Non abbiamo ancora parlato del crollo cinese in borsa perchè la questione divide gli analisti finanziari, e dunque è difficile per noi profani prendere una posizione netta.
Sembra difficile affermare che questo crollo porterà ad una crisi incontrollata come quella scoppiata in USA, e di seguito per ricasco in UE, per due motivi: il fatto che l'industria cinese è finanziata in minima misura dalla speculazione e il forte intervento pubblico in economia.
Tuttavia certo è che questo crollo rappresenta un ridimensionamento del modello cinese, che ha avuto un gap finanziario, cioè un'esplosione del credito slegata dall'economia reale, e dunque, come sempre in questi casi, una perdita di controllo del mercato immobiliare, con una crescita dei prezzi e degli investimenti fuori misura. E soprattutto, come ben sa ogni marxista, quando c'è un crollo finanziario c'è sempre anche a monte uno squilibrio dell'economia reale.
Il rallentamento economico mondiale sta facendo calare anche la crescita cinese, la cui politica economica si gioca tutta su questo modello di crescita all'infinito, e se la Cina, così come i suoi Paesi satelliti, non immaginerà un modello di sviluppo alternativo, anche il suo peculiare tipo di capitalismo avrà una crisi, probabilmente non un crac a causa della forte pianificazione economica, ma sicuramente grossi problemi dovuti all'integrazione dell'economia stessa.
E' il modello di sviluppo targato USA-FMI, fondato da una parte su una crescita artificiale mediante l'induzione di bisogni (e il consumo spropositato di risorse e materie prime e dunque le guerre economiche per il loro controllo) e dall'altra su uno squilibrio enorme della ricchezza, ad essere in crisi, e dunque a mettere in crisi l'intera economia, ed essendo una crisi legata alla produzione della ricchezza (cioè una massiccia estrazione di plusvalore dal salario a livello mondiale) e non solo alla sua distribuzione (che deriva appunto dalla concentrazione oligopolistica del Capitale a livello produttivo), è proprio primariamente sulla produzione che ci vuole una pianificazione e non solo sulla distribuzione.
Questa pianificazione, se ha salvato la Cina, è completamente annichilita dalle filosofie economiche neoliberiste che pretendono che lo Stato intervenga solo per decurtare salari e privatizzare ciò che è ancora pubblico, per cui si rischia che la locomotiva, se non viene aggiustata, possa deragliare con effetti imprevedibilmente tragici per tutti.
E credo che la vera sfida futura della sinistra occidentale sia incominciare a pensare un modello altro di produzione della ricchezza e non solo di redistribuzione del reddito, altrimenti si sposterà solo nel tempo la contraddizione e soprattutto non si fermerà il vorace espandersi dei Capitali nella destabilizzazione di intere aree mondiali, con le tragedie della fame, delle guerre, delle diaspore di enormi gruppi umani, diaspore oggi eufemisticamente chiamate migrazioni.
da http://ilmanifesto.info/chinadown-il-dilemma-di-pechino-per-controllare-i-mercati-azionari/
Cina. Dopo il lunedì nero, si attendono le decisioni del Pcc. I piccoli azionisti, circa 90 milioni e l’80 per cento degli operatori sul mercato azionario, hanno dimostrato di non fidarsi dei leader
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Sembra difficile affermare che questo crollo porterà ad una crisi incontrollata come quella scoppiata in USA, e di seguito per ricasco in UE, per due motivi: il fatto che l'industria cinese è finanziata in minima misura dalla speculazione e il forte intervento pubblico in economia.
Tuttavia certo è che questo crollo rappresenta un ridimensionamento del modello cinese, che ha avuto un gap finanziario, cioè un'esplosione del credito slegata dall'economia reale, e dunque, come sempre in questi casi, una perdita di controllo del mercato immobiliare, con una crescita dei prezzi e degli investimenti fuori misura. E soprattutto, come ben sa ogni marxista, quando c'è un crollo finanziario c'è sempre anche a monte uno squilibrio dell'economia reale.
Il rallentamento economico mondiale sta facendo calare anche la crescita cinese, la cui politica economica si gioca tutta su questo modello di crescita all'infinito, e se la Cina, così come i suoi Paesi satelliti, non immaginerà un modello di sviluppo alternativo, anche il suo peculiare tipo di capitalismo avrà una crisi, probabilmente non un crac a causa della forte pianificazione economica, ma sicuramente grossi problemi dovuti all'integrazione dell'economia stessa.
E' il modello di sviluppo targato USA-FMI, fondato da una parte su una crescita artificiale mediante l'induzione di bisogni (e il consumo spropositato di risorse e materie prime e dunque le guerre economiche per il loro controllo) e dall'altra su uno squilibrio enorme della ricchezza, ad essere in crisi, e dunque a mettere in crisi l'intera economia, ed essendo una crisi legata alla produzione della ricchezza (cioè una massiccia estrazione di plusvalore dal salario a livello mondiale) e non solo alla sua distribuzione (che deriva appunto dalla concentrazione oligopolistica del Capitale a livello produttivo), è proprio primariamente sulla produzione che ci vuole una pianificazione e non solo sulla distribuzione.
Questa pianificazione, se ha salvato la Cina, è completamente annichilita dalle filosofie economiche neoliberiste che pretendono che lo Stato intervenga solo per decurtare salari e privatizzare ciò che è ancora pubblico, per cui si rischia che la locomotiva, se non viene aggiustata, possa deragliare con effetti imprevedibilmente tragici per tutti.
E credo che la vera sfida futura della sinistra occidentale sia incominciare a pensare un modello altro di produzione della ricchezza e non solo di redistribuzione del reddito, altrimenti si sposterà solo nel tempo la contraddizione e soprattutto non si fermerà il vorace espandersi dei Capitali nella destabilizzazione di intere aree mondiali, con le tragedie della fame, delle guerre, delle diaspore di enormi gruppi umani, diaspore oggi eufemisticamente chiamate migrazioni.
da http://ilmanifesto.info/chinadown-il-dilemma-di-pechino-per-controllare-i-mercati-azionari/
Cina. Dopo il lunedì nero, si attendono le decisioni del Pcc. I piccoli azionisti, circa 90 milioni e l’80 per cento degli operatori sul mercato azionario, hanno dimostrato di non fidarsi dei leader

La foto che trovate qui sopra è una delle tante che hanno fatto il giro del mondo: anziani, pensionati cinesi, nell’atto di osservare i propri risparmi volatilizzarsi a causa del tonfo delle borse nazionali (che pure come media in generale hanno garantito numeri da record).
I pensionati che fanno parte dell’esercito dei «piccoli azionisti» sono stati considerati fino ad oggi non solo vittime del tonfo, ma anche i «responsabili» principali. Sarebbero stati loro i primi a vendere, terrorizzati dalla perdita non solo dei propri investimenti, ma perfino dei prestiti chiesti per investire (prestiti spesso ottenuti dal sistema delle «banche ombra»). Ma sul caso delle borse cinesi, non si può dire che gli analisti e gli «esperti» ci abbiano azzeccato sempre.
A sostenerlo è l’Economist, che proprio ieri, in uno dei suoi articoli apparsi on line, ritiene che la lettura dei «vecchietti impanicati» cinesi, in pieno «tao lao», persi cioè nei meandri del mercato azionario, non sia esatta, anzi. A perdere la testa — al contrario — sarebbero stati proprio i tanti giovani impegnati a giocare in borsa, poco avvezzi, al contrario dei loro nonni, ai ribaltamenti del mercato
Giovani, non anziani
Secondo la rivista britannica, nel 2004, il 27,8% di questo esercito di piccoli azionisti era composto da persone sotto i 30 anni, secondo statistiche dell’ente che regola il mercato azionario cinese.
Questa quota sarebbe salita al 36,1% entro il 2013. E all’inizio di quest’anno, «quando il mercato azionario era circa a metà di una bolla che ha visto i valori iniziali quasi triplicare in 12 mesi», la maggioranza degli azionisti erano giovani. Nel primo trimestre del 2015 il 62% di un numero record di nuovi azionisti (8 milioni) era composto da persone nate dopo il 1980. Al contrario, solo il 5% erano di età superiore ai 55 anni.
E non solo, perché secondo Reuters, che ne ha intervistato alcuni — che hanno chiesto di rimanere anonimi — sarebbero pronti, al minimo segnale di ripresa, a vendere tutto il vendibile per provare a recuperare le perdite. Il «Chinadown» dunque, avrebbe caratteristiche ben più complicate di quanto sospettato, non solo nei propri protagonisti, ma anche nelle proprie cause.
Anche se c’è un motivo principale che lega e tiene insieme tutte le motivazioni valide a spiegare quanto è successo, ovvero il nuovo dilemma, forse il più complicato, per la nuova dirigenza politica cinese.
Il sogno di Xi barcolla
Il dato di partenza è infatti il seguente: se è vero che la scoppola al mercato dello scorso 12 luglio (quello al termine del quale sono stati bruciati oltre tremila miliardi) è arrivato per il «panic sentiment» dei 90 milioni di piccoli investitori, è pure vero che il governo aveva immediatamente promesso misure in grado di contrastare le perdite. Divieto di vendita a chi aveva in dote più del 5 per cento di un titolo e la promessa che le aziende di stato avrebbero comprato anziché venduto.
Dopo la comunicazione, il silenzio. I primi effetti della promessa avevano funzionato, perché il mercato aveva «rimbalzato» dando fiducia circa un’emergenza rientrata. Ma alla lunga i piccoli azionisti, che secondo alcuni calcoli costituirebbero addirittura l’80 per cento degli operatori, si sarebbero nuovamente spaventati, ricominciando a vendere in modo frenetico.
Colpa del fatto che in seguito alle promesse, non sono arrivati atti ufficiali. Ne è conseguito il crollo di lunedì, e la giornata non certo positiva di ieri con la borsa di Shanghai ancora sotto tra l’1, 78 e il 3,63. Il dato confermerebbe dunque il fatto che chi opera in Cina ha poca fiducia nella classe dirigente e nelle scelte della politica e — allo stesso modo — attende proprio le decisioni del governo centrale per prendere le debite contromisure.
A questi fattori ne vanno aggiunti altri di natura economica: il passaggio, delicatissimo, della Cina da un’economia basata sull’esportazione ad una trainata dal mercato interno stenta. La crescita, per quanto sostenuta, si è abbassata e nel paese cominciano a serpeggiare sentimenti di sfiducia e pessimismo. In attesa di un segnale da Zhongnanhai, il Cremlino cinese.