PUBBLICHIAMO CON INTERESSE E PIACERE L'INTERVENTO DI UN NOSTRO COMPAGNO, CON ALCUNE SUE COMPETENTI RIFLESSIONI A PROPOSITO DEL CONCETTO DI PENA ED IN FAVORE DELL'AMNISTIA.
In questi mesi di lunghi confronti sull'opportunità di un provvedimento di amnistia ed indulto, la riflessione intorno alla funzione della pena ha trovato una rinnovata vitalità.
Una vitalità, però, umiliata.
La necessità da un lato della politica di cavalcare l'onda del sentimento popolare, dall'altro, appunto, della maggioranza degli italiani di giustificare il proprio desiderio di repressione penale e custodiale dei fenomeni criminali, ha alimentato la diffusa e radicata idea della inderogabilità della "pena" per la costruzione del nostro ordine sociale.
Ammesso e non concesso che una idea diffusa e radicata sia anche giusta, di quale scopo della pena, però, stiamo parlando?E' importante porsi questa domanda, perché ce ne sono più di uno e sono tra loro in contrapposizione.
Una pena può essere pensata per reinserire, oppure per escludere, può essere rivolta alla generalità dei consociati, oppure al singolo trasgressore, solo per fare un esempio base.
E' la differenza tra special-prevenzione e general-prevenzione, solo per fare un esempio.
Nell'odierno dibattito, più o meno, il refrain è questo: va bene le condizioni di malessere dentro le carceri, la violazione continua di diritti basilari e della dignità di decine di migliaia di donne e uomini reclusi come animali, ma chi ha sbagliato deve pagare!
Non rileva la persona detenuta e il suo potenziale reinserimento o l'umanità della pena - criteri sanciti dalla tanto amata, e difesa in piazza con inviti a seguire la c.d. "via maestra", costituzione -, non rileva l'interesse collettivo ad una riduzione dei tassi di criminalità.
Il "concetto" di pena che emerge è la riduzione di questa alla sola natura afflittiva, calibrata unicamente per retribuire un male arrecato, e nulla più.
La teoria retributiva, nata in epoca illuminista e fondata sullo schema contrattuale puro (al male arrecato dal fatto di reato deve conseguire una reazione punitiva equivalente), nella nostra epoca governata dalle pratiche di smantellamento del wel-fare e dalla crescita vertiginosa delle disuguaglianze sociali, invertendo il senso di giustizia 'assoluta' (cioè sciolta da altri scopi) che animò la prima, trasforma la pena in senso 'fondamentalista': la "vendetta" per chi, onesto cittadino, chiede "legge e ordine", lo strumento di controllo, per governi e mercati, di quella crescente moltitudine di esclusi dal mondo della produzione e dal mito dell'occupazione e della crescita.
Se nell'ottocento il criterio retributivo svolgeva il ruolo di temperare gli eccessi draconiani dell'ancien regime nella commisurazione della pena, oggi, sulla spinta delle pressioni meidatico-politiche securitarie, garantisce il grado di adattamento di questa al "public panic" di una società impaurita, cioè pene sproporzionate verso l'alto e riconduzione nel campo penale di qualsiasi comportamento sociale.
Parrebbe confermarsi la teoria secondo la quale la crescita delle percentuali di internati in istituti di pena, oltre alla portata reale dell'agire criminale e al di là delle stesse produzioni normative, sia dettata, in maniera sensibile e determinante, dalla domanda di penalità che proviene dalla società.
Ancor più interessante è questa riflessione se - così rispondendo anche a chi sostiene che l'amnistia e l'indulto sarebbero risposte sbagliate perché temporanee, visto il veloce reingresso, stando le cose, dei beneficiari - valutiamo le statistiche che emergono da una osservazione degli effetti dell'indulto del 2006.
Dati alla mano (la fonte è uno studio dell'Università di Torino che ha monitorato negli anni gli effetti del provvedimento), il tasso di recidiva di coloro che hanno beneficiato della misura si assesta sul 28,45%, contro il 68 %, che è il tasso di recidiva media di coloro che subiscono una condanna detentiva senza sconti.
Lo studio sottolinea anche come il tasso di recidività di coloro che hanno subito più condanne detentive, e quindi vissuto più esperienze carcerarie, sia esponenzialmente più alto di chi si trovi alla prima esperienza in un istituto di pena.
Dulcis in fundo, così anche per sfatare un po' di razzismo d'accatto che è sempre serpeggiante, viene rilevato come il tasso di recidiva tra gli italiani raggiunga il 31,99%, contro il 21,36% degli stranieri (più di dieci punti percentuali!).
Se aggiungiamo i dati del DAP (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria) del 2011, il tasso di recidiva, trascorsi sette anni dalla conclusione della pena, è del 68,4% quando questa è stata scontata in carcere, del 19% in caso di concessione delle misure alternative.
I dati si commentano da soli, eppure amnistia ed indulto no.
La domanda di sicurezza che origina dal basso, coltivata per decenni, non la contempla, finendo per legittimare una pratica di internamento generalizzato per quella che negli USA viene definita la "under dog class".
Carceri stipate di tossicodipendenti, giovani condannati per reati contro il patrimonio e appartenenti alle minoranze etniche compongono il mosaico di una marginalità repressa e che si è deciso di neutralizzare buttando via la chiave.
Quei soggetti che per condizioni materiali sono più necessitati di altri all'illecito diventano il capro espiatorio di una struttura sociale che non si pone più l'obiettivo di progredire nel suo complesso, ma che decide, scientemente, di abbandonare a se stessa una parte della popolazione, semplicemente incapacitandola.
Le leggi sugli stupefacenti, sulla immigrazione clandestina e sull'istituto della recidiva, diventano lo strumento per la selezione del pericolo e, allo stesso tempo, per dare risposta alla senso di vittimizzazione di fronte al crimine da parte della società.
E' il nuovo populismo penale, e non è un caso che siano state formazioni come la Lega Nord e il M5S ad opporsi più radicalmente sia all'indulto, che al decreto "svuota carceri" di luglio (convertito in legge 9 agosto 2013 n.94), il quale ha introdotto soluzioni in controtendenza sulla "messa in prova" e sulle misure e benefici penitenziari, seppur insufficienti.
Sfaldata ogni solidarietà umana e politica all'interno della società, il patto di comunità si cementa nella crociata verso il più debole.
Se storicamente, come anche la sociologia del diritto ci spiega nelle analisi sulla "funzione materiale della pena", il castigo legale ha sempre svolto il compito di conservare lo status quo attraverso una costruzione piramidale della società, oggi, nella società della comunicazione che culla il processo di formazione delle "democrazie di opinione", la pena si arricchisce dell'ulteriore compito pedagogico di educare la popolazione all'esclusione sociale, all'emarginazione del diverso, all'allontanamento del povero e indigente.
La pena non si accontenta più di imporre un ordine, pretende che le "virtù" alla base di questo siano condivise.
Ecco che, allora, diventa possibile, per alcuni, morire in carcere da malati terminali, suicidarsi, o, ancora,compiere continui atti di autolesionismo, mentre, per altri, è possibile ottenere gli arresti domiciliari sulla base di una perizia medica che, a sostegno della scarcerazione, adduce tra le altre motivazioni, "un disturbo dell'adattamento, che è un evento stressante in modo più evidente per chi sia alla prima detenzione e IN PARTICOLAR MODO per chi sia abituato ad una vita particolarmente agiata, nella quale abbiano avuto poche possibilità di formarsi in situazioni che possono, anche lontanamente, preparare alle condizioni di restrizione della libertà e promiscuità correlate alla carcerazione" (stralcio della perizia medica che ha determinato la scarcerazione di Giulia Ligresti).
Se sei ricco, il carcere è nocivo, anche perché saresti costretto a vivere promiscuamente con i poveretti in condizioni ostili e non consone allo status, e non sei abituato, se sei economicamente disagiato, ti sei già sicuramente fatto le ossa, cosa vuoi che siano quattro sbarre!
In una intervista di Ascanio Celestini ad alcuni detenuti di Rebibbia alla domanda "che cosa ti senti di dire a chi sta fuori", un carcerato rispondeva "che il carcere è un problema di tutti, perché chiunque potrebbe commettere uno sbaglio o avere propri cari detenuti".
Sarebbe opportuno rifletterci prima che ciò accada, dopo è già scontato che diventeremmo tutti abolizionisti.
Lo diventano perfino i ricchi. Dimenticavo, loro sono giustificati, non sono mica preparati.
(Alessandro Genovali)

Una vitalità, però, umiliata.
La necessità da un lato della politica di cavalcare l'onda del sentimento popolare, dall'altro, appunto, della maggioranza degli italiani di giustificare il proprio desiderio di repressione penale e custodiale dei fenomeni criminali, ha alimentato la diffusa e radicata idea della inderogabilità della "pena" per la costruzione del nostro ordine sociale.
Ammesso e non concesso che una idea diffusa e radicata sia anche giusta, di quale scopo della pena, però, stiamo parlando?E' importante porsi questa domanda, perché ce ne sono più di uno e sono tra loro in contrapposizione.
Una pena può essere pensata per reinserire, oppure per escludere, può essere rivolta alla generalità dei consociati, oppure al singolo trasgressore, solo per fare un esempio base.
E' la differenza tra special-prevenzione e general-prevenzione, solo per fare un esempio.
Nell'odierno dibattito, più o meno, il refrain è questo: va bene le condizioni di malessere dentro le carceri, la violazione continua di diritti basilari e della dignità di decine di migliaia di donne e uomini reclusi come animali, ma chi ha sbagliato deve pagare!
Non rileva la persona detenuta e il suo potenziale reinserimento o l'umanità della pena - criteri sanciti dalla tanto amata, e difesa in piazza con inviti a seguire la c.d. "via maestra", costituzione -, non rileva l'interesse collettivo ad una riduzione dei tassi di criminalità.
Il "concetto" di pena che emerge è la riduzione di questa alla sola natura afflittiva, calibrata unicamente per retribuire un male arrecato, e nulla più.
La teoria retributiva, nata in epoca illuminista e fondata sullo schema contrattuale puro (al male arrecato dal fatto di reato deve conseguire una reazione punitiva equivalente), nella nostra epoca governata dalle pratiche di smantellamento del wel-fare e dalla crescita vertiginosa delle disuguaglianze sociali, invertendo il senso di giustizia 'assoluta' (cioè sciolta da altri scopi) che animò la prima, trasforma la pena in senso 'fondamentalista': la "vendetta" per chi, onesto cittadino, chiede "legge e ordine", lo strumento di controllo, per governi e mercati, di quella crescente moltitudine di esclusi dal mondo della produzione e dal mito dell'occupazione e della crescita.
Se nell'ottocento il criterio retributivo svolgeva il ruolo di temperare gli eccessi draconiani dell'ancien regime nella commisurazione della pena, oggi, sulla spinta delle pressioni meidatico-politiche securitarie, garantisce il grado di adattamento di questa al "public panic" di una società impaurita, cioè pene sproporzionate verso l'alto e riconduzione nel campo penale di qualsiasi comportamento sociale.
Parrebbe confermarsi la teoria secondo la quale la crescita delle percentuali di internati in istituti di pena, oltre alla portata reale dell'agire criminale e al di là delle stesse produzioni normative, sia dettata, in maniera sensibile e determinante, dalla domanda di penalità che proviene dalla società.
Ancor più interessante è questa riflessione se - così rispondendo anche a chi sostiene che l'amnistia e l'indulto sarebbero risposte sbagliate perché temporanee, visto il veloce reingresso, stando le cose, dei beneficiari - valutiamo le statistiche che emergono da una osservazione degli effetti dell'indulto del 2006.
Dati alla mano (la fonte è uno studio dell'Università di Torino che ha monitorato negli anni gli effetti del provvedimento), il tasso di recidiva di coloro che hanno beneficiato della misura si assesta sul 28,45%, contro il 68 %, che è il tasso di recidiva media di coloro che subiscono una condanna detentiva senza sconti.
Lo studio sottolinea anche come il tasso di recidività di coloro che hanno subito più condanne detentive, e quindi vissuto più esperienze carcerarie, sia esponenzialmente più alto di chi si trovi alla prima esperienza in un istituto di pena.
Dulcis in fundo, così anche per sfatare un po' di razzismo d'accatto che è sempre serpeggiante, viene rilevato come il tasso di recidiva tra gli italiani raggiunga il 31,99%, contro il 21,36% degli stranieri (più di dieci punti percentuali!).
Se aggiungiamo i dati del DAP (Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria) del 2011, il tasso di recidiva, trascorsi sette anni dalla conclusione della pena, è del 68,4% quando questa è stata scontata in carcere, del 19% in caso di concessione delle misure alternative.
I dati si commentano da soli, eppure amnistia ed indulto no.
La domanda di sicurezza che origina dal basso, coltivata per decenni, non la contempla, finendo per legittimare una pratica di internamento generalizzato per quella che negli USA viene definita la "under dog class".
Carceri stipate di tossicodipendenti, giovani condannati per reati contro il patrimonio e appartenenti alle minoranze etniche compongono il mosaico di una marginalità repressa e che si è deciso di neutralizzare buttando via la chiave.
Quei soggetti che per condizioni materiali sono più necessitati di altri all'illecito diventano il capro espiatorio di una struttura sociale che non si pone più l'obiettivo di progredire nel suo complesso, ma che decide, scientemente, di abbandonare a se stessa una parte della popolazione, semplicemente incapacitandola.
Le leggi sugli stupefacenti, sulla immigrazione clandestina e sull'istituto della recidiva, diventano lo strumento per la selezione del pericolo e, allo stesso tempo, per dare risposta alla senso di vittimizzazione di fronte al crimine da parte della società.
E' il nuovo populismo penale, e non è un caso che siano state formazioni come la Lega Nord e il M5S ad opporsi più radicalmente sia all'indulto, che al decreto "svuota carceri" di luglio (convertito in legge 9 agosto 2013 n.94), il quale ha introdotto soluzioni in controtendenza sulla "messa in prova" e sulle misure e benefici penitenziari, seppur insufficienti.
Sfaldata ogni solidarietà umana e politica all'interno della società, il patto di comunità si cementa nella crociata verso il più debole.
Se storicamente, come anche la sociologia del diritto ci spiega nelle analisi sulla "funzione materiale della pena", il castigo legale ha sempre svolto il compito di conservare lo status quo attraverso una costruzione piramidale della società, oggi, nella società della comunicazione che culla il processo di formazione delle "democrazie di opinione", la pena si arricchisce dell'ulteriore compito pedagogico di educare la popolazione all'esclusione sociale, all'emarginazione del diverso, all'allontanamento del povero e indigente.
La pena non si accontenta più di imporre un ordine, pretende che le "virtù" alla base di questo siano condivise.
Ecco che, allora, diventa possibile, per alcuni, morire in carcere da malati terminali, suicidarsi, o, ancora,compiere continui atti di autolesionismo, mentre, per altri, è possibile ottenere gli arresti domiciliari sulla base di una perizia medica che, a sostegno della scarcerazione, adduce tra le altre motivazioni, "un disturbo dell'adattamento, che è un evento stressante in modo più evidente per chi sia alla prima detenzione e IN PARTICOLAR MODO per chi sia abituato ad una vita particolarmente agiata, nella quale abbiano avuto poche possibilità di formarsi in situazioni che possono, anche lontanamente, preparare alle condizioni di restrizione della libertà e promiscuità correlate alla carcerazione" (stralcio della perizia medica che ha determinato la scarcerazione di Giulia Ligresti).
Se sei ricco, il carcere è nocivo, anche perché saresti costretto a vivere promiscuamente con i poveretti in condizioni ostili e non consone allo status, e non sei abituato, se sei economicamente disagiato, ti sei già sicuramente fatto le ossa, cosa vuoi che siano quattro sbarre!
In una intervista di Ascanio Celestini ad alcuni detenuti di Rebibbia alla domanda "che cosa ti senti di dire a chi sta fuori", un carcerato rispondeva "che il carcere è un problema di tutti, perché chiunque potrebbe commettere uno sbaglio o avere propri cari detenuti".
Sarebbe opportuno rifletterci prima che ciò accada, dopo è già scontato che diventeremmo tutti abolizionisti.
Lo diventano perfino i ricchi. Dimenticavo, loro sono giustificati, non sono mica preparati.
(Alessandro Genovali)