’integrazione dei nuovi arrivati, indirizza l’Unione europea verso politiche responsabili di apertura e di accoglienza.
Questa correzione di rotta è stata determinata da quattro fattori ben più razionali che emotivi. Il primo, decisivo, è la consapevolezza che la pressione migratoria era ormai inarrestabile. Il governo di Berlino ha dovuto infine prendere atto che non esiste barriera materiale o legislativa in grado di arginare la moltitudine in movimento.
Si tratta, dunque, di una vittoria dei migranti, ottenuta a carissimo prezzo, di un risultato della loro straordinaria determinazione. Le frontiere non sono state semplicemente aperte dalla benevolenza dei «padroni di casa», ma travolte da decine di migliaia di persone che esercitavano, prima che qualcuno glielo avesse riconosciuto, il loro «diritto di fuga» e rivendicavano la libertà di movimento. Inoltre bisognava fare in fretta poiché tutto poteva accadere in quell’Ungheria dai tratti sempre più marcatamente fascisti che l’Europa tollera nel suo seno. Aprire la frontiera più che una scelta è stata una necessità.
Il secondo elemento è la scoperta che i sentimenti xenofobi e razzisti non sono affatto maggioritari e neanche così ampiamente diffusi come si credeva. La straordinaria mobilitazione spontanea a sostegno dei rifugiati da Vienna a Monaco a Berlino ha dissipato le ombre disseminate in Germania dai patrioti antislamici di Pegida (ridotti a sparuti gruppuscoli assediati in ogni città tedesca) e dai nazionalisti solo un po’ meno impresentabili di Alternative fuer Deutschland. Di conseguenza il timore che l’apertura agli stranieri dovesse comportare un cospicuo costo elettorale a favore della destra è stato fortemente ridimensionato. Alla fine potrebbe addirittura tradursi in un guadagno per la Cdu di Angela Merkel.
Il terzo fattore era la necessità di restaurare l’immagine della Germania in Europa, grandemente danneggiata dalla gestione della crisi greca. Il paese non doveva più essere identificato con il volto arcigno della Bundesbank. Tuttavia, nel sottolineare più volte il fatto che la Germania è un paese forte e sano, Angela Merkel lascia intendere che solo l’esercizio ordinario del rigore permette l’esercizio straordinario della solidarietà. Severa o sollecita che sia la leadership continua risiedere a Berlino. In ogni modo l’operazione di immagine, a giudicare dagli osanna che si levano in mezza Europa e tra le file più fotografate dei profughi, è perfettamente riuscita. Senza peraltro dovere ricorrere ai proclami bellici di Londra e di Parigi.
Il quarto fattore è la consapevolezza del fatto che, debitamente governata, l’immigrazione, se a breve termine rappresenta un costo, sul lungo periodo costituisce una formidabile risorsa, soprattutto per un modello economico come quello tedesco. Si tratta allora di mettere a punto gli strumenti e i filtri necessari a questo governo e dunque un diritto di asilo europeo secondo schemi funzionali alla politica migratoria della Bundesrepublik.
Il lavoro è appena cominciato e c’è intanto da fare i conti con i nazionalismi più o meno xenofobi dell’Est europeo lungamente coccolati da Berlino. Ma, soprattutto, ci sono da stabilire i criteri di ammissione e di esclusione. In un primo momento sembrava che le porte della Germania si dovessero aprire ai soli siriani. Una discriminazione rispetto ad altre aree di conflitto armato non ammessa dalla Costituzione tedesca. Tuttavia non è ancora chiaro chi avrà diritto allo status di rifugiato. Di certo non chi proviene dai paesi balcanici (Albania, Serbia, Kosovo, Bosnia) dichiarati sicuri. Il criterio è semplice: una volta dichiarato un paese «sicuro» il rimpatrio sarà immediato. Ma questa definizione si presta alle più arbitrarie e interessate semplificazioni. Tanto più che in molti paesi la «sicurezza» garantita alla maggioranza, spesso non lo è altrettanto per le minoranze.
C’è da scommettere che, se questo sarà il discrimine, il mondo si scoprirà presto molto più sicuro di quanto non immaginasse.
E, tuttavia, una disponibilità al cambiamento, al rinnovamento delle società europee con il contributo dei migranti sembra essersi ormai diffuso tra i cittadini del Vecchio Continente e trova una qualche eco perfino nelle parole della Cancelliera alquanto inebriata dal suo stesso, inatteso, successo di pubblico. Una breccia è stata aperta su entrambi i lati della frontiera, una breccia che investe l’intero spazio pubblico europeo e che, su questa scala, deve essere allargata.
E, tuttavia, una disponibilità al cambiamento, al rinnovamento delle società europee con il contributo dei migranti sembra essersi ormai diffuso tra i cittadini del Vecchio Continente e trova una qualche eco perfino nelle parole della Cancelliera alquanto inebriata dal suo stesso, inatteso, successo di pubblico. Una breccia è stata aperta su entrambi i lati della frontiera, una breccia che investe l’intero spazio pubblico europeo e che, su questa scala, deve essere allargata.