da https://tutmonda.wordpress.com/2015/07/23/e-morto-da-schiavo-ogni-cosa-e-al-suo-posto-di-alessandra-sciurba/

di Alessandra Sciurba
Si chiamava Mohamed. Aveva 47 anni. Era di nazionalità sudanese. Raccoglieva pomodori a Nardò. Pochissime le notizie che si riescono a racimolare sulla morte di quest’uomo venuto da lontano che il 21 luglio si è accasciato sotto il sole battente della campagna pugliese.
Solo qualche articolo, tra quelli che segnalano più o meno velocemente la notizia, si sofferma su due particolari aspetti della sua vita. Mohamed era un rifugiato e lavorava senza contratto.
Un rifugiato, esattamente, come lo erano i migranti della rivolta di Rosarno, come lo sono la maggior parte dei lavoratori non appartenenti all’Unione europea che negli ultimi anni vengono impiegati nel settore agricolo italiano e non solo. Loro e i cittadini e le cittadine rumene sono ormai la maggioranza di questa forza lavoro essenziale per un sistema di produzione che si fonda strutturalmente sul neoschiavismo.
Come scrive Antonello Mangano nell’introduzione al suo “Ghetto economy”:
“Dalle serre del sud della Spagna alla Grecia, fino a Puglia, Sicilia e Calabria tutta l’Europa mediterranea produce alla stessa maniera i prodotti per i mercati del Nord. Il problema è che confondiamo un brutale modo di produzione con l’emergenza umanitaria”.
E dentro un’emergenza umanitaria ci sta anche che qualcuno muoia, o che allo sfruttamento si sommino il sequestro di persona, la violenza fisica, l’abuso sessuale.
Forse per questo sono cadute tanto spesso nel vuoto le denunce, le lucidissime analisi, le contro-narrazioni di chi da anni combatte a fianco dei migranti sfruttati, come la rete Campagne in lotta o gli attivisti di SoS Rosarno.
Mentre le normative europee e nazionali formalmente emanate per combattere lo sfruttamento e la tratta di esseri umani si sono sempre concentrate molto più sul “contrasto all’immigrazione irregolare” che sulla tutela dei diritti dei lavoratori e di queste lavoratrici, o sulla persecuzione dei “caporali” molto più che su quella dei “padroni”.
E oggi che la maggior parte degli schiavi e delle schiave delle campagne italiane ed europee sono richiedenti asilo o titolari di una qualche forma di protezione o sono addirittura cittadini Ue, queste norme rivelano più che mai tutta la loro inefficacia e la loro reale natura di spauracchio che incoraggia, invece che ostacolare, lo sfruttamento di migranti regolarmente soggiornanti. Nel momento in cui lo sfruttamento lavorativo viene perseguito in Italia attraverso gli articoli del codice penale che puniscono il “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” , l’assunzione di persone senza permesso di soggiorno, e l’intermediazione illecita (il caporalato) i datori di lavoro che si ritrovano a disposizione decine di migliaia di richiedenti asilo e rifugiati o di migranti interni all’Unione europea possono restare serenamente sicuri della propria impunità. E quando parliamo di datori di lavoro, e in generale di chi trae il maggiore profitto dallo sfruttamento, non dobbiamo riferirci solo ai piccoli e medi proprietari agricoli, ma provare a risalire l’intera filiera.
Come spiega ancora Mangano, infatti, “Esistono davvero gli invisibili delle campagne. Sono le multinazionali del pomodoro e del succo di frutta. Sono i padroni dei vini pregiati. Sono gli intermediari mafiosi padroni di aziende. E poi i commercianti della grande distribuzione e le agenzie internazionali di fornitura della manodopera. Personaggi appartenenti all’economia ufficiale che non hanno timore di contaminarsi con gli abissi dello sfruttamento e spesso della criminalità. Quello che conta è l’economicità del prodotto. L’assenza di sindacato. Il basso costo del lavoro”.
Nel frattempo, direttive europee come quella sulla tratta n. 36 /2011, certamente più avanzate e con un approccio maggiormente teso alla prevenzione e al contrasto strutturale del fenomeno, nonché alla difesa dei diritti di tutti i lavoratori e le lavoratrici sfruttati e vittime di tratta al di là del loro status giuridico, vengono depotenziate attraverso il loro recepimento negli ordinamenti nazionali, esattamente come è accaduto con il Decreto italiano n. 24 del 2014.
Perseguire esclusivamente i caporali e combattere la presenza dei lavoratori irregolari nelle campagne sono azioni che non intaccano il sistema di produzione. Come quando si pretende di affrontare le sfide poste dalle migrazioni che attraversano il Mediterraneo semplicemente attaccando gli scafisti e proteggendo le frontiere europee.
E l’accostamento è particolarmente efficace, adesso, perché sono spesso esattamente le stesse persone, in entrambi gli scenari, a subire le conseguenze di politiche che mai dichiarano i loro reali scopi, che sempre nascondono dietro il linguaggio dell’umanitarismo l’obiettivo di far perdurare e anzi rafforzare la violenza dello stato di cose presente.
Ma l’opinione pubblica italiana troverà certamente più “normale” e “appropriato” alla sua “natura” di profugo che Mohamed sia morto per qualche euro mentre raccoglieva i pomodori che arriveranno sulle nostre tavole e su quelle di mezzo mondo. Almeno non ha preteso di vivere da soggetto di diritti quale era, magari andando ad occupare una delle palazzine di Treviso i cui mobili sono stati dati alle fiamme dai fascisti col beneplacito di politici locali e abitanti della zona.
È rimasto al suo posto. Prima naufrago e poi schiavo. A dormire per terra, a farsi bruciare dal sole, come nelle storie mai troppo lontane dei neri dell’America del Sud.
Questa precisa inclusione differenziale rasserena tutti gli animi. Ci conforta. E del resto, per un uomo che scappa dalla guerra e dalla dittatura sudanese, cosa altro avrebbe la responsabilità di offrire l’Europa dei diritti umani?
Oggi è successo a Mohamed, come nel tempo era successo a decine di altri migranti africani tra Nardò, Rosarno, Alcamo, in maggioranza provenienti da paesi in guerra o fuggiti da persecuzioni.
Ma sarebbe potuto succedere anche ad Alina o a Luana, una delle tante donne rumene impiegate nelle serre del ragusano, dove molto spesso la tassa da pagare per poter lavorare è la prestazione sessuale messa a sistema. La mobilità europea è anche in questo senso sempre più stratificata e funzionale alla costruzione di linee di potere cui corrispondono precise cesure e distinzioni tra le persone che attraversano il continente: i miserabili dell’Ue si muovono verso i paesi che contano, a volte attraverso agenzie interinali internazionali che sono veri e propri strumenti di tratta, e qui vanno direttamente a occupare, insieme a richiedenti asilo e rifugiati, la loro posizione di servi o schiavi.
Ogni cosa quindi, è perfettamente in ordine. Nel mostruoso assetto economico e politico di questa Unione europea che ha tradito, passo dopo passo, tutti i principi su cui doveva fondarsi. Lo sfruttamento dei profughi e dei cittadini poveri dell’Ue nelle campagne del continente, a cominciare da quelle italiane, è forse uno dei sintomi più rappresentativi di questa desolante parabola.